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L’Italia del dissesto idrogeologico

Frane e alluvioni sono fenomeni particolarmente frequenti su buona parte del territorio italiano. I danni in termini di vittime, devastazione ambientale e costi economici sono enormi. Conosciamo il male e i rimedi, ma ancora non riusciamo a prevenire catastrofi prevedibili.
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Frane e alluvioni sono fenomeni ben noti nel nostro Paese. Ogni anno si ripetono con drammatica regolarità, provocando vittime e danni ingenti. Sappiamo che gran parte del territorio italiano è a rischio idrogeologico. Un po’ per la sua natura prevalentemente montuosa, ma soprattutto a causa delle attività umane. Il dissesto idrogeologico è figlio dell’incuria e della cattiva gestione del territorio. I costi ambientali, sociali ed economici sono elevatissimi, ma gli interventi per la messa in sicurezza sono spesso bloccati dall’inerzia della politica e dalle lungaggini burocratiche. Cerchiamo allora di analizzare il problema, evidenziando criticità e suggerendo buone pratiche, in un’ottica di maggior rispetto e tutela dell’ambiente.  

Che cos'è il dissesto idrogeologico?

Con il termine “dissesto idrogeologico” si intendono tutti quei processi che hanno un’azione fortemente distruttiva sul suolo. Alcuni si manifestano in modo più graduale e prolungato nel tempo, come l’erosione superficiale, legata principalmente all’azione delle acque meteoriche e alla natura dei suoli. Altri possono essere improvvisi e catastrofici, come le frane e gli smottamenti che si verificano nei terreni montani e collinari, e le alluvioni che inondano quelli pianeggianti. Come accade nel caso dei terremoti, gli effetti del dissesto idrogeologico sono meno evidenti in aree naturali o poco antropizzate, mentre possono assumere connotati drammatici quando colpiscono abitazioni, infrastrutture e coltivazioni.
Piogge torrenziali e bombe d'acqua, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico, stanno rendendo più frequenti frane, smottamenti e alluvioni (immagine: Wikimedia Commons)

Quali sono le cause del dissesto?

Non è sbagliato associare il dissesto idrogeologico allo zampino umano. Esistono fattori naturali che contribuiscono al rischio idrogeologico, come condizioni meteorologiche estreme (piogge particolarmente abbondanti), geomorfologia del territorio (pendenza dei versanti o caratteristiche del bacino idrico) e variazioni climatiche (repentini aumenti della temperatura). In un ambiente integro, tuttavia, il loro impatto è trascurabile. Inoltre alcuni di questi, come le anomalie climatiche, sono in realtà favorite dal riscaldamento globale di origine antropica. Il principale responsabile del dissesto idrogeologico, quindi, è l’uomo. Le attività umane che vi contribuiscono maggiormente sono la deforestazione, l’eccessivo consumo di suolo e la cementificazione. Analizziamole in dettaglio una alla volta.  

In che modo la vegetazione riduce il rischio di frane?

