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Ingegneria

Ingegneria civile

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi:

Immagine di copertina per gentile concessione di Elena Biason

Elena Biason è un’ingegnera civile, si occupa di sostenibilità e risparmio energetico degli edifici. Con il suo lavoro cerca di migliorare la vita delle persone attraverso una progettazione integrata, per garantire un ambiente climaticamente confortevole e piacevole, sfruttando al massimo le risorse rinnovabili.

INDICE

  • Quando ha scoperto che la sostenibilità era la sua strada?
  • Come mai ingegneria e non architettura?
  • Come è avvenuto il suo ingresso nel mondo del lavoro?
  • Di che cosa si occupa nel suo lavoro?
  • Ha una routine quotidiana o settimanale? Come si svolgono le sue giornate lavorative?
  • Che cosa trova particolarmente appassionante nel suo lavoro?
  • Quali sono le criticità?
  • Quali attitudini sono utili per il suo mestiere?
  • Che cosa le è stato più utile di quello che ha studiato?
  • Quali esperienze ritiene siano utili per svolgere il suo lavoro?
  • SCIENZA IN PRATICA – Quali applicazioni pratiche dei concetti teorici sono più frequenti nel suo lavoro?
  • LE PROFESSIONI – Progettare edifici: un lavoro di squadra

PER APPROFONDIRE

  • Obiettivo: ingegneria civile – Scopri percorsi di studio e sbocchi professionali

Quando ha scoperto che la sostenibilità era la sua strada?

Dopo il liceo scientifico mi sono iscritta alla facoltà di ingegneria civile: l’interesse per il mondo delle costruzioni è nato come passione per la storia dell’architettura. Il mio professore di storia dell’arte del liceo, un architetto, preferiva approfondire la storia dell’architettura rispetto a quella dell’arte e stimolava la classe con ricerche e approfondimenti sul tema. È nata in quel momento la passione per questa materia. All’università, il mio corso di studi è stato abbastanza standard ma negli esami a scelta prediligevo quei percorsi più innovativi che riguardavano la sostenibilità, un tema che nel 2012 era ancora all’inizio.

Dopo la laurea, ho fatto un’esperienza all’estero, a Berlino: il tema della sostenibilità era più attuale in Germania e ho potuto approfondire ulteriormente aspetti legati all’ambiente e all’energia.

Come mai ingegneria e non architettura?

Sono estremamente pragmatica e precisa: ho bisogno di criteri oggettivi di valutazione e di parametri definiti con cui misurare la realtà. La matematica mi piaceva per la sua oggettività; il processo architettonico è creativo e soggettivo, non mi sentivo a mio agio in un terreno che mi sembrava così aperto, in cui non era ben definito un punto di arrivo. L’ingegneria civile mi sembrava la quadra tra la matematica e l’architettura: potevo dedicarmi alle costruzioni con la precisione e l’approccio della matematica.

Come è avvenuto il suo ingresso nel mondo del lavoro?

Dopo l’esperienza a Berlino ho iniziato a lavorare per uno studio di progettazione impiantistica. Era il 2015: il Paris Agreement on Climate Change aveva già spostato l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della sostenibilità e del cambiamento climatico, si era creata molta più sensibilità a riguardo. La scelta più coraggiosa che ho fatto è stata quella di iscrivermi nel 2016 al master della SOS – School of Sustainability, fondata dall’architetto Mario Cucinella. Questo master mi ha fornito una panoramica molto generale ma anche approfondita sulla sostenibilità: è stato la chiave che ha aperto la porta di questa passione e che ha fatto per me la differenza. Infatti, dopo il master sono rimasta a lavorare all’interno di MCA – Mario Cucinella Architects come collaboratrice per quasi cinque anni.

Di che cosa si occupa nel suo lavoro?

