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La mamma per una volta c'entra poco

Prendete 100 neonati. In media alla nascita avranno ricevuto 55 nuove mutazioni dal papà e solo 14, un quarto circa, dalla mamma. Ma la media dice ancora poco se non separiamo i bambini in base all’età del padre. I figli dei papà di vent’anni erediteranno circa 25 mutazioni, quelli con papà sui quaranta ne riceveranno 65, e per ogni anno d’età paterna in più si accumuleranno 2 mutazioni extra. L’età della mamma invece non conta: le mutazioni sono circa 14, sia che sia giovanissima o prossima alla menopausa.
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Prendete 100 neonati. In media alla nascita avranno ricevuto 55 nuove mutazioni dal papà e solo 14, un quarto circa, dalla mamma. Ma la media dice ancora poco se non separiamo i bambini in base all’età del padre. I figli dei papà di vent’anni erediteranno circa 25 mutazioni, quelli con papà sui quaranta ne riceveranno 65, e per ogni anno d’età paterna in più si accumuleranno 2 mutazioni extra. L’età della mamma invece non conta: le nuove mutazioni ereditate da quel lato sono circa 14, sia che la madre sia giovanissima o prossima alla menopausa.

Il numero di nuove mutazioni per cromosoma correla con l’età dei padri.
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Come sappiamo che l’età del padre è associata al numero di mutazioni trasmesse ai figli? La prova è recentissima e viene da Reykjavik, in Islanda. Lì Kári Stefánsson, il fondatore della deCODE Genetics, ha letto, insieme a un gruppo di colleghi ricercatori, il genoma completo di 78 nuclei familiari, composti da due genitori e un figlio o una figlia, e in questi terzetti ha cercato le mutazioni presenti soltanto nei figli e in uno dei due genitori.
 
Se la prova è di oggi, l’ipotesi risale a quasi settant’anni fa. J.B.S. Haldane, forse il più famoso genetista britannico della prima metà del secolo scorso, aveva proposto già nel 1946 che i figli ereditassero più mutazioni dai padri che dalle madri. Haldane aveva studiato molte famiglie con una lunga storia di emofilia e nel loro albero genealogico aveva osservato che la mutazione iniziale era insorta più di frequente nel cromosoma X di un padre piuttosto che di una madre. L’emofilia in Inghilterra ha sempre avuto un posto di riguardo negli studi dei medici e dei genetisti, perché era una delle malattie che affliggevano la famiglia reale.
 
J.B.S. Haldane a Oxford nel 1914
 
 “Il più famoso errore della genetica umana è quello che si è verificato negli augusti testicoli di Edoardo, Duca di Kent”, ha ricordato con scherzosa irriverenza un altro genetista britannico dei nostri tempi, Steve Jones. Ma come provare che il maggior numero di mutazioni spontanee trasmesse alla prole avviene nei testicoli dei maschi? All’epoca di Haldane la scoperta del DNA era ancora lontana, non c’erano né la biologia molecolare, né ancor meno i sequenziatori. L’intuizione di Haldane – è stato lui stesso a riconoscerlo per primo – avrebbe dovuto attendere a lungo per essere dimostrata.
 
Saltiamo a Reykjavik nel 1997. Kári Stefánsson è un neurologo islandese, appena tornato nel suo Paese dagli Stati Uniti per fondare la DeCODE Genetics. Il suo obiettivo è sequenziare il genoma di tutti i suoi connazionali e studiare il contributo dei geni alle malattie cognitive più diffuse nella nazione. Nonostante numerose polemiche sui rischi per la privacy, una parte importante della popolazione islandese ha accettato di farsi analizzare il DNA da Stefánsson. Così, nella più ampia analisi genetica di famiglie nucleari mai effettuata finora, Stefánsson e colleghi hanno trovato la prova dell’ipotesi di Haldane, in lista d’attesa per una spiegazione sperimentale da quasi settant’anni.
 
