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Avremo una nuova statina contro il colesterolo?

Uno studio genetico alla ricerca di varianti rare, trovate in pochissimi afro-americani che hanno naturalmente un colesterolo bassissimo, ha portato allo sviluppo di un anticorpo monoclonale contro una molecola molto potente, coinvolta nel metabolismo del colesterolo.
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Più le arterie sono incrostate di placche di colesterolo, più si muore di malattie cardiovascolari, la prima causa di morte al mondo secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), con circa 17,3 milioni di vittime l’anno, e stime in crescita per i prossimi anni.

Le statine sono i farmaci usati per ridurre il colesterolo dall’inizio degli anni Novanta e la loro storia scientifica ha già sortito un premio Nobel, a Michael Brown e Joseph Goldstein, quasi trent’anni fa. Le statine però limitano solo una parte del colesterolo circolante e neanche in tutti i pazienti, che peraltro non sempre sopportano alcuni effetti collaterali, come il dolore ai muscoli e la smemoratezza.
 
La caccia grossa a trattamenti migliori è cominciata nel 2001, quando è uscita la prima bozza della sequenza completa del genoma umano. L’idea allora era di cercare le cosiddette “varianti comuni”, ossia le mutazioni di geni presenti in almeno il 5% dei pazienti, ma non nella popolazione sana di controllo, di tutte le malattie con una componente genetica, dal diabete al cancro alle malattie cardiovascolari, con i cosiddetti studi di associazione genetica sull’intero genoma (o GWAS).
 
Dopo quasi dieci anni di irritate frustrazioni, infruttuose delusioni, buchi nell’acqua, quasi nessuno crede più all’ipotesi delle varianti comuni, poiché le mutazioni individuate sembrano contribuire in modo trascurabile al rischio di sviluppare le malattie.
 
Un risultato che pareva ovvio fin dall’inizio a Helen Hobbs e Jonathan Cohen, due genetisti di scuola Mendeliana la cui esperienza, all’Università del Texas a Dallas, è legata a malattie ereditarie rare: malattie dove una sola variante può produrre un effetto catastrofico. In effetti una mutazione nefasta è quasi impossibile che resti a lungo e ampiamente in natura, dato che la selezione naturale in genere spazza via le varianti con effetti drammatici che compaiono nel corso dell’evoluzione. Per questo le malattie dovute a un singolo gene sono rare.
 
Helen Hobbs e Jonathan Cohen (fonte: UT Southwestern)
 
Sempre per lo stesso ragionamento, Hobbs e Cohen ritenevano che l’accumulo di tante e diverse varianti rare può contribuire a malattie comuni. Del resto loro avevano già osservato pazienti con malattie ereditarie, causate da tante mutazioni rare in geni diversi piuttosto che da un’unica mutazione in un solo gene. Ai loro occhi perciò non sembrava impossibile che un cumulo di mutazioni rare potesse contribuire a malattie anche molto diffuse.
 
Oggi vi racconto quanto Hobbs e Cohen avessero ragione, attraverso la storia che è stata raccontata su Nature da Stephen Hall l’11 aprile 2013. Una storia contro corrente, che mostra anche come il loro approccio, da genetisti mendeliani puri, all’epoca dei primi grandi studi genomici potesse sembrare completamente fuori tempo.
 
La ricerca di geni a trasmissione mendeliana è stata l’unico modo possibile di studiare le malattie ereditarie fino all’avvento delle tecnologie genomiche, che promettevano di rivelare miriadi di varianti genetiche associate a malattie comuni. Peccato che alla prova dei fatti i dati sembravano deludenti: le varianti comuni, alla base di malattie gravi e diffuse, o erano già note o non esistevano, e l’approccio mendeliano, con la caccia alla mutazione rara, forse non era proprio ancora un’idea da archiviare in un museo.
 
