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Evoluzione della visione tricromatica: finalmente vediamo la luce!

Ci sono voluti più di vent’anni, ma alla fine ce l’hanno fatta. Ripercorrendo a ritroso le mutazioni dei fotorecettori, gli scienziati hanno ricostruito le tappe necessarie per trasformare la visione limitata dei primi mammiferi nel caleidoscopio a tre colori captato dall’occhio umano.
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Ci sono voluti più di vent’anni di paziente ricerca, ma alla fine ce l’hanno fatta. Ripercorrendo a ritroso le mutazioni e i vicoli ciechi evolutivi dei fotorecettori visivi, i ricercatori della Emory University sono riusciti a ricostruire le tappe necessarie per trasformare la visione limitata dei primi mammiferi nel caleidoscopio a tre colori captato dall’occhio umano. Per una visione tricromatica ci vuole… Prendete un pigmento sensibile alla sola luce ultravioletta (UV) e assicuratevi di avere a disposizione almeno 60 milioni di anni: nel corso di questo periodo aggiungete al pigmento sette mutazioni, in rigoroso ordine. Ecco svelata la “ricetta” per l’evoluzione della visione umana, così come è stata identificata dal gruppo di ricerca di Shozo Yokomama. Ma partiamo dall’inizio. Esistono cinque classi di geni codificanti per le opsine, le proteine espresse all'interno dei fotorecettori dell'occhio (coni e dei bastoncelli): interagendo con i pigmenti visivi, le opsine permettono di captare la luce e che garantiscono la visione notturna, così come quella a colori. Grazie ai diversi tipi di opsine, sensibili a diverse lunghezze d'onda della luce, l'occhio umano è in grado di captare la luce nelle frequenze del rosso, del blu e del verde. Ma non è sempre stato così. Circa 90 milioni di anni fa, i nostri antenati erano mammiferi notturni, la cui visione era adatta agli ambienti con poca illuminazione. I loro pigmenti erano in grado di captare la luce UV e la luce nello spettro del rosso, garantendo così una visione bicromatica. L’ambiente ha poi iniziato a cambiare e i mammiferi ancestrali hanno dovuto adattarsi gradualmente ad esso: uno degli adattamenti più importanti è stato proprio quello della visione. Grazie ad una serie di mutazioni ai geni delle opsine, i mammiferi di 30 milioni di anni fa sono divenuti in grado di captare la luce “blu”, quella a basse lunghezze d’onda. Questa modifica ha però avuto un prezzo e i nostri antenati hanno perso così la possibilità di captare la luce UV. Il tutto è avvenuto mediante sette mutazioni in rigorosa sequenza: se l’ordine di ingresso in scena delle mutazioni fosse cambiato, il risultato sarebbe stato un vicolo cieco evolutivo, come dimostrato dagli esperimenti di Yokomama. A questo punto del processo evolutivo, dalla duplicazione del gene originario si sono generati altri due pigmenti, sensibili alle componenti della luce con lunghezze d’onda medie e lunghe: è nata così la visione tricromatica tipica dell’uomo, ma anche di molti altri mammiferi, come gorilla e scimpanzé. Tante strade possibili, ma una sola è quella giusta Il team di ricerca guidato da Yokomama ha passato il tempo a scandagliare, con precisione e pazienza certosina, tutte le possibili mutazioni coinvolte nell’evoluzione del pigmento SWS1 umano (sensibile alla luce blu). Lo studio ha visto coinvolti genetisti, chimici, bioinformatici e biologi cellulari: un approccio multidisciplinare che ha permesso di capire non solo le possibili vie seguite dall’evoluzione, ma anche la ricaduta sulle caratteristiche chimiche delle proteine e sulle loro capacità di captare le diverse lunghezze d’onda della luce. I genetisti hanno identificato più di cinquemila percorsi evolutivi possibili: per la precisione, 5040 combinazioni di mutazioni necessarie per riprodurre le caratteristiche dalla visione umana. Di tutte queste possibili strade, però, circa l’80% è un vicolo cieco: testando in laboratorio l’effetto di molte mutazioni, i ricercatori si sono accorti che impedivano al pigmento di legare la molecola d’acqua, un requisito indispensabile per il suo funzionamento. Rimanevano a disposizione poco più di mille altri possibili percorsi: i nostri antenati ne hanno imboccato uno soltanto, percorrendolo fino alla fine. Un percorso che oggi è stato finalmente svelato in tutte le sue tappe fondamentali, svelate sulle pagine di PLOS Genetics. L’aspetto del mondo è negli occhi di chi guarda E’ interessante come l’evoluzione del pigmento SWS1 abbia seguito strade molto diverse a seconda del ramo filogenetico. In passato, il medesimo adattamento era stato identificato da Yokomama nel pesce sciabola, che oggi vive a profondità di 100 metri: nel corso del tempo, la capacità visiva del pesce, originariamente sensibile agli UV, si è trasformata in una visione a colori. Per farlo, però, ci è voluta solo una mutazione: decisamente meno delle sette di cui hanno avuto bisogno i nostri antenati. Una differenza così netta è forse dovuta alla diversa pressione dell’ambiente: con tutta probabilità, l’ambiente dei nostri antenati è mutato in modo molto più lento e graduale, mentre quello del pesce sciabola deve aver subito un cambiamento tanto repentino da richiedere un adattamento immediato.
Lo stesso fiore appare molto diverso a seconda che a guardarlo sia l'occhio di un furetto , di un essere umano o di una coccinella (Foto: Jolyon Troscianko).
Ancora diversa deve essere stata la strada evolutiva negli uccelli, nei quali il pigmento SWS1 ha riacquisito nel tempo la capacità di captare la luce UV. Percorsi diversi che hanno portato gli esseri viventi ad avere una visione piuttosto diversa delle cose: agli altri animali il mondo appare molto diverso da come appare a noi. Foto Banner e Box: Wikimedia Commons
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