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Perché i tatuaggi sono indelebili?

Sicuri di volere un tatuaggio? C'è chi si pente e rimuoverlo potrebbe essere difficile: oggi sappiamo perché.
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Un tatuaggio è per sempre, più di un diamante che si può spostare dal dito al comodino. La pelle istoriata che porta con sé l’avventura e chi la racconta è sostanzialmente incancellabile. Come liberarsi del segno di un'avventura che ha smesso di appassionare e imbarazza? Occorrono da 6 a 10 trattamenti con il laser, intervallati da qualche settimana, per rimuovere un tatuaggio, secondo l’American Academy of Dermatology. I trattamenti sono spesso dolorosi, il numero varia in base alle dimensioni e ai colori, e la rimozione completa senza cicatrici non è sempre possibile. Negli Stati Uniti una persona su otto si pente di avere fatto un tatuaggio e lo vuole togliere. Perché i tatuaggi sono così tenaci? In pochi giorni perdiamo le effimere dorature dell’abbronzatura, mentre l’inchiostro nel derma dura anche una vita intera, e questo nonostante la pelle si rinnovi di continuo. I macrofagi, i “grandi divoratori” del sistema immunitario, ingurgitano i pigmenti di inchiostro appena questi penetrano nel derma. Il corpo considera l’inchiostro al pari di ogni sostanza potenzialmente dannosa, che è meglio finisca il più presto nella spazzatura molecolare. I macrofagi però ogni venti giorni circa muoiono, sostituiti da macrofagi più giovani. Malgrado il ricambio, i tatuaggi persistono.

Pigmenti di inchiostro visibili nei macrofagi del derma (foto: Yale School of Medicine)

È come se buttassimo un sacchetto della spazzatura e i rifiuti si rifiutassero di seguirlo. Com’è possibile? Nessuno lo aveva capito fino a quando due immunologi francesi, Sandrine Henri e Bernard Malissen, dell’Università di Marsiglia, hanno deciso di tatuare dei topini. L’inchiostro scelto dai ricercatori, di colore verde fluorescente, viene effettivamente mangiato dai macrofagi del topo. I ricercatori lo hanno visto al microscopio, dentro queste cellule, in alcune sezioni della pelle della coda tatuata. Che cosa succede all’inchiostro quando queste cellule muoiono? Sappiamo che persiste, ma per capire dove va a finire, nell’esperimento bisogna uccidere i macrofagi che lo hanno inizialmente catturato. Come si fa a far morire i macrofagi mantenendo in vita il topo? I ricercatori ci sono riusciti con un’arguzia biotecnologica: hanno modificato geneticamente i macrofagi del derma del topo in modo che sulla superficie ci fossero i recettori umani della tossina difterica. I ricercatori hanno potuto così eliminare selettivamente i macrofagi, iniettando la tossina difterica dopo che le cellule si erano ben nutrite di inchiostro. Tutte le altre cellule sono rimaste intatte perché i topi, a differenza degli esseri umani, sono quasi insensibili (beati loro!) a questa temibile tossina, in mancanza del recettore. E poi cos’è successo? L’inchiostro è restato lì per mesi, molto tempo dopo che l’ultimo macrofago che aveva assorbito i pigmenti era stato rimpiazzato da macrofagi più giovani. I dettagli di questo esperimento e del successivo sono parecchio complicati - immunologia molecolare molto sofisticata. Perdonino i puristi e i pignoli la semplificazione.

Poiché il pigmento del tatuaggio può essere ricatturato da un nuovo macrofago, un tatuaggio appare uguale prima (a sinistra) e dopo (a destra) che i macrofagi del derma sono stati eliminati e sostituiti (Baranska et al., 2018).

In un esperimento successivo i ricercatori hanno trapiantato la pelle tatuata di un topo nero sulla schiena di un topo albino. Sei settimane più tardi tutte le cellule del trapianto erano morte, rigettate dall’ospite, ma l’inchiostro era ancora ben presente e visibile: era stato ricatturato dai macrofagi del topo albino. In questo modo i ricercatori hanno confermato il risultato ottenuto nell’esperimento precedente, senza usare la tossina difterica (hanno così fugato il dubbio che la tossina stessa potesse avere creato un risultato artificioso). Perché l’inchiostro persiste? I ricercatori hanno formulato un’ipotesi “cattura-rilascia-ricattura”: un macrofago cattura l’inchiostro che penetra nel derma; quando il primo macrofago muore rilascia ciò che contiene; immediatamente arriva un nuovo macrofago che rimuove i detriti cellulari e cattura nuovamente le particelle di inchiostro. E così via.