Il primo beneficio della copertura vegetale, ancor più della produzione di ossigeno (il maggior contributo viene dal fitoplancton) è il consolidamento del suolo. Con le loro radici, le piante trattengono il terreno impedendo il suo dilavamento, cioè l’erosione provocata dalle piogge e dal ruscellamento. Inoltre, assorbono una parte consistente dell’acqua piovana, e ne smorzano la violenza, favorendo al contempo la sua penetrazione in profondità.
Il 28 luglio del 1987, dopo piogge eccezionali un'enorme frana di 40 milioni di metri cubi travolse la Val Pola, una valle laterale della Valtellina, creando una diga alta 50 metri che sbarrò il fiume Adda. Tra frane ed esondazioni 53 persone persero la vita, e i danni furono ingentissimi (immagine: Wikimedia Commons) 
Dove la copertura vegetale viene eliminata a causa del pascolo eccessivo, degli incendi o della deforestazione, le piogge (e in misura minore il vento) asportano rapidamente il suolo più superficiale, fertile e ricco di humus. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle aree tropicali deforestate, dove i violenti acquazzoni stagionali dilavano rapidamente il sottile strato fertile. In pochi anni, erosione e alterazione del ciclo dell’acqua - la stessa foresta produce il 50% della pioggia che la bagna - possono trasformare ciò che un tempo era bosco o foresta in una distesa arida e brulla. Nelle zone temperate, invece, il rischio maggiore non è rappresentato tanto dalla desertificazione (comunque presente nel sud d'Italia e nelle isole maggiori), quanto dalle alluvioni e dagli smottamenti. L’acqua non più assorbita dalle radici e dal terreno ingrossa torrenti e fiumi facendoli esondare, mentre dai versanti disboscati di montagne e colline si staccano più facilmente frane.
Un pendio boscoso, dove le radici degli alberi trattengono il suolo, è molto più stabile di uno disboscato. Questo è quello che purtroppo hanno drammaticamente sperimentato gli abitanti di Sarno e Quindici, due Comuni campani in provincia di Salerno e Avellino. Le colline circostanti, private della copertura vegetale che teneva ancorati gli antichi depositi piroclastici del Vesuvio, non ressero alle piogge particolarmente abbondanti e tra il 5 e il 6 maggio del 1998 provocarono il distacco di una grande frana. Due milioni di metri cubi di fango e detriti piombarono sui due paesi sottostanti, travolgendo ogni cosa e provocando 160 vittime. Puoi vedere la puntata della trasmissione La storia siamo noi, di Giovanni Minoli, dedicata all'alluvione di Sarno, cliccando qui.
 

Da che cosa sono provocate le alluvioni?

Altre cause del dissesto direttamente riconducibili a un’errata gestione del territorio sono gli interventi per regolare il flusso di fiumi e torrenti. Il rapporto dell’uomo con l’acqua è antichissimo. I primi insediamenti stabili, a partire da circa 12 000 anni fa, erano costruiti lungo le sponde di laghi e fiumi o presso le foci. L’acqua infatti è sempre stata indispensabile per dissetare umani e bestiame, coltivare i campi, cucinare e per tutti gli usi quotidiani. Lo è ancora oggi, anche se la tecnologia ci consente di costruire città in pieno deserto, come Las Vegas, con tutti i problemi ecologici che ciò comporta. Il rovescio della medaglia di risiedere vicino all’acqua è il rischio di alluvioni. Un incubo ricorrente, specialmente da quando abbiamo smesso di vivere sulle palafitte. Lungo le sponde del Nilo, in realtà, le esondazioni annuali erano attese e festeggiate dagli antichi Egizi perché apportavano limo fertile ai campi coltivati. Ma gli Egizi conoscevano bene il loro fiume e sapevano gestire le sue piene.
Una scena che raffigura un'inondazione nell'antico Egitto (immagine: gaianews.it)
Vale la pena ricordare che molte grandi pianure, compresa la Pianura Padana, si sono formate grazie ai sedimenti trasportati e accumulati dal Po e dai suoi affluenti. Nelle aree pianeggianti, i corsi d’acqua tendono ad avere alvei pensili. I sedimenti trasportati alzano progressivamente il letto del fiume finché il cedimento di un argine lo fa esondare. L’alluvione allaga vaste aree, depositando ciottoli, sabbia, limo e argilla, strato dopo strato. In condizioni naturali, tutti i fiumi cambiano il proprio corso nel tempo. Quelli che hanno un alveo pensile, dopo una grande esondazione non possono rientrare nel vecchio letto, ma devono scavarsene uno nuovo, come testimoniano i paleoalvei ancora oggi visibili nelle foto aeree dei campi. Di solito, però, le alluvioni catastrofiche sono eventi eccezionali. Infatti le golene, vaste aree comprese fra le rive e gli argini del fiume, fungono da invasi di emergenza dove il fiume può espandersi in caso di piene eccezionali, senza esondare.
I sedimenti del paleoalveo di un fiume (immagine: lapetlab.it)
Anche la vegetazione spontanea che cresce nelle aree golenali è utile, perché rallenta notevolmente la velocità della corrente. Purtroppo oggi molte golene sono occupate da coltivazioni (per esempio pioppeti), se non addirittura da abitazioni e infrastrutture. Una pratica dannosa ma ancora molto diffusa è la cosiddetta “pulizia degli alvei”, cioè la rimozione periodica della vegetazione ripariale, cui partecipano con entusiasmo i volontari della Protezione Civile.
Una golena coltivata a pioppeto e invasa dall'acqua. La rimozione della vegetazione ripariate, oltre a creare danni ecologici, è un fattore di rischio idrogeologico perché aumenta la potenza delle piene (Immagine: Wikimedia Commons)
Vivendo da millenni lungo i fiumi, dovremmo avere acquisito una profonda conoscenza, anche empirica, della loro ecologia, e saper prevenire per contenere la loro periodica esuberanza. Purtroppo è vero il contrario. L’intensa urbanizzazione e il consumo di territorio negli ultimi 50 anni hanno assediato i fiumi, ridotto il loro spazio vitale e aumentato la loro pericolosità. Costretti entro angusti argini e privati delle aree golenali, molti grandi corsi d’acqua, come l’Arno e il Tevere, sono diventati protagonisti in passato di catastrofiche alluvioni. E alcuni rischiano di esserlo anche in futuro.
Il 4 novembre 1966, dopo un’eccezionale ondata di maltempo, l’Arno straripò provocando una delle più devastanti alluvioni della storia italiana. Non solo Firenze, ma anche Pisa e gran parte della Toscana furono sommerse. In alcuni punti, il livello dell’acqua superò i 5 metri, provocando 35 morti e danni irreparabili a capolavori dell’arte fiorentina. È passato più di mezzo secolo, ma sul fronte della prevenzione si è fatto ben poco. Anzi, recenti simulazioni hanno mostrato che se oggi dovesse ripetersi un’alluvione come quella del 1966, con le stesse modalità, l’acqua supererebbe di due metri i livelli raggiunti allora. Come se non bastasse, molte aree che all’epoca erano disabitate o coltivate oggi sono quartieri industriali o densamente popolati.
La basilica di Santa Croce, a Firenze, invasa dalle acque dell'Arno durante l'alluvione del 1966 (immagine: Wikimedia Commons)
 

