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Imparare da un errore

Breve storia della tragedia della talidomide in Italia: una vicenda di studi mancati, vittime neglette e risarcimenti limitati e tardivi

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Quando uno scrive dei libri a volte riceve qualche lettera di lettori che fanno dei complimenti. In alcuni casi i lettori più attenti segnalano gentilmente qualche refuso da correggere. Oppure possono trovare un errore più serio. È quello che è capitato di recente a Maurizio D’Incalci e a me. Nel nostro libro “Come nascono le medicine” (Zanichelli, 2014), due scienziati di grande valore, Benedetto Terracini e Luisa Guerrini, ci hanno fatto notare un’imprecisione dolorosa sulla talidomide.

Forse ricorderete la tragica vicenda di questo principio attivo sviluppato e brevettato nel 1954 dalla ditta tedesca Chemie Grünenthal. In meno di dieci anni dal brevetto al suo ritiro, dal 1957 al 1962, la talidomide è stata distribuita in molti Paesi nel mondo. Era contenuta in numerosi farmaci con decine di nomi commerciali diversi. Quando è stata assunta dalle mamme in gravidanza come rimedio contro la nausea, ha provocato innumerevoli aborti e bambini morti alla nascita. La causa era la sua teratogenicità, ossia la capacità di provocare danni agli embrioni.

Alle bambine e ai bambini sopravvissuti la talidomide ha lasciato una pesante eredità: gravi problemi di salute, tra cui i più visibili dall’esterno sono le importanti malformazioni agli arti. Per effetto del farmaco nel primo trimestre di gravidanza, gli arti potevano infatti essersi sviluppati per niente o in parte. Il primo caso riconosciuto si è verificato il 25 dicembre 1956 nel figlio di un dipendente della Grünenthal, prima ancora che il farmaco fosse brevettato in Germania. Da allora si stima che almeno 25.000 nati vivi nel mondo siano stati vittime della talidomide, secondo una delle voci più autorevoli, quella del Thalidomide Trust britannico.

L’errore mio e di Maurizio riguarda la storia italiana dei danni causati dalla talidomide. Nel libro avevamo improvvidamente scritto che, rispetto agli altri Paesi dove la talidomide era entrata presto in larghissimo uso, l’Italia era stata in qualche modo risparmiata dalla tragedia, a causa del cronico ritardo con cui da noi si approvavano i farmaci. Le cose sono in realtà andate assai diversamente, in maniera più complicata e purtroppo non per il meglio, come ci hanno detto Benedetto e Luisa. I lettori spero perdoneranno la lunghezza di questo post, ma la vicenda è complessa e merita di essere raccontata. Prima di cominciare, però, vorrei spendere due parole su questi due bravissimi scienziati e sulle loro ricerche.

Luisa Guerrini è professore associato di biologia molecolare presso il Dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche sono incentrate sulla biologia dello sviluppo e in particolare sulla regolazione dell’espressione dei geni. Ha dedicato ben 18 anni dei suoi studi, “con pochissimi finanziamenti ma tanta testardaggine”, a chiarire i meccanismi molecolari con cui la talidomide può danneggiare i feti.

Già professore di epidemiologia dei tumori e di statistica medica all’Università di Torino, Benedetto Terracini è stato un pioniere dell’epidemiologia del cancro. Dalla fine degli anni Sessanta ha contribuito a mettere in luce le epidemie di tumori professionali, dall’Ipca di Cirié all’Acna di Cengio alla Sia di Grugliasco, fino agli studi sulle esposizioni all’amianto a partire dalla zona di Casale Monferrato. Oltre che dei tumori di origine professionale, Terracini si è occupato di tumori infantili. Ha ricevuto prestigiosi premi internazionali dall’International Society of Environmental Epidemiology, nel 2003, e dal Collegium Ramazzini, nel 2014, a testimonianza della stima di cui gode nel mondo. Con i suoi 92 anni splendidamente portati, pur in pensione, continua a contribuire a importanti studi. In collaborazione con Luisa Guerrini ha dedicato parecchio tempo ad analizzare le indagini epidemiologiche condotte sulle persone esposte alla talidomide nel mondo.