Il modello “cattura-rilascia-ricattura” potrebbe spiegare la persistenza dei tatuaggi nonostante il ricambio dei macrofagi (Baranska et al., 2018).

Se le cellule che li ospitano cambiano, come si mantiene la forma di un tatuaggio nel tempo? I macrofagi tengono le loro posizioni nel derma anche dopo le sostituzioni, un po’ come delle sentinelle che si danno il cambio a un’ora prestabilita, e questo potrebbe spiegare in parte la stabilità dei tatuaggi. Un’altra ragione sono le dimensioni delle molecole di pigmento: poiché sono grosse, è raro che finiscano nei minuscoli vasi linfatici con gli altri detriti rilasciati da un macrofago morto. Restano piuttosto negli spazi tra le cellule finché sopraggiunge un nuovo macrofago. Ora conosciamo meglio il segreto della permanenza dei tatuaggi, almeno nei topi. È verosimile che i tatuaggi si comportino così anche negli esseri umani, lasciando marchi duraturi sfruttati molte volte nella storia, da nazisti sadici come da ben più benevoli veterinari, per identificare un animale d’affezione, o da radioterapisti, per ritrovare il punto sulla pelle del paziente cui indirizzare la terapia. Sarà possibile rimuovere più efficacemente i tatuaggi grazie a questi risultati? Durante la rimozione con il laser si potrebbero inibire temporaneamente i macrofagi: in questo modo i pigmenti frammentati dal raggio laser non potrebbero essere catturati da nuove cellule. Ci sono però dei rischi: senza macrofagi attivi nel derma le lesioni e le ferite non si riparano, le infezioni possono prosperare e anche la rigenerazione dei muscoli potrebbe patire. Forse i macrofagi avrebbero cose più importanti da fare che mangiarsi gli inchiostri. Dopo tutto stanno lì, appena sotto la pelle, per difenderci da batteri, virus, sostanze potenzialmente pericolose. Se li anneghiamo di pigmenti lavorano bene comunque? Di preciso non si sa, ma qualche dubbio viene. Un altro rischio che si corre a ricoprirsi di tatuaggi è che un neo può comparire, cambiare forma, dare origine a un melanoma senza che uno se ne accorga per tempo. Molti sono affezionati ai propri tatuaggi, nonostante tutto, e c’è addirittura chi ne ha fatto collezione. Il feticista era un certo La Vallette, patologo di un istituto penitenziario francese, che aveva un hobby un po’ macabro: prelevava campioni di pelle tatuata dai cadaveri dei detenuti, prevalentemente prostitute e marinai, donatori inconsapevoli di pezzi di storia umana. La sua collezione di circa 300 pezzi è conservata alla Wellcome Collection a Londra.

Un tatuaggio del 19° secolo (Wellcome Collection tramite BBC news).

Ma il tatuaggio più indimenticabile è quello che non è mai entrato in un macrofago. Lo ha scolpito la penna di Hermann Melville sulla pelle di Queequeg, baleniere e cannibale polinesiano, in Moby Dick. «Opera di un defunto profeta e veggente della sua isola, che per mezzo di quei segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguir la verità, cosicché Queequeg era nella sua persona stessa un enigma da spiegare, un’opera meravigliosa in un volume, i misteri della quale però neanche lui sapeva leggere benché sotto vi pulsasse il suo cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e così restare insoluti fino all’ultimo». Per scrivere questo post ho consultato Mo Costandi, Tats Off: Targeting the Immune System May Lead to Better Tattoo Removal, Scientific American Blogs (6/3/18); Anna Baranska et al., Unveiling skin macrophage dynamics explains both tattoo persistence and strenuous removal, Journal of Experimental Medicine, March 5, 2018 Volume 215, No. 3; Tattoo Removal: Options and Results, FDA (22/9/17); Hermann Melville, Moby Dick, traduzione di Cesare Pavese (Einaudi, 1941). In apertura, Braccio di ferro in un graffito di San Paolo in Brasile (Wikipedia).
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