Come mai gli uomini generano più mutazioni trasmissibili rispetto alle donne? Gli spermatozoi, ossia le cellule germinali maschili, si formano nel corso dell’intera vita di un individuo maschio, attraverso molteplici divisioni cellulari. A ogni divisione le cellule primordiali che danno origine agli spermatozoi possono acquisire nuove mutazioni, mentre questo non accade nelle cellule uovo femminili, la cui dotazione è già completa alla nascita di una bambina.
 
Chi intende avere figli deve affrettarsi (e preoccuparsi)? Sì e no. Solo il 10% circa delle mutazioni può avere effetti dannosi, il resto è innocuo, e infatti ci sono un mucchio di padri coi capelli grigi che hanno figli completamente sani.
 
Però bisogna sapere che il rischio, oltre ad aumentare con l’età, può essere associato allo sviluppo di malattie del sistema nervoso. Studi precedenti hanno dimostrato che le diagnosi di autismo sporadico, in famiglie dove la malattia non era presente prima, sono maggiori in caso di padri non più giovani. In particolare, per una dozzina di mutazioni trovate in molti individui autistici, è stato dimostrato che c’è una probabilità quattro volte superiore che si siano originate nei padri. Altre malattie cerebrali complesse che hanno origine nello sviluppo, come la schizofrenia, sono associate all’età paterna. Ciò è probabilmente legato al fatto che nello sviluppo del cervello sono espressi almeno 50 geni – più che in ogni altro organo. Ciò significa che, soltanto per ragioni statistiche, è più probabile che il cervello sia colpito maggiormente.
 
Dobbiamo preoccuparci come specie? Non è detto. Per millenni prima dell’introduzione dei metodi di controllo delle nascite, i padri facevano molti più figli, iniziando prima e finendo dopo, e il genere umano non è tracollato. Le mutazioni genetiche sono la materia prima su cui lavora la selezione naturale, e oltre a variazioni deleterie o neutre, ce ne saranno pure di positive. Ma gli esseri umani moderni, con i progressi della medicina e la trasmissione culturale del sapere, sono soggetti a una pressione selettiva sempre minore rispetto alla storia evolutiva precedente, perciò è davvero difficile, se non impossibile, prevedere l’effetto delle mutazioni trasmesse dai padri attempati sul benessere genetico della popolazione.
 
La buona notizia è che una volta di più possiamo dimenticare la teoria delle “madri fredde”, delle “colpe” e di altre sciocchezze da archiviare (si spera). Innanzitutto è sempre più chiaro che alcuni problemi medici complessi, ancora poco spiegabili, hanno origine nei geni e non nella volontà. Per l’insorgere di mutazioni genetiche, né un padre, né una madre, né un figlio hanno alcuna “colpa”. Semmai possono avere una grande sfortuna. (E se un giorno riuscissimo ad archiviare anche la sinistra e cupa parola colpa, faremmo un grande passo avanti). Per alcune anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down, il rischio effettivamente aumenta con l’età della madre. Ma non è così per problemi complessi dello sviluppo, come alcune malattie cognitive, dove la maggior parte delle mutazioni associate ha origine negli spermatozoi e non nelle cellule uovo.
 
Per scrivere questo post ho consultato The rate of human mutation di Alexei Kondrasov (Nature, 488, 23 Aug. 2012, pp. 467-68); Fathers bequeath more mutations as they age di Ewen Callaway (Nature, 488, 23 Aug. 2012, pp. 439-40); Rate of de novo mutations and the importance of father’s age to disease risk di Kári Stefánsson e colleghi (Nature, 488, 23 Aug. 2012, pp. 439-40); The mutation rate of the gene for Haemophilia, and its segregation ratios in males and female di J.B.S. Haldane (Annals of Eugenics, 13, Jan. 1946, pp. 262-71); De novo mutations revealed by whole-exome sequencing are strongly associated with autism di S.J. Sanders e collegni (Nature 485, 10 May 2012, pp. 237-41); Sporadic autism exomes reveal a highly interconnected protein network of de novo mutations di B.J. O'Roak e colleghi (Nature, 485, 10 May 2012, pp. 246-50). La foto di apertura è dell'archivio Shutterstock, il grafico è tratto da Nature e la foto di JBS Haldane viene da Wikipedia.

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