Mi occupo dell’environmental design, seguendo una progettazione integrata: ciò significa che la forma di un edificio non deriva da un gesto formale, ma è frutto di studi del contesto, del clima, delle tradizioni culturali, dell’architettura vernacolare di un luogo. L’environmental design si occupa dell’analisi del clima, degli asset da sviluppare (per esempio zone particolarmente ventose, zone a ridosso del mare), delle analisi ambientali, dello studio della radiazione solare e dell’illuminazione interna degli spazi. Lavoro spesso in team e ogni scelta è frutto di un continuo scambio e confronto. Attualmente sono consulente ambientale: ho virato verso l’ingegneria ambientale e la sostenibilità, senza perdere di vista il focus sugli edifici.

Ha una routine quotidiana o settimanale? Come si svolgono le sue giornate lavorative?

Il lavoro è abbastanza sedentario e si svolge al computer. Non è però mai noioso: ogni giorno, a seconda del progetto, collaboro con persone diverse; per esempio, stabiliamo in gruppo quali sono le indagini più interessanti da svolgere, perché ogni progetto richiede un approccio diverso. Cerchiamo di condurre analisi differenziate a seconda delle normative, della sensibilità delle persone, sfruttando il margine di libertà che ci rimane.

Che cosa trova particolarmente appassionante nel suo lavoro?

Mi piace la freschezza dei rapporti con le persone con cui lavoro e la voglia di sperimentare: siamo tutti molto giovani, ci divertiamo, a volte mi sento come in una classe a scuola, c’è molto spirito di gruppo. Ciò che mi spinge sempre e mi incentiva è cercare di capire come il mio lavoro, così scientifico e preciso, può influire sulle persone, sia dal punto di vista fisico sia psichico ed emozionale. I luoghi rimangono nelle persone che li frequentano: sono affascinata da questa idea. Vorrei migliorare la vita delle persone attraverso una buona progettazione degli spazi. Per esempio, la mia tesi di laurea era incentrata sull’esperienza di degenza di persone ospedalizzate: ho esaminato come la qualità della degenza dipendesse anche dalla qualità dell’ambiente circostante.

Quali sono le criticità?

Il work life balance: nel mio lavoro non c’è una netta distinzione tra vita professionale e vita privata, non è facile definire un contorno netto. Bisogna cercare di bilanciare bene il lavoro e la vita privata e organizzarsi in modo preciso e programmato per non arrivare troppo in ritardo alle consegne. Con una buona pianificazione si riesce a seguire il processo progettuale con cadenze non troppo incombenti, riuscendo a “mettere un punto” alla fine e arrivare alla conclusione di un progetto nei tempi dati.

Altro aspetto critico, che mi ha spinta sulla soglia dei 35 anni a cercare una nuova posizione lavorativa, sempre nell’ambito delle costruzioni e della sostenibilità, era il fatto di essere a partita IVA. Questa situazione non incontrava più le mie ambizioni personali e professionali.

Quali attitudini sono utili per il suo mestiere?

Questo mestiere richiede flessibilità ed elasticità, lo consiglio a chi non ha paura di cambiare sempre. Anche a livello pratico! Per esempio, i software che usiamo sono costantemente aggiornati e vengono spesso sostituiti. Ogni volta è necessario imparare da capo. Bisogna essere flessibili, i problemi evolvono e non sono mai uguali, risolverli significa percorrere strade nuove e sconosciute. L’attitudine al problem solving è fondamentale: non è mai lo stesso lavoro, dipende dalle circostanze che ci troviamo ad affrontare.

Che cosa le è stato più utile di quello che ha studiato?

Gli insegnamenti universitari mi sono utili non tanto dal punto di vista teorico e nozionistico, proprio perché strumenti e normative cambiano, ma dal punto di vista metodico: è il metodo che mi è rimasto. L’università mi ha insegnato a sviluppare un iter di soluzione del problema. Quella di ingegneria non è una facoltà nozionistica (ovviamente la teoria e le nozioni ci sono) quanto più “metodica”. Bisogna sviluppare una forma mentis che generalizzi una serie di problemi, non basta saper risolvere il problema stesso. Non è importante vedere tutti i casi, ma acquisire gli strumenti per affrontare ogni tipo di caso. Con l’università ho imparato proprio a fare questo.

Quali esperienze ritiene siano utili per svolgere il suo lavoro?

