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Quattro scienziati, tre continenti, due premi, ma soprattutto una storia di trasmissione del sapere che ha cambiato la biologia come la conosciamo.
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L’altro giorno ho letto un articolo bellissimo, che parlava di uno scienziato giapponese che non conoscevo. Mentre leggevo mi è caduto l’occhio sul nome di un altro scienziato, italiano, che conosco abbastanza bene. “Toh”, mi sono detta. “Avranno lavorato insieme”. Allora ho chiesto allo scienziato italiano: “Avete avuto lo stesso maestro?”. “Sì”, mi ha detto. “abbiamo avuto un maestro piuttosto famoso, che è cresciuto in Uruguay e ha studiato a Buenos Aires, ma noi l’abbiamo conosciuto nel suo laboratorio di Los Angeles”. “E il giapponese com’era?” gli ho chiesto. “Fantastico. È stato il mio sensei, la mia guida per sei mesi straordinari e durissimi: ero affidato a lui e da lui ho imparato moltissimo. Dopo è tornato in Giappone”. Poi, sempre per caso, ho scoperto che il maestro famoso, quello che era venuto dall’Uruguay a Los Angeles passando per l’Argentina, aveva anche studiato a Cambridge, in Gran Bretagna, con un maestro che quest’anno ha vinto il premio Nobel. Ho pensato: “Che bella storia. Magari la racconto sul blog”.

 
Yoshiki Sasai ha una faccia aperta, simpatica. Già a vederlo in fotografia si capisce che pensa a modo suo. Nel laboratorio del Riken Institute di Kobe, in Giappone, cresce cellule staminali embrionali, che cerca di far diventare neuroni organizzati in pezzi di retina o di cervello. Di questi tentativi dice: “Io faccio da sensale. Metto insieme le cellule e poi le lascio fare. È come far conoscere due estranei: dopo che li hai fatti incontrare, sanno quel che devono fare”.
 
Yoshiki Sasai
 
Un po’ come un giardino giapponese, dove i vuoti sono più importanti dei pieni, Sasai ha costruito un sistema sperimentale per sottrazione. Ha scartato il siero in cui normalmente crescevano le cellule staminali embrionali (una brodaglia poco definita di fattori di crescita e altre proteine) ed è ripartito da zero. In anni e anni di tentativi (togli un ingrediente, mettine un altro, un pizzico di più o di meno…) ha creato la sua miscela minima e priva di siero, che lo ha reso famoso. Poi ha staccato le cellule dal fondo di plastica della piastra di coltura e le ha lasciate navigare in libertà. “Se sono attaccate, sono come prigioniere: non possono esprimere i loro desideri”.
 
Il suo sogno è che le cellule si organizzino in modo da formare un cervello, mimando quello che accade naturalmente in un embrione. È una meta che coltiva da quando faceva il neurologo e pensava: “Che cosa posso offrire a un paziente se non so come funziona veramente il cervello?” E per saperlo, bisogna partire dallo sviluppo.
 
Sasai ha imparato l’abc dello sviluppo embrionale da Eddy De Robertis a Los Angeles. Qui ha scoperto una proteina con un nome bellissimo, la cordina. La cordina è un segnale che funziona anch’esso per sottrazione: emesso da alcune cellule embrionali, non spinge le cellule vicine a diventare neuroni, ma blocca piuttosto gli stimoli che le trasformerebbero in altri tipi di cellule. Gli scienziati spesso pensano che per muovere un processo in una certa direzione sia necessario “azionare qualche bottone”, mentre in biologia accade spesso il contrario: i segnali vanno spenti.
 
Mentre Sasai studia la cordina, a Los Angeles arriva un giovanissimo Stefano Piccolo. Immagino i due, uno accanto all’altro: un giapponese di media statura che spiega come fare un esperimento a un gigante con la faccia da bambino. Sì, perché Stefano di minimo ha giusto il cognome. Oggi insegna all’Università di Padova e la lezione di Sasai e De Robertis è ancora evidente nel suo modo di riflettere: "Le cellule sono immerse in un ambiente a tre dimensioni, da cui ricevono continuamente stimoli meccanici, diversi a seconda del tessuto o dell’organo. Questo principio vale per tutta la durata della vita, dallo sviluppo dell’embrione all’età adulta e perfino nei tumori".
 
Vi chiederete che cosa c’entrino adesso i tumori. Non stiamo parlando di embrioni? Sì, ma il cancro non è altro che un organo che si sviluppa in modo abnorme e per fare questo utilizza la stessa “cassetta degli attrezzi” e la medesima “stanza dei bottoni” dell’organismo in crescita. Perciò è utile studiare i due processi, di sviluppo dell’embrione e del tumore, in parallelo, come fa Piccolo. Con due allievi, Sirio Dupont e Michelangelo Cordenonsi, Stefano ha scoperto come le cellule traducono alcuni segnali meccanici che hanno a che fare con i vincoli fisici, come il mantenimento della forma e delle dimensioni, in “parole” del linguaggio chimico e molecolare. Come riconoscimento alle sue scoperte, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante la cerimonia al Quirinale per la Giornata nazionale per la ricerca sul cancro, ha consegnato a Stefano Piccolo il premio Guido Venosta offerto dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro.
 
