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Biologia e dintorni

Effetti placebo (e nocebo) in 5 puntate/2

Che cos'è un effetto placebo? Qual è la sua storia? Che cosa accade nel cervello quando si induce un effetto placebo? Funziona solo per modulare il dolore? Come si studia e come si misura? È lecito mentire a un paziente, seppure a fin di bene, o è meglio istruirlo? Tante domande per altrettante risposte, in 5 puntate, su Biologia e dintorni.
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2. Un po’ di storia 

Nella prima puntata vi ho raccontato che cosa è e che cosa non è un effetto placebo. In questa seconda puntata vedremo le origini dell'effetto placebo fino alla prima dimostrazione molecolare.

La vicenda è ambigua fin dalle origini. In latino placebo significa “io farò piacere” e nel Medioevo questo verbo si trovava nel primo verso dei canti intonati da persone assoldate per partecipare ai riti funebri. Da quelle emozioni espresse a pagamento, e per questo considerate insincere, il termine placebo conserva ancora oggi il sapore ambiguo della menzogna detta a fin di bene.

Tentativi di controlli placebo iniziano attorno al 1500, ancora nel contesto religioso, quando cattolici“progressisti” cercano di screditare gli esorcismi praticati negli ambienti religiosi più retrogradi.
Esorcismo in Francia, 1575 (Houghton Library, Harvard University).
 
Il primo uso di un controllo placebo in un esperimento medico ha sfatato il mito del mesmerismo nel 1784. Franz Anton Mesmer era un medico austriaco che sosteneva di avere scoperto il cosiddetto “magnetismo animale” in un “fluido”, la cui mancanza sarebbe stata la causa di numerose malattie. Insieme alla teoria, Mesmer aveva inventato una terapia cui diede il nome di mesmerismo. L’enorme successo popolare del mesmerismo aveva scatenato un’aspra controversia fra scettici e credenti. Per risolvere la questione, il re di Francia, Luigi XVI, aveva creato un’apposita commissione che avrebbe dovuto stabilire se nel trattamento vi fosse davvero una nuova forza fisica. La commissione scientifica, diretta da Benjamin Franklin e Antoine Lavoisier, aveva suddiviso i pazienti in due gruppi e a ciascun gruppo aveva somministrato oggetti o preparati che erano stati trattati o meno con il fluido mesmerico. Un paziente svenne al contatto con una pianta che credeva mesmerizzata, anche se in realtà non lo era; lo stesso paziente non aveva invece reagito al contatto con un altro albero, che pure era stato trattato col fluido, senza che lui lo sapesse. Dopo che altri risultati incoerenti come questi si ripeterono con numerosi altri pazienti, la commissione concluse che nel fluido non esisteva alcun agente curativo e che ogni effetto era dovuto all’immaginazione.
 
Il mesmerismo sfatato (Biblothèque Nationale de France).
 
Dal Settecento francese saltiamo alla Seconda guerra mondiale. All’epoca il colonnello americano Henry Becher era di servizio al fronte. Negli ospedali da campo dell’Europa occidentale Beecher incontrò più di 200 soldati gravemente feriti, ma ancora in grado di esprimersi in maniera coerente. Uno dei suoi obiettivi era stabilire una relazione fra la gravità di una lesione e la quantità di dolore percepito. A ogni soldato il colonnello Beecher chiese se desiderava ricevere morfina: il 75% declinò l’offerta. Beecher rimase sbalordito, poiché per esperienza sapeva che civili con ferite di simile gravità avrebbero pregato per avere la morfina e inoltre aveva visto soldati sani lamentarsi per fastidi banali come un’iniezione. Beecher concluse che la capacità dei soldati di sentire meno dolore era dovuta alle circostanze e in particolare alle aspettative: una persona che ha appena subito un attacco terribile ed è (miracolosamente) sopravvissuta, solo per il fatto di essere ancora in vita ha un atteggiamento positivo che aiuta a ridurre la percezione del dolore.
 
Il dottor Henry K. Beecher
(https://www.countway.harvard.edu/chm/archives/iotm/iotm_2002-01.html).
 
L’osservazione empirica dell’effetto placebo portò Beecher a pubblicare nel 1955 un articolo, intitolato The powerful placebo, che è stato un importantissimo spartiacque. Da quel momento in poi gli scienziati hanno iniziato a studiare che cosa accade nel cervello quando si attiva l’effetto placebo. E hanno cominciato a valutare l’efficacia delle medicine con sperimentazioni cliniche che comprendevano un composto inerte, in modo da “distinguere gli effetti farmacologici da quelli prodotti dalla suggestione”, come Beecher stesso aveva auspicato.
 
Si può bloccare l’effetto placebo? La risposta si trova in questo esperimento del 1978, condotto da Levin, Gordon e Fields, tre ricercatori dell’Università della California a San Francisco. Nella prima fase dell’esperimento alcuni pazienti, che hanno subito un’operazione ai denti, sono stati separati in due gruppi. A ciascun gruppo i ricercatori hanno comunicato che avrebbero ricevuto una dose di naloxone, una sostanza che può far aumentare il dolore, oppure una sostanza inerte, sotto forma di soluzione salina. La prima fase si è conclusa come i ricercatori si aspettavano: i pazienti trattati con naloxone hanno riportato una maggiore sensazione di dolore, mentre fra quelli trattati con la soluzione salina alcuni hanno risposto al placebo, riportando una riduzione della sofferenza, mentre altri non hanno risposto e quindi hanno sentito più dolore. A questo punto è cominciata la fase due: al gruppo di pazienti trattato con la soluzione salina è stato somministrato naloxone, la sostanza che provoca un aumento del dolore. Il risultato è stato sorprendente: il naloxone ha annullato l’effetto analgesico del placebo, determinando un aumento della sensazione dolorosa nel gruppo che prima aveva risposto alla soluzione salina, mentre nel gruppo che non aveva risposto al placebo non ha prodotto alcun effetto.
 
Questa è la prima dimostrazione di uno dei meccanismi molecolari alla base dell’effetto placebo, nonché la prova di principio che l’effetto può essere alterato con un intervento farmacologico. Ma vediamo che cosa è accaduto. Il naloxone esercita la sua funzione legandosi ai recettori degli oppioidi e bloccandoli (per questo è un farmaco utilizzato per contrastare gli effetti da overdose di eroina e morfina). Poiché i nostri analgesici endogeni, le endorfine, si attaccano agli stessi recettori, il naloxone ha bloccato la loro azione analgesica. Dunque, se le endorfine sono una delle cause molecolari dell’effetto placebo, il naloxone deve avere un effetto negativo e contrastante. E così è stato dimostrato dall’esperimento: a coloro che rispondevano positivamente al placebo, il naloxone ha causato un forte aumento della percezione del dolore, mentre non ha avuto alcun effetto sulle persone che non sono sensibili al placebo. Lo studio è stato pubblicato su Nature.

L’appuntamento è alla terza puntata, lunedì 23/1/12. Il tema sarà: Non solo dolore. Gli effetti placebo in malattie come il Parkinson, la psoriasi, l’ansia e la dipendenza da cocaina. Pubblicherò la bibliografia completa di questi post sugli effetti placebo e nocebo nell’ultima puntata della serie. La provenienza di tutte le immagini del post è citata in didascalia, tranne l'apertura che proviene dall'archivio Shuttestock.

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