Perché è importante frenare la cementificazione selvaggia?

Negli ultimi decenni, la pressante richiesta di nuovi terreni da coltivare e spazi per costruire strade, case e infrastrutture ha provocato una sconsiderata cementificazione di molti corsi d’acqua. Gli alvei sono stati rettificati, ristretti, imbrigliati e ingabbiati entro sponde di cemento che hanno trasformato fiumi e torrenti in canali. Oltre alle gravi ripercussioni sugli ecosistemi fluviale e ripariale, completamente stravolti, questi interventi aumentano il rischio di alluvioni, perché l’acqua non trova ostacoli e scorre più impetuosa.
Il torrente Ausa prima attraversava il centro di Rimini, ma ai primi del '900 fu deviato nel fiume Marecchia tramite un canale di cemento e trasformato in uno scarico fognario della città (immagine: Wikimedia Commons)
È quello che succede, in Liguria, a Genova, dove diversi torrenti sono stati a tratti intombati, cioè coperti di cemento e costretti a scorrere in tubature. Alcune case si trovano proprio sopra i torrenti e nel loro alveo. Basta che una piena improvvisa crei un tappo di rami e detriti, per far finire sott’acqua interi quartieri della città. Anche la Sardegna, in particolare la zona di Olbia, rivive periodicamente l'incubo delle alluvioni.
Durante l'alluvione di Genova del 4 ottobre 2010 sono straripati diversi torrenti, tra cui il Molinassi che ha allagato Sestri Ponente (immagine: Wikimedia Commons)
L’impermeabilizzazione del suolo nelle aree urbane è un altro fattore di rischio, perché l’acqua non può penetrare nel terreno e tende a ruscellare, provocando allagamenti. Un fenomeno che a causa del riscaldamento globale sarà sempre più frequente. L’aumento delle temperature infatti aumenta la probabilità di nubifragi, e quindi anche di fenomeni di piena. Secondo il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, in Italia nel 2016 sono stati costruiti 17 000 nuovi immobili abusivi, in media circa 46 al giorno. Quotidianamente, vengono impermeabilizzati da cemento e asfalto 75 ettari di suolo.
Per approfondire il tema dei reati ambientali legati al consumo del territorio, dall’abusivismo edilizio al business del cemento, si può leggere il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, scaricabile da questo sito o acquistabile in libreria.