Gregor Mendel (fonte: Wikimedia)
 
Ma facciamo un passo indietro. A Dallas, in Texas nel 1999, era partito il Dallas Heart Study, un grande studio di popolazione che ha raccolto i risultati degli esami tipici per le malattie cardiovascolari di 3500 abitanti. Lo studio ha misurato, fra le altre cose, le HDL e le LDL nel sangue, ossia le principali proteine collegate al metabolismo del colesterolo, e ha inoltre collezionato il DNA di ciascun partecipante. Un aspetto interessante dello studio è che metà della popolazione selezionata era afro-americana: una vera fortuna, come vedremo fra poco.
 
Per beccare le rarità Hobbs e Cohen hanno deciso di separare la popolazione in gruppi omogenei, e quindi di andare a guardare nei due estremi, dove la concentrazione di HDL era altissima o bassissima. In questi due gruppi hanno “interrogato” il DNA, cercando mutazioni in tre geni chiave del metabolismo del colesterolo.
 
Le mutazioni erano cinque volte più frequenti nel gruppo a basso HDL rispetto a quello con HDL elevato. Il risultato, pubblicato su Science nel 2004, aveva senso, perché la maggioranza delle mutazioni blocca una funzione, piuttosto che amplificarla. Inoltre confermava che mutazioni importanti dal punto di vista medico si potevano trovare nelle “code” della distribuzione di una popolazione. Mancava però ancora una spiegazione biologica che chiarisse perché questi individui avevano concentrazioni anomale di HDL.
 
Ora spostiamoci in Canada e poi a Parigi. Nel 2003 Nabil Seidah, con un gruppo di colleghi del Clinical Research Institute di Montreal, riporta la scoperta di una proteina stranissima, con un mucchio di funzioni nel fegato, nei reni, nell’intestino e perfino nel cervello. Il gene con l’informazione per produrre questa proteina si trova sul braccio corto del cromosoma 1, lo stesso braccio su si era concentrata ancora un’altra ricercatrice, Catherine Boileau, all’epoca all’Ospedale Necker di Parigi, che seguiva da anni alcune famiglie con livelli altissimi di colesterolo e una trasmissione ereditaria di questa malattia, legata proprio a quel pezzo di cromosoma.
 
Al gene in questione viene dato un nome eloquente e memorabile, PCSK9, di quelli che uno capisce subito che c’è di mezzo il colesterolo… (grazie nomenclatura genetica!). Ma la scoperta è solida, come viene confermato da altri ricercatori alla Rockefeller University e alla UT Southwestern identificano lo stesso gene anche nel topo, coinvolto anche qui nel metabolismo del colesterolo.
 
Torniamo dai nostri genetisti texani (anche se Cohen è di origine sudafricana), molto colpiti dalla scoperta franco-canadese, e sul punto di cercare altre mutazioni nello stesso gene nel DNA del loro gruppo di Dallas. Poiché come abbiamo già detto, in genetica sono più frequenti le mutazioni che bloccano una funzione, rispetto a quelle che la amplificano, Hobbs e Cohen hanno deciso di cercare variazioni del gene PCSK9 in uno dei due estremi: quello con LDL bassissimo.
 
In questo modo hanno trovato ben due mutazioni nel gene PCSK9 e sette africani-americani che portavano almeno una delle due. Dopo di che sono andati a cercare queste mutazioni nell’intera popolazione dello studio e hanno trovato che essa è presente soltanto nel 2% dei neri inclusi nel Dallas Heart Study, e che ciascuna mutazione era associata al 40% di riduzione del colesterolo LDL nel sangue. Le mutazioni avevano un frequenza talmente bassa che per ragioni statistiche non sarebbero mai apparse in una ricerca a largo spettro, e non mirata, di varianti comuni.
 
La prova però che la proteina avesse un ruolo nel metabolismo del colesterolo doveva ancora arrivare. Dopo tutto la sua presenza avrebbe potuto essere anche casuale. Invece, un’associazione ben più forte è saltata fuori quando Hobbs e Cohen hanno cercato mutazioni di PCSK9 in un larghissimo gruppo di pazienti, seguito dal 1987 nello studio Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC), da Eric Boerwinkle, un genetista di Houston.
 
