Aula di Scienze

Aula di Scienze

Persone, storie e dati per capire il mondo

Speciali di Scienze
Materie
Biologia
Chimica
Fisica
Matematica
Scienze della Terra
Tecnologia
I blog
Sezioni
Come te lo spiego
Science News
Podcast
Interviste
Video
Animazioni
L'esperto di matematica
L'esperto di fisica
L'esperto di chimica
Chi siamo
Cerca
Biologia e dintorni

Libera il siamese che c’è in te

La sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) ha una componente genetica? O dipende interamente dall'ambiente? L'intelligente risposta di Steve Jones, fra i maggiori studiosi del pensiero genetico ed evolutivo.
leggi

"Contano di più i geni o l’ambiente?" Sfido qualunque biologo, medico, scienziato a dirmi quante volte si è sentito rivolgere questa domanda. “Contano entrambi” è sempre stata la mia risposta, laconica, insoddisfacente, inadeguata per chi, già nel formulare il quesito, sembrava essersi preformato una preferenza.

Fra genetica e ambiente non c’è partita e non c’è fazione. Il gioco è molto più complesso e interessante, purché si voglia sfatare uno dei più grandi miti della scienza moderna. Steve Jones, professore di genetica alla University College London, ci riesce in maniera esemplare, con il commento che ha scritto per Lancet la settimana scorsa.
 
Steve Jones è uno dei maggiori studiosi britannici di genetica ed evoluzione. Che cosa ci fa il suo contributo su una famosa rivista di medicina? Tutto comincia con la notizia, apparsa prima su Lancet e poi sui media, che la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD è l’acronimo inglese) avrebbe una componente genetica. Apriti cielo! Come da copione (quante volte lo abbiamo visto) le due fazioni si scatenano in una partita insensata fra due squadre del cuore, geni o ambiente, che non possono ammettere un pareggio.
 
“La biologia è raramente pura e mai semplice. Il Progetto Genoma Umano ha trasformato la genetica da un semplice piatto a base di piselli a qualcosa di più simile a una zuppa di legumi”. In pochi hanno però preso nota di questa trasformazione. Forse anche perché i genetisti non si sono dati troppa pena di spiegare che se Mendel vive e lotta insieme a noi, da Mendel a oggi tante cose si sono aggiunte e trasformate nel quadro composito della conoscenza biologica.
 
Sui banchi e sui libri di scuola la genetica è troppo spesso insegnata attraverso il dogma “un gene, un carattere”. Facile, cartesiano, troppo semplice per funzionare se non in casi sporadici. La realtà è ben più varia di come la immaginiamo. Per capire come un carattere si manifesta il più delle volte, lasciamo da parte un momento gli esseri umani (verso i quali non abbiamo mai sufficiente distacco) e proviamo a riflettere sui gatti.
 
“Dentro ogni siamese c’è un gatto nero che lotta per venire fuori”. Il pelo nero di solito si concentra nelle parti più fredde, il muso, la coda, le orecchie (i testicoli se il gatto è maschio). Sì, perché soltanto nelle parti meno riscaldate del siamese funziona la tirosinasi, un enzima da cui si forma la melanina. Nel gatto siamese la tirosinasi è difettosa e sensibile alla temperatura. Se l’errore è genetico, l’effetto sul pelo è però determinato dall’ambiente: mettiamo un piccolo siamese a crescere in una camera fredda e vedremo il suo pelo diventare scuro; viceversa, se lo alleviamo in una serra avremo un gatto bianco. Un siamese che sia pura genetica o puro ambiente semplicemente non esiste!
 
Liberiamo allora il siamese che c’è in noi e ammettiamo, per una volta, di essere complicati almeno quanto un gatto potenzialmente nero o bianco. Natura e nutrimento, genetica e ambiente, eredità ed educazione, ciascuno con influenze numerosissime e singolarmente minime, lavorano insieme in maniera inestricabile. I loro effetti integrati plasmano ogni parte del nostro corpo e della nostra personalità, dal colore dei capelli a quello degli occhi, dalla suscettibilità a una certa malattia fino al caratteraccio che a volte ci viene rinfacciato. A parte malattie e caratteri rarissimi, dovuti a una variazione in un singolo gene, gran parte della diversità umana sembra proprio essere dovuta all'incontro casuale fra costellazioni di segmenti di DNA e circostanze del mondo esterno. Questo è probabilmente il caso anche dell'ADHD.
 
Data la natura insolubile dell’interazione fra genetica e ambiente, si capisce bene “quanto è equivoca l’affermazione che un particolare gene codifica per il colore del pelo, dato che – come abbiamo appena visto – la stessa mutazione può fare diverse cose in circostanze differenti”.
 
Ma Jones va oltre. “L’aspetto del gatto (almeno in principio) può essere modificato con uguale efficacia da una sofisticata terapia genica come da una semplice rotazione del termostato. Quanto sia intricato il cammino che porta dalla doppia elica al colore del pelo emerge, peraltro, dalla recente scoperta che alcuni topi mutanti possono avere il loro aspetto alterato se alla madre che li allatta sono somministrate sostanze chimiche che modificano l’espressione genica. La strada verso l’eccitante prospettiva di una pillola anti-siamese è aperta”.
 
Dopo questa ironica stoccata nei confronti degli annunci quotidiani di scoperte scientifiche eclatanti, Steve Jones conclude ricordando che “il gatto dal muso nero è un esempio meraviglioso di come ciò che sembra semplice, semplice non è, e di come natura e ambiente lavorano insieme”.

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento