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Mettere in banca i semi

Il conflitto in Siria ha distrutto le risorse agricole del paese, costringendo gli scienziati e gli agronomi a fare il primo prelievo della storia dal caveau delle isole Svalbard. Ma che cosa sono, a cosa servono e come sono nate le banche dei semi agricoli?
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Hanno fatto il primo prelievo. Gli scienziati siriani, a causa dei danni prodotti dalla guerra alla banca dei semi di Aleppo gestita dall’International Center for Agricultural Research in the Dry Areas (ICARDA), hanno richiesto alla Banca dei semi più fredda e protetta del mondo, quella delle Isole Svalbard, di consegnare loro un campione di semi di grano, orzo e altre piante di interesse agroalimentare per rimettere in sesto la propria collezione e per poterle conservare anche nei paesi vicini, come il Libano. Raramente, quando pensiamo alla guerra, ci rendiamo conto che può compromettere anche la sicurezza alimentare futura di un paese.
L'ingresso della banca alle isole Svalbard (Immagine Wikimedia Commons)
La banca delle Svalbard, gestita dal Crop Trust e finanziata da molti paesi, è nata proprio per questo, come una sorta di assicurazione sulla vita dell’umanità. E difatti si è guadagnata molti nomi diversi: da Arca di Noé a banca della catastrofe. Nei fatti è un vero e proprio deposito sotterraneo, tra i ghiacci polari vicino a Longyearbyen, in Norvegia, nell’arcipelago artico delle isole Svalbard a circa 1200 km dal Polo Nord. Qui sono conservati oltre 890.000 semi, più di 4000 specie diverse, e altro materiale utile per rimettere in produzione piante di interesse alimentare. Uno sforzo globale enorme, anche molto costoso, che è stato per questo spesso criticato. Ma che a pochi anni dall’inizio delle attività si dimostra già utile, restituendo alla comunità siriana e ai paesi vicini le proprie varietà locali.  

Come sono nate le banche dei semi agricoli?

La storia siriana ha per la verità altri precedenti, di cui uno particolarmente illustre. Facciamo un salto indietro nel tempo, al 1941. Sotto assedio è la città di San Pietroburgo. L’esercito tedesco fuori, la cittadinanza dentro. Vengono messi in sicurezza i quadri e i beni artistici dell’Hermitage. Ma poco lontano ci sono altri beni che un gruppetto di ricercatori tiene gelosamente nascosti e conservati, anche a scapito delle proprie vite. Sono i semi della banca dell’Institute of Plant Industry fondata da Nikolaj Vavilov, il genetista che a buon titolo può essere considerato proprio l’iniziatore, l’inventore delle banche dei semi. Vavilov, nei vent’anni di intensa attività scientifica che lo vedono protagonista, ha compiuto più di 75 missioni in diversi luoghi della terra, raccogliendo incessantemente semi ed esemplari di piante. Ha anche messo in piedi un sistema per cui i russi emigrati in giro per il mondo, dagli Stati Uniti all’Europa ai paesi asiatici ed africani, mandano in patria esemplari di piante locali e semi, tanti semi. La banca di semi del VIR, l’Istituto delle risorse genetiche vegetali, come si chiama oggi prendendo il nome dal suo fondatore, arriva a raccogliere, organizzare, catalogare e conservare, nei primi anni ‘30, oltre 250mila varietà di semi. Ancora oggi, con oltre 350mila accessioni, è una delle più importanti al mondo, superata solo da quelle americane e cinesi. E da quella delle Isole Svalbard, la banca di tutti i semi del mondo.

 Ritratto di Nikolaj Vavilov (Immagine libera da copyright disponibile presso la Library of Congress)
Vavilov purtroppo ebbe davvero poca fortuna: il suo rigore scientifico si scontrò con il desiderio di Trofim Lysenko, giardiniere e cultore delle pratiche agrarie molto abile ed esperto nello sperimentare incroci e tecniche di coltivazione, di compiacere Stalin. E finì dunque, dopo una lunga serie di scontri e di dispute scientifiche sulla possibilità o meno di risolvere in breve tempo il problema delle carestie sovietiche, nelle carceri del dittatore dove morì, di fame, nel 1943. La raccolta sistematica, la classificazione, la conservazione e la rigenerazione dei semi sono diventate invece pratiche diffuse, in molti paesi del mondo. Indipendentemente dall’ambiente di origine, nelle banche i semi vengono conservati, seguendo il metodo ex situ, tutti allo stesso modo. Esistono dunque protocolli molto specifici per garantire che il materiale raccolto possa tornare in campo, se necessario, anche molti anni dopo e dare vita a nuove coltivazioni.  

Come funzionano le banche dei semi?

I semi arrivano alle banche direttamente dai campi: da aziende sperimentali, da aziende produttive che fanno parte di reti attive sui territori nazionali, dai breeders, e cioè da coloro che incrociano le specie in campo per produrre nuove varietà. Ma anche da ricercatori che attivamente, come ai tempi di Vavilov anche se in modi meno avventurosi, vanno in missione nelle zone del mondo dove è noto che la biodiversità di piante selvatiche è molto alta. Come Vavilov aveva intuito, infatti, le piante coltivate provengono da luoghi ben precisi, i cosiddetti Centri di origine e diversificazione delle specie. Si tratta di regioni del mondo ad altissimo tasso di biodiversità dove si trovano numerose piante selvatiche di una stessa specie o di specie affini a quelle che, nei millenni, sono state addomesticate e coltivate. Le piante coltivate provengono infatti da incroci, adattamenti, evoluzioni delle piante selvatiche sotto diverse forme di pressione ambientale, prima fra tutte l’azione umana. L’agricoltura è sostanzialmente una forma molto specifica di addestramento: si selezionano varietà adatte ai diversi ambienti e agli usi previsti partendo da un ampio pool di risorse genetiche, semi e altre parti di pianta, e incrociando, selezionando, provando diverse condizioni di coltura.
Buste di carta che contengono semi disidratati alla Greenbelt Native Plant Center di Staten Island, New York (Immagine: Kristine Paulus via Flickr)
Una volta che i semi arrivano alla banca vengono puliti, conteggiati e pesati. E poi inizia il processo di conservazione vero e proprio. I semi vengono disidratati e messi sotto vuoto in bustine o contenitori che servono a evitarne l’ammuffimento e a garantire una buona vitalità anche se conservati a lungo termine.  

Come si conservano i semi?

A questo punto i semi di solito vengono divisi in lotti diversi che seguono destini differenziati: una parte finisce nella collezione a lungo termine. Questi pacchettini dunque vengono ordinatamente riposti in scatole o contenitori in freezer. Ci sono banche che hanno freezer operativi a -20°C e altre che arrivano, con apparecchiature più potenti o vere e proprie stanze dedicate, a -80°C. Questa collezione è quella da non toccare sostanzialmente mai più. Serve a dare la garanzia a lungo termine. Oggi, molte banche dei semi hanno la propria collezione a lungo termine ma inviano anche una copia degli stessi semi alle Svalbard. Come fortunatamente aveva fatto la banca di Aleppo, garantendosi così un fondo di sicurezza in caso di danno, come effettivamente è avvenuto. Nella mappa sottostante sono evidenziate le principali banche di semi nel mondo, con indicazione del numero di accessioni. Un’altra parte dei semi disidratati e confezionati diventa invece quella che è internazionalmente nota come la working collection. Una collezione da lavoro, cui si può attingere per fare ricerca, per selezionare nuove varietà in campo se ce n’è bisogno, per ridare semi a comunità locali che sono state vittime di disastri ambientali o carestie, e via dicendo. La working collection è anche quella che permette di studiare meglio le piante conservate, di verificare per esempio, riseminando a intervalli regolari di tempo, qual è la vitalità dei semi conservati, quando si riduce, quali sono le migliori condizioni di recupero. La collezione a breve termine, sostanzialmente, è uno strumento di lavoro, ricerca e di monitoraggio della validità del metodo di conservazione. Presso le banche dunque ci sono anche laboratori di germinazione, dove si fanno le prove di germinazione dei semi su piccole piastre con diverse sostanze nutritive, e dove si controllano anche i fattori che possono indurre i semi a rovinarsi, a essere meno attivi o a modificare il proprio comportamento durante la conservazione. Nei laboratori delle banche si fanno anche altre prove, per confrontare ad esempio la capacità di riproduzione di una pianta via seme o attraverso la messa in coltura di altri materiali, come le talee. Il sistema di conservazione delle banche è un sistema statico ed è, nei fatti, indipendente dall’ambiente. Il processo è ormai standardizzato e c’è un certo grado di collaborazione e di scambio dei materiali conservati. Grazie alle banche volute dalla FAO, negli anni ‘70 e ‘80, è possibile oggi recuperare molte varietà locali che, nei periodi di massima accelerazione dell’agricoltura di stampo industriale, sono state accantonate e non più coltivate per diversi motivi. Collezioni una volta ritenute di interesse locale, quasi percepite come un costo inutile e un sovraccarico difficile da giustificare si sono rivelate, negli ultimi anni, preziose per il recupero di tante varietà locali cadute nel dimenticatoio. Così è tornato nei campi il farro, così sono tornate molte varietà di grano e di mais del tutto abbandonate per decenni. Dando vita a nuove filiere di prodotti non adatti al ciclo delle trasformazioni industriali ma interessanti per un consumo più locale e per una distribuzione più diretta, attraverso mercati e gruppi di acquisto o negozi specializzati. Un fenomeno in forte crescita non solo in Italia, anche se il nostro paese è forse uno dei più attivi in questo settore.  

A che cosa servono?

La banca dei semi, da sola, è però uno strumento spuntato. Il modello proposto da Vavilov, l’accoppiamento tra banca e stazione sperimentale, rimane quello vincente. Perché è solo rimettendo le piante in campo che si possono davvero valutare gli impatti dei diversi fattori ambientali sulla produzione. Un modello interessante che sta dando ottimi risultati, soprattutto in territori dove è difficile attuare in modo proficuo la filiera agro-industriale, è oggi quello del miglioramento genetico partecipativo. Le collezioni tornano in campo ma nei campi veri, in quelli degli agricoltori disposti a collaborare con i ricercatori e gli agronomi dedicando una parte della propria terra a sperimentare e valutare, insieme, quali semi siano più adatti nelle diverse realtà climatiche, di suolo e di cultura. Nel video sottostante, parte del documentario sulla gestione delle risorse genetiche SEEDversity, vengono raccontate le varie fasi di raccolta e conservazione dei semi della più importante banca africana, quella di Addis Abeba, mantenuta presso l’Istituto Etiope della Biodiversità.
In qualche realtà locale, in Etiopia come in Francia, si sono anche sperimentate interessanti forme di banche dei semi di comunità, costruite, mantenute e gestite da reti di agricoltori. In questo caso i semi non sono conservati in freezer in bustine sigillate, ma in sacchi o contenitori in un deposito comune. In questo caso lo scopo è quello di garantire, ai membri della comunità, l’accesso a una certa quantità di semi per l’anno successivo in caso di disastro ambientale, carestia, pessimo raccolto o, più semplicemente, quando c’è la voglia e il desiderio di cambiare indirizzo produttivo o di sperimentare colture e semi diversi. Un circolo virtuoso per cui i custodi dei semi sono in primo luogo i contadini, insieme e in sinergia con i ricercatori e le Università. Rimanendo nella metafora del sistema bancario, potremmo dire dunque che il microcredito, anche in questo caso, come già dimostrato nel settore economico dal premio Nobel Muhammad Yunus fondatore della Grameen Bank, è in grado di fornire a chi vive in situazioni marginali o a chi sceglie una agricoltura a basso di investimento, opportunità di sviluppo interessanti e accessibili. Immagine banner e box in homepage: Wikimedia Commons
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