I risultati, pubblicati nel 2010 sul New England Journal of Medicine, erano talmente straordinari da sembrare incredibili: gli africani-americani che in questa popolazione avevano mutazioni nel gene PCSK9 avevano il 28% in meno di colesterolo LDL e un rischio dell’88% in meno di sviluppare una malattia cardiovascolare, rispetto alla popolazione generale. E anche i bianchi, che avevano un’altra mutazione nello stesso gene, avevano una riduzione di colesterolo LDL del 15% e un rischio di avere una malattia cardiovascolare del 47% inferiore.
 
Che cosa fa la proteina PCSK9 per produrre questi effetti strabilianti sul colesterolo? Hobbs, Cohen e il collega Jay Horton hanno scoperto che la proteina circola normalmente nel sangue e si lega al recettore LDL. Il recettore LDL si trova sulla superficie esterna delle cellule del fegato e cattura il colesterolo LDL in circolo, rimuovendolo dal sangue. Una volta che la PCSK9 si è legata al recettore LDL, entrambi penetrano all’interno della cellula. Il risultato è che se c’è molta PCSK9 in circolo, sulle cellule restano pochi recettori LDL e perciò il colesterolo “cattivo” rimane nel sangue. Viceversa, quando c’è poca o nulla PCSK9 (come nella popolazione afro-americana con le mutazioni più potenti), sulle cellule ci sono più recettori LDL per rimuovere il colesterolo LDL dal sangue.
 
 
Il meccanismo d’azione della proteina PCSK9 sul recettore delle LDL
(fonte: Nature Reviews Cardiology)
 
Ora restava solo da bloccare la PCSK9 con un farmaco nelle persone che ne hanno troppa. La molecola non è facile da intercettare con un piccolo composto chimico, ma è possibile fermarla con un anticorpo monoclonale. Nei risultati del primo studio clinico, pubblicato ancora sul New England Journal of Medicine, i pazienti con colesterolo alto, che hanno ricevuto un’iniezione di anticorpo anti-PCSK9 ogni due settimane, hanno visto la loro concentrazione di colesterolo LDL ridursi del 73% (come termine di paragone, la diminuzione indotta dalle statine è pari soltanto al 17%).
 
I risultati sono francamente impressionanti, ma non è detto che la “nuova statina” avrà successo. Il costo alto di un anticorpo monoclonale, e la via di somministrazione (l’iniezione rispetto alle statine in compresse) potrebbero scoraggiare pazienti, assicuratori, sistemi sanitari nazionali. Altri dubbi riguardano gli eventuali effetti collaterali (per ora ridotti, ma manca ancora lo studio di fase III) e la reale possibilità di riprodurre una situazione di basso colesterolo, che per i portatori naturali della mutazione è così fin dalla nascita.
 
Il valore forse maggiore dello studio è aver ridato luce alle varianti rare, che non sarebbero mai emerse in uno studio di associazione genetica su tutto il genoma. Gli studi di associazione genomica sull’intero genoma sono spesso chiamati fishing expeditions, per la mancanza di un’ipotesi di che cosa sia possibile trovare e di una conoscenza profonda dei meccanismi biologici di una determinata malattia. Questo studio dimostra che è possibile trovare varianti rare, eppure importantissime, purché uno abbia un’idea informata ed esperta di quello che sta cercando. Ma per incappare in mutazioni rare, bisogna pure che esistano, e per questo dobbiamo ringraziare quei 7 preziosi portatori afro-americani!
 
La foto di apertura mostra una sezione dell’aorta addominale di un uomo di 32 anni con ampie lesioni di aterosclerosi (le aree più rosso scuro alle estremità esterne dell’aorta) dovuto all’accumulo di placche di colesterolo (fonte: UCSD). Le fonti delle altre immagini sono nelle didascalie, mentre le fonti dei testi che ho consultato sono citati nel post.

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