Per comprendere meglio i risultati che Luisa e Benedetto hanno ottenuto sulla talidomide, può essere utile farsi prima un’idea del contesto italiano che ha favorito la diffusione di questo farmaco. Negli anni Cinquanta il Paese era da poco uscito da oltre vent’anni di fascismo e da una guerra mondiale devastante. C’erano, sì, il boom economico e moltissimi bambini che nascevano, ma tante leggi erano straordinariamente arretrate. Una di queste, che sarebbe rimasta in vigore dal 1939 al 1978, proibiva di brevettare farmaci nel nostro Paese. Il divieto aveva generato una serie di distorsioni, per fare in modo che i medicinali potessero arrivare comunque alla popolazione dei malati italiani e che le ditte farmaceutiche autoctone, non potendo brevettare nulla, non fallissero. Cercando di rimanere e galla, le aziende erano in molti casi diventate distributori di prodotti inventati e sviluppati all’estero. In altri casi “copiavano” e riproducevano farmaci con brevetto internazionale, o producevano gli stessi farmaci per l’esportazione verso il mercato estero. Tutto questo alimentava in Italia una sorta di mercato parallelo dei farmaci, spesso tollerato dalle ditte estere detentrici della proprietà intellettuale, verosimilmente in virtù di accordi non sempre trasparenti.

A partire dal 1934 tutti i farmaci, per essere commercializzati in Italia, dovevano in teoria ricevere per legge una registrazione da parte del Ministero dell’Interno (dal 1958 questa responsabilità sarebbe passata al Ministero della Sanità, mentre l’Agenzia italiana del farmaco - AIFA sarebbe stata istituita solo negli anni Duemila). In pratica però molti farmaci iniziavano a essere venduti e utilizzati in attesa di ricevere tali autorizzazioni, per esempio in virtù di accordi bilaterali tra Paesi. Uno di questi, del 1939, tra il Regno d’Italia e il Reich tedesco, sanciva che i prodotti farmaceutici tedeschi potessero essere introdotti liberamente in Italia anche prima della registrazione. Non è chiaro se tale accordo fosse ancora in vigore quando la talidomide è stata sviluppata e commercializzata. Ma questo e altri indizi potrebbero suggerire che la talidomide circolasse in Italia già con qualche anno di anticipo rispetto al 2 aprile 1958, la data in cui si ritiene che possa essere avvenuta la prima registrazione ufficiale di un farmaco contenente il principio attivo.

Sul suolo italiano si trovavano peraltro ben 7 dei 16 produttori mondiali di medicamenti a base di talidomide. In queste ditte si fabbricavano 10 delle 34 specialità medicinali europee contenenti talidomide. Sempre in Italia risulta che siano state commercializzate ben 14 specialità farmaceutiche contenenti talidomide, come hanno ben documentato le biologhe Nicoletta Cremonesi e Giulia Bovone. Si trattava di un primato in Europa, dato che in Germania, il Paese in cui la talidomide era stata sviluppata e brevettata, le specialità erano 9, in Gran Bretagna 6 e 2 in Portogallo, Svezia, Svizzera e Spagna. Gli scritti di Cremonesi e Bovone si trovano negli atti del convegno “La tragedia della talidomide” a cura di Antonio Ciuffreda e Francesco Picucci (Florence Art Edizioni, 2° edizione, 2022).

Sembra dunque che in Italia la talidomide sia stata distribuita in modo sregolato e massivo anche al di fuori del periodo tra la prima registrazione e il ritiro. Il principio attivo era infatti contenuto in un numero notevole di formulazioni con effetti sedativi e ipnotici, e con indicazioni che andavano dall’emicrania all’asma, dall’ipertensione alla nausea in gravidanza e molto altro. Si trattava peraltro di farmaci da banco, oltre che di preparazioni galeniche, ossia di prodotti approntati dai farmacisti, tutti vendibili senza ricetta.