Stefano Piccolo riceve il Premio Guido Venosta
dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
 
Ora mancano ancora due scienziati prima di completare la storia. Per conoscere il primo dei due, voliamo a Buenos Aires e facciamo un salto indietro nel tempo e nella conoscenza. Nel 1972 lo sviluppo dell’embrione è un processo che si può descrivere soltanto tramite osservazioni anatomiche al microscopio. I messaggi chimici che si scambiano le cellule sono pura fantascienza, e il concetto di cellula staminale è ancora un’ipotesi. Eddy De Robertis è al primo anno di dottorato, quando John Gurdon, futuro premio Nobel, capita nel suo istituto. Il motivo è un tour di lectures in Sud America organizzato dal British Council. Gurdon è solo, in un corridoio, e nessuno lo degna di uno sguardo. Solo per educazione il giovane De Robertis si presenta e gli chiede se vuole sapere qualcosa del suo lavoro. Pensa che per il distinto signore inglese, fare due chiacchere sugli umili esperimenti di uno studente sia meglio che passare per l’uomo invisibile nel corridoio. Tre quarti d’ora più tardi una segretaria viene a prelevare Gurdon. Il capo dell’Istituto, il premio Nobel Luis Leloir, al termine del pomeriggio trova finalmente del tempo da dedicare all’ospite illustre.
 
La chiacchierata ha conseguenze durature. Tre anni più tardi De Robertis si sta guardando attorno con un po’ di apprensione: deve trovare un laboratorio che lo accetti per il suo periodo di formazione dopo la fine del dottorato. Un ricercatore senior gli suggerisce di chiedere a Gurdon. “Perché mai un così grande scienziato dovrebbe prendere proprio me, che non sono nessuno?”. “Perché qualche giorno dopo la visita di tre anni fa, il direttore dell’istituto ha ricevuto un’offerta di borsa di studio per te dal British Council. Evidentemente Gurdon ci ha messo una buona parola”.
 
Eddy De Robertis al bancone nel suo laboratorio
all’Università della California a Los Angeles
 
Dall’Argentina facciamo ritorno nel vecchio continente, a Cambridge. Qui nel 1975 De Robertis trova un ambiente straordinario: Max Perutz, Francis Crick, Sydney Brenner, Aaron Klug, Fred Sanger e Cesar Milstein. Sono tutti premi Nobel e sono gli “abitanti” del laboratorio del Medical Research Council dove lavora anche Gurdon. Dal maestro Gurdon, de Robertis impara tutto quello che è possibile sapere sugli embrioni di un ranocchio di nome Xenopus e sulla possibilità di trapiantare il nucleo di una cellula somatica in una embrionale. È la scoperta del 1958 che porterà Gurdon a Stoccolma. Dopo l’apprendistato in Gran Bretagna, De Robertis decifrerà alcuni dei geni chiave dello sviluppo di ogni organismo animale (si chiamano geni Hox) e scriverà un libro di testo su cui si sono formati migliaia di biologi dello sviluppo.

 

 
John Gurdon
 
Che cosa resta degli insegnamenti dei maestri? Nel 2008, in un’intervista rilasciata a Current Biology, De Robertis ha detto di Gurdon: “È stato un insegnante meraviglioso. Sempre gentile e premuroso, mi ha insegnato come perseguire obiettivi difficili e ambiziosi; mi ha spiegato come scrivere un articolo e come parlare a una conferenza. Ma soprattutto mi ha convinto a non smettere mai di lavorare al bancone”. “Da allora cerco sempre di imitarlo”.
 
Ecco a che cosa serve un maestro: a ricevere quel tesoretto di ispirazione, metodo, tenacia ed entusiasmo, che anche a quarant’anni di distanza uno si ricorda e ha voglia trasmettere a chi verrà dopo.
 
La prima ispirazione per questo post è venuta da Tissue engineering: The brainmaker di David Cyranoski (Nature 488, 444–446, 23 August 2012). Stefano Piccolo mi ha chiarito la genealogia che, per così dire, lo lega a Sasai e De Robertis. In questa intervista a De Robertis ho poi scoperto l’affiliazione di De Robertis con Gurdon: come si sono conosciuti e gli insegnamenti più utili che ha ricevuto. Su John Gurdon non mi sono soffermata molto, perché l’Aula di Scienze ne ha già parlato parecchio in occasione del Premio Nobel, anche con questa bella intervista a Giulio Cossu.
 
I maestri sono talmente importanti che in certe discipline se ne tiene traccia: guardate per esempio il Neurotree, un sito che documenta il “chi è stato allievo di chi” nelle neuroscienze, e l'Academic Family Tree, che raccoglie diverse discipline.
 
Ho trovato la foto di Yoshiki Sasai sul sito del NIH; la foto di Stefano Piccolo viene dal sito del Quirinale; la foto di Eddy De Robertis si trova sul sito del suo laboratorio, presso l’Università della California a Los Angeles; la foto di John Gurdon viene dal sito del premio Nobel; l’immagine di apertura (un giardino giapponese dove il vuoto è più importante del pieno) proviene dall’archivio Shutterstock.

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