Quali sono i numeri del dissesto in Italia?

Un rapporto del Ministero dell’Ambiente pubblicato nel 2008 rivela che sono a elevato rischio idrogeologico l’82% dei Comuni italiani, e 5,8 milioni di persone. Le regioni più colpite sono Campania, Calabria, Piemonte, Sicilia e Liguria. Un altro rapporto, redatto nel 2012 da Ance (Associazione Nazionale costruttori edili) e Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), denuncia che sono a rischio 6250 scuole, 550 ospedali e circa 500 mila aziende. Se si aggiungono appartamenti e case residenziali, si arriva a un totale di 1,2 milioni di edifici. Dal 1900 a oggi, in Italia si sono verificate 486 mila frane; nel resto d’Europa sono state 214 mila. Date queste premesse, non sorprende che nello stesso lasso di tempo le vittime del dissesto idrogeologico siano ben 12 600.
La mappa del rischio idrogeologico in Italia (fonte: ideegreen.it)
Sul sito dell'ISPRA, l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, si trovano altre mappe della popolazione a rischio idrogeologico in Italia, separate per frane e alluvioni. Per quanto riguarda i costi, sconforta lo sperpero di denaro pubblico. Nel solo biennio 2010-2012 sono stati spesi 7,5 miliardi di euro in risarcimenti e ricostruzioni. Per i 65 anni precedenti la spesa (fatte le debite conversioni) sale a 54 miliardi di euro. Nel suo rapporto del 2008, il Ministero dell’Ambiente ha stimato che con 4,1 miliardi di euro si potrebbero mettere in sicurezza le zone più a rischio su tutto il territorio italiano. Evitando futuri sprechi e tante vittime. In un documento dell’Anbi (Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari) del 2012, i costi per gli interventi salgono a 6,8 miliardi di euro. Si tratta comunque di una cifra minima rispetto all’enorme spesa per tamponare i danni, senza contare che un piano nazionale di questa portata creerebbe 44 000 nuovi posti di lavoro.  

Che cosa si può fare per ridurre il rischio idrogeologico?

Il modo migliore per prevenire le frane è fermare il disboscamento nelle aree a rischio e non concedere l’edificabilità sui pendii instabili. Dove il danno è già stato fatto, bisogna intervenire per consolidare e stabilizzare i versanti con rimboschimenti e sostegni come muri, gabbioni o reti metalliche. Sarebbe auspicabile un regolare monitoraggio per verificarne la stabilità. Sul fronte delle alluvioni, invece, la strada giusta è la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua rettificati, imbrigliati e cementificati. Ovviamente, va impedita la costruzione di abitazioni nelle aree golenali e sui torrenti intombati. Un esempio virtuoso ci viene dalla Germania, che sta progressivamente smantellando le sponde di cemento. Dove possibile vengono ripristinate le golene e sulle rive sono piantati alberi d’alto fusto.
La rinaturalizzazione del fiume Aire, in Svizzera, che era stato canalizzato (immagine: landezine.com)
Anche le briglie, sbarramenti che dovrebbero correggere la naturale pendenza dell'alveo e smorzare la forza dell’acqua, spesso si sono rivelate controproducenti e andrebbero rimosse. Trattengono infatti i sedimenti a monte e aumentano i fenomeni erosivi più a valle, accelerando le piene. Le casse di espansione rappresentano una possibile alternativa alle aree golenali, laddove sono state rimosse, per contenere le piene. A volte assumono anche una certa importanza naturalistica come zone umide.
Per saperne di più sulle buone pratiche legate al dissesto idrogeologico si può leggere questo vademecum scaricabile in formato pdf. Una pubblicazione recente sul tema è Il dissesto idrogeologico. Previsione, prevenzione e mitigazione del rischio, di Giuseppe Gisotti, Dario Flaccovio Editore, 2012. Tra i siti che si occupano di dissesto idrogeologico ci sono isprambiente.gov.it, legambiente.it, ideegreen.it.
Immagine Banner: Wikimedia Commons Immagine Box: meteoweb.it
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