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Ricreare un rene in laboratorio

Partendo dall'impalcatura di tessuto connettivo di un rene di ratto, un gruppo di ricercatori americani ha ricostruito in laboratorio un rene vero e proprio, in grado di filtrare sangue e di produrre urina.

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Partendo dall'impalcatura di tessuto connettivo di un rene di ratto, un gruppo di ricercatori americani ha ricostruito in laboratorio un rene vero e proprio, in grado di filtrare sangue e di produrre urina. 

In Italia sono quasi quarantamila le persone in terapia con emodialisi, un trattamento che, se da un lato permette di sopperire all’insufficienza renale, dall’altro compromette notevolmente la qualità della vita delle persone. Per molti di questi pazienti, la malattia porta inevitabilmente alla necessità di un trapianto. In Italia, sono circa seimilaseicento le persone in attesa di un rene, mentre negli Stati Uniti la lista d’attesa conta quasi centomila persone. Per rispondere a questa enorme richiesta e aggirare l’ostacolo della compatibilità, i ricercatori sognano da tempo un modo per creare in laboratorio reni ad hoc, pronti per essere trapiantati in chiunque ne avesse la necessità. Ricercatori del Massachusetts General Hospital di Boston, guidati da Harald Ott, hanno messo a punto una metodica che permette di ricreare – letteralmente – un organo in laboratorio. Partendo dall’impalcatura di tessuto connettivo di reni di ratto, di maiale e di uomo, i ricercatori americani hanno ricostruito in laboratorio un organo che è un rene a tutti gli effetti, in grado di filtrare sangue e di produrre urina.

Per fare un rene in laboratorio ci vuole...
Innanzitutto, ci vuole un’impalcatura di tessuto connettivo: un supporto che permetta di organizzare le cellule epiteliali (del rene) ed endoteliali (dei vasi sanguigni) nella posizione reciproca giusta per permettere il funzionamento dell’organo. La prima tappa di questo complicato processo è stata quella della de-cellularizzazione: i ricercatori hanno espiantato i reni da ratti e li hanno sottoposti ad un trattamento con detergenti che ha permesso di eliminare tutte le cellule dall’organo. Ciò che è rimasto al termine della procedura era l’impalcatura di tessuto connettivo. Questa struttura, chiamata in termini tecnici scaffold, è costrituita dalla fibre di tessuto connettivo permettono alle cellule di un tessuto di organizzarsi tridimensionalmente nella struttura complessa di un organo. A questo punto, l’impalcatura ormai vuota è stata “ripopolata” con due tipi di cellule. Le prime erano cellule endoteliali umane, necessarie per ricostruire la rete di vasi sanguigni fondamentale per irrorare l’organo di sangue e nutrienti, ma anche per permettere al rene di svolgere la sua funzione di “filtro”. Il secondo tipo di cellule erano precursori in grado di generare tutte le componenti cellulari necessarie alla ricostituzione del rene.

I vantaggi di un rene “su misura”
Il metodo utilizzato dal Laboratorio di Ott presenta notevoli vantaggi rispetti ad altri approcci sviluppati fino ad oggi. Innanzitutto, la procedura di de-cellularizzazione permette di eliminare le cellule del donatore, quelle riconosciute come estranee dal sistema immunitario di chi riceve il trapianto e che causano spesso il rigetto dell’organo trapiantato. In secondo luogo, pur eliminando le cellule del tessuto renale, la procedura di Ott preserva l’impalcatura tridimensionale delle fibre di tessuto connettivo, agevolando moltissimo la seconda fase del protocollo, la più complessa: pur disponendo di metodiche in grado di far crescere in vivo cellule renali e vasi ematici, sarebbe infatti impossibile organizzare queste cellule nella complessa struttura che caratterizza l’organo in vivo. Il metodo di Ott aggira l’ostacolo: anziché cercare di ricostruire in vitro l’impalcatura, perché non utilizzare quella già preparata dalla natura?
Incredibilmente – e, in gran parte, in modo ancora inspiegabile per i ricercatori stessi – le diverse cellule che compongono il rene si vanno a posizionare proprio lì dove ci si aspetterebbe di trovarle in un organo normale. Ad esempio, dopo il processo di ripopolamento dell’organo, le cellule chiamate podociti si vengono a trovare proprio attorno ai glomeruli, le strutture preposte a filtrare il sangue.

Nel video realizzato da Nature (in inglese, da canale YouTube della rivista Nature), i ricercatori spiegano come avvenga la procedura di de-cellularizzazione e di creazione del rene in laboratorio:


Un rene nuovo su richiesta? Ancora troppo presto
Nonostante i risultati incoraggianti, i ricercatori stessi non nascondono che, prima che si possa anche lontanamente pensare di trasferire il procedimento alla clinica, gli aspetti da migliorare sono ancora molti. Ad esempio, una volta trapiantati nell’animale, i reni di ratto – seppur in grado di riprendere a funzionare – lo fanno con una performance ancora lontana dalle condizioni ottimali e  arrivano a produrre solo un terzo dell’urina normalmente secreta da un rene sano. In aggiunta a questo, l’eliminazione della creatinina (un prodotto di scarto del metabolismo muscolare utilizzato come parametro del buon funzionamento renale) è ben trentasei volte più lenta del normale.
Si tratta di limiti che non possono essere presi sotto gamba, ma non bisogna dimenticare che i sistemi biologici funzionano spesso molto di più di quanto strettamente necessario. Come ricorda Ott, «molti pazienti iniziano a sottoporsi a dialisi solo quando la funzionalità renale scende al di sotto del 15%. Se potessimo creare in laboratorio organi in grado di fornire almeno il 20% della funzionalità renale ottimale, questo sarebbe già sufficiente a rendere il paziente indipendente dalla dialisi».

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