Nel nostro Paese le registrazioni dei farmaci contenenti talidomide sono state infine cancellate nel luglio 1962, circa otto mesi dopo il ritiro deciso dalla Germania Ovest e quello degli altri Paesi. Un ritardo che ha verosimilmente provocato almeno una ulteriore cinquantina di casi. In Germania Ovest il ritiro è avvenuto in seguito alle segnalazioni, nel 1961, di malformazioni in bambini tedeschi da parte del pediatra Widukind Lenz.

Ma già nel 1960 Frances Oldham Kelsey, una farmacologa di origine canadese che lavorava alla Food and Drug Admistration (FDA), aveva bloccato l’autorizzazione alla commercializzazione della talidomide per il mercato statunitense, insospettita dalle numerose segnalazioni di neuriti periferiche tra chi aveva assunto il farmaco in altri Paesi. Nonostante le forti pressioni della ditta, la dottoressa Kelsey non si era fatta intimidire, anche perché in ricerche precedenti aveva studiato in conigli gravidi il chinino, un comune farmaco contro la malaria, trovando che il composto riusciva a passare attraverso la placenta. Aveva per questo richiesto alla Grünenthal dati che provassero la sicurezza del composto per l’uso in gravidanza. Per avere evitato ai bambini americani la tragedia della talidomide, Frances Kelsey ha ricevuto la medaglia al valore dal Presidente Kennedy nel 1962.

Con una disattenzione di oltre mezzo secolo, due leggi approvate in Italia solo nel 2007 e nel 2016, prevedono indennizzi per cittadine e cittadini nati tra il 1958 e il 1966 con malformazioni causate dall’esposizione in utero a farmaci contenenti talidomide. Si tratta di persone che, se ancora vive, hanno oggi tra i 57 e i 65 anni. Per legge il periodo di esposizione può essere esteso a prima o dopo queste date se le malformazioni riscontrate e la documentazione da parte delle vittime possono provare un’esposizione al farmaco.

Molte richieste di risarcimento non sono però state riconosciute. Alcune sono state respinte se la data di nascita era al di fuori delle date indicate, pur essendo invece piuttosto probabile che il farmaco circolasse già in Italia ben prima del 1958. Altre non sono state approvate per il tipo di malformazioni agli arti, su un solo lato del corpo anziché su entrambi, in base ad alcune interpretazioni degli effetti non basate su dati scientifici.

Luisa Guerrini ha dimostrato inequivocabilmente che, in animali di laboratorio esposti alla talidomide, i danni possono essere sia bilaterali sia monolaterali. Il meccanismo, peraltro molto interessante, riguarda il gene p63, coinvolto nello sviluppo embrionale di molte specie animali, Homo sapiens incluso. La sua importanza nello sviluppo embrionale è stata inizialmente osservata in topi “knock out”, nei quali questo gene era stato eliminato. Quando questo gene è mancante, i topini nascono con numerosi problemi tra cui il mancato sviluppo degli arti. Nel tempo sono state individuate rare sindromi ereditarie umane, in cui un difetto congenito di p63 ha provocato difetti simili a quelli dei bambini talidomidici. I risultati, ottenuti da Luisa Guerrini in collaborazione con alcuni colleghi giapponesi, sono stati pubblicati nel 2019 sulla rivista Nature Chemical Biology.

La talidomide, che è teratogena nei conigli, nei polli, nei pesci e negli esseri umani ma non nei topi e nei ratti, degrada la proteina prodotta a partire dal gene p63. Ma la riduzione della proteina è transitoria e può essere reversibile, come Luisa Guerrini ha dimostrato in esperimenti con i pesci zebra. A questi pesciolini trasparenti, dopo il trattamento con talidomide, Luisa ha iniettato dosi aggiuntive di p63. L’idea era che, se la talidomide riduceva la quantità di p63 disponibile in maniera transitoria, durante lo sviluppo embrionale, un’aggiunta di questa proteina avrebbe dovuto ristabilire lo sviluppo normale dell’embrione, come i risultati hanno in effetti dimostrato.

I risultati di esperimenti effettuati con i macachi hanno mostrato che, in una stessa nidiata, i danni possono essere assai vari. In seguito alla somministrazione di talidomide a macache gravide, in una scimmietta era venuto a mancare solo un arto mentre in un’altra non si era sviluppato nessuno dei quattro arti e in una era stata colpita solo la coda. “Se animali così vicini a noi possono essere colpiti così diversamente dalla talidomide, non si capisce come sia possibile che ciò non possa accadere anche nell’uomo”, aveva concluso Luisa Guerrini. I dati sono stati pubblicati dal gruppo giapponese nel 2010 sulla rivista Reproductive Toxicology.

Veniamo ora agli studi epidemiologici. Benedetto Terracini ha analizzato tutte le indagini effettuate nel mondo sui casi di persone con malformazioni attribuite all’esposizione alla talidomide. Ha pubblicato le sue conclusioni sulla rivista Epidemiologia e prevenzione nel 2021. Innanzitutto bisogna dire che in questi studi l’Italia non ha brillato: dopo quattro modeste pubblicazioni negli anni Sessanta, dal nostro Paese non è uscito più nulla.

Gli studi e le pubblicazioni sono stati più numerosi all’estero, anche se la qualità è stata inficiata da molti fattori. I registri delle malformazioni erano scarsi e limitati a popolazioni di piccole dimensioni, mentre gli archivi delle prescrizioni farmaceutiche erano disponibili solo in Gran Bretagna. Le casistiche più ampie sono state raccolte in Germania occidentale e in Inghilterra in modo piuttosto casuale, a fini medico-legali e con scarso rigore scientifico. Nelle interviste alle madri veniva chiesto se ricordavano di avere assunto il farmaco in gravidanza: un metodo notoriamente inaffidabile per la labilità della memoria. Gli studi emersi sono stati dunque lacunosi, con molte distorsioni e limitazioni.

Un primo grande problema per l’Italia riguarda la sottostima del numero di casi. Nel nostro Paese, per quanto si diceva prima, è verosimile che la talidomide sia stata in circolazione per un periodo più ampio delle date ufficiali di registrazione e di ritiro. Esso corrisponde verosimilmente al periodo in cui è stata venduta nel Regno Unito, in Svezia e in Irlanda. Poiché le popolazioni inglesi e italiane nel 1960 erano simili per dimensioni, si può calcolare che per l’Italia il totale dei nati vivi con difetti da talidomide sia stato attorno ai 2000 bambini e che i superstiti nel 2003 fossero circa 500. Questi numeri non tengono naturalmente conto dei molti casi di aborti spontanei e di bambini nati morti: nella sola Inghilterra questi sono indirettamente stimati tra 5000 e 20.000.

Il secondo grande problema italiano riguarda il mancato riconoscimento, per gli indennizzi, delle malformazioni in un solo lato del corpo. Il ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità affermano ancora oggi che la talidomide produce difetti soltanto in entrambi gli arti. L’affermazione sembra derivare da un articolo di due studiosi britannici R.W. Smithells e C.G.H Newman. Nell’articolo, pubblicato nel 1992 sul British Medical Journal, si sosteneva il seguente ragionamento: «Poiché le due parti dell’embrione si sviluppano più o meno parallele, ed è difficile immaginare che una sostanza che arriva all’embrione con il sangue si distribuisca solo da un lato, si prevede che le malformazioni indotte da questa sostanza siano più o meno simmetriche».

Peccato che quest’affermazione si scontri con i dati, sia di laboratorio, sia epidemiologici. Abbiamo visto che, in conigli, scimmie e pesci zebra, un numero cospicuo di animali esposti nel periodo fetale alla talidomide ha avuto danni molto vari, inclusi quelli a un solo lato del corpo. Inoltre vi sono sindromi ereditarie, come la sindrome di Holt-Oram, in cui il lato sinistro del corpo è sempre più colpito. Se quindi possiamo ritrovare asimmetrie in una sindrome di origine genetica, perché ciò non può essere stato causato anche dalla talidomide? Nella maggior parte delle serie cliniche di bambini nati da madri che avevano certamente assunto talidomide è inclusa una percentuale di casi, fino a circa il 10%, con difetti unilaterali degli arti e una percentuale maggiore di difetti unilaterali dell’orecchio esterno. Questo significa che, se pure i difetti bilaterali sono la maggioranza, i danni da un solo lato si sono verificati ed è ingiusto che chi ne è portatore non possa essere indennizzato. Criteri di esclusione come questo, non basati sulle evidenze scientifiche, sembrano peraltro essere stati utilizzati nell’elaborazione di un algoritmo diagnostico introdotto nel 2019 da Sahar Mansour e colleghi. Purtroppo tale algoritmo può essere utilizzato nelle perizie medico-legali per l’approvazione degli indennizzi.

Apparentemente in Italia non vi sarebbero stati del tutto bambini e bambine con malformazioni alle orecchie da esposizione a talidomide nell’utero materno. In Gran Bretagna il numero assoluto di casi di malformazioni alle orecchie è invece stato consistente: almeno un quarto del numero di malformazioni agli arti. Il farmaco non può, ovviamente, avere provocato effetti diversi in Italia rispetto agli altri Paesi. “Piuttosto, nessuno in Italia sembra avere mai cercato i malformati alle orecchie da talidomide, né agli otorinolaringoiatri sembra essere stato insegnato che le malformazione alle orecchie potrebbero essere stati causati dal farmaco”, ha detto Benedetto Terracini.

Oggi ogni nuovo farmaco deve essere per legge sperimentato, per la possibile tossicità fetale, in animali gravidi di più specie, con una gestazione simile a quella umana. La legge è nata proprio in seguito alla tragedia della talidomide. Una seconda ondata di vittime della talidomide è stata purtroppo osservata in Brasile attorno agli anni Duemila, come è stato riportato dalla BBC nel 2013. In Brasile il farmaco era stato autorizzato nuovamente già negli anni Sessanta per la cura delle complicazioni della lebbra. Nuove formulazioni della talidomide hanno avuto un’ulteriore nuova vita da quando sono state autorizzate per pazienti con mieloma multiplo.

Sono grata a Luisa Guerrini e Bendetto Terracini per avermi consentito, raccontandomi dei loro studi, di rimediare con questo articolo almeno in piccola parte a un doloroso errore. Un errore che ha infatti rischiato di sminuire ulteriormente le sofferenze di una popolazione di vittime particolarmente sfortunata e negletta. Una popolazione che merita invece che i danni subiti siano onestamente riconosciuti e risarciti. Una speciale menzione va all’Associazione V.I.Ta (Vittime Italiane del Talidomide), presieduta da Giovanni Del Mastro, che da anni si batte per il riconoscimento dei danni da talidomide e dei relativi indennizzi.

Per scrivere questo post ho utilizzato le informazioni che Luisa Guerrini e Benedetto Terracini hanno trasmesso a me e Maurizio D’Incalci in conversazioni e numerosi scambi di email. Ho inoltre consultato i testi citati nel post. Particolarmente utili e interessanti sono stati gli Atti del convegno “La tragedia della talidomide”, pubblicati a cura di Antonio Ciuffreda e Francesco Picucci (Florence Art Edizioni, 2° edizione, 2022). In apertura Luisa Guerrini e Benedetto Terracini, in una foto fornita da loro.
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Una confezione di un farmaco tedesco contenente talidomide (Wikipedia).
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Numero di specialità europee contenenti talidomide (Nicoletta Cremonesi, La comparsa della talidomide in Italia, Atti del convegno “La tragedia della talidomide”, pubblicati a cura di Antonio Ciuffreda e Francesco Picucci - Florence Art Edizioni, 2° edizione, 2022).
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Il pediatra Widukind Lenz (Deutsche Biographie) che per primo notò e segnalò le malformazioni dovute alla talidomide.
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Frances Oldham Kelsey riceve nel 1962 la Medaglia al valore dal Presidente John Fitzgerald Kennedy (Wikipedia)
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Nei topi “knock out” per il gene p63 i piccoli nascono senza zampe e con altri difetti simili a quelli provocati negli esseri umani e altre specie dalla talidomide (particolare da Mills, A., Zheng, B., Wang, XJ. et al. p63 is a p53 homologue required for limb and epidermal morphogenesis. Nature 398, 708–713 (1999). https://doi.org/10.1038/1953).