Innanzitutto, la possibilità di avere un punto di vista nuovo e diverso, andando fuori dall’Italia. L’esperienza all’estero è stata per me fondamentale dal punto di vista professionale ma anche relazionale e mi ha dato opportunità uniche: imparare una nuova lingua, relazionarmi con altre culture, approfondire tematiche che in Italia erano meno considerate.

Il master è stato per me il momento di svolta, però non ritengo che sia una tappa imprescindibile per chiunque. Ciò che consiglio vivamente è puntare su una laurea magistrale che permetta di approfondire alcune delle tematiche della triennale. Consiglio di sceglierla con accuratezza e senza fretta. Credo che la magistrale sia il momento più importante per la propria formazione, ancor di più di un eventuale master. L’importante è rimanere fedeli a una tematica: quando si arriva a capire che un argomento ci piace particolarmente, questo va fissato come direzione principale, senza cambiare rotta. Nel mio caso è stato il comfort delle persone e l’attenzione all’ambiente: bisogna coltivare la propria preferenza e approfondirla il più possibile.

Scienza in pratica

Quali applicazioni pratiche dei concetti teorici sono più frequenti nel suo lavoro?

Le analisi ambientali sono il momento in cui applichiamo maggiormente le teorie scientifiche. Per esempio, l’analisi della radiazione solare sulle facciate: attraverso questa analisi è possibile procedere con l’ottimizzazione energetica dell’edificio. Sappiamo che alla nostra latitudine a nord la radiazione è solo diffusa, bisogna lavorare sui lati est, ovest e sud, al fine di garantire apporti solari gratuiti in inverno e controllare il surriscaldamento in estate. Prima di tutto, agiamo sull’orientazione dell’edificio, in relazione alle preesistenze che circondano l’edificio, le quali gettano ombre, e in rispetto del regolamento edilizio del sito costruttivo. Questa analisi influenza il massing, il posizionamento e, molto a grandi linee, la forma dell’edificio.

Più nel dettaglio, analizziamo ogni singola facciata, cercando di ottimizzarla. Ad esempio a sud, dove i raggi sono più alti, sappiamo che funzionano meglio schermature solari orizzontali. Però nei piani più bassi potrebbero esserci comunque ombre: quindi cechiamo di individuare un gradiente di inclinazione, di profondità o di forma che vada a modulare l’irraggiamento solare. Il tutto va fatto tenendo sempre presente l’illuminazione naturale all’interno dell’ambiente: occorre schermare senza oscurare l’interno, bilanciando la temperatura, l’abbagliamento e l’illuminazione.

Le analisi sono eseguite da programmi che studiano un modello tridimensionale dell’edificio lavorando su dati climatici di input.

Possiamo contare su dati climatici sempre più precisi: inizialmente si utilizzavano solo dati storici, provenienti dalle banche dati degli aeroporti. Erano un’approssimazione troppo lontana dal caso reale, anche perché spesso gli aeroporti sono molto distanti dal sito oggetto di analisi. Oggi abbiamo a disposizione file di dati più affinati: attraverso triangolazioni possiamo avere informazioni precise su ogni ambito costruttivo (urbano, rurale, boschivo ecc). Possiamo anche avere dati di proiezioni future per studiare la resilienza climatica dell’edificio. Al momento progettiamo con un target fissato sul 2050, ma in alcuni casi le previsioni arrivano sino al 2080.

I software che utilizziamo sono liberi e costantemente aggiornati da una comunità scientifica di utilizzatori, per esempio Ladybug e Honeybee, tutte implementazioni di programmi di progettazione parametrica. Si presentano con interfacce più semplificate rispetto agli script in linguaggi di programmazione: si tratta di script discretizzati in componenti pronte all’uso, che vanno collegate tra loro. Una volta impostata l’analisi, il programma processa in automatico tutti i parametri da indagare, restituendo come output grafici, diagrammi o schemi colorati che permettono una lettura differenziata dell’edificio e della sua facciata.  

Le professioni

Progettare edifici: un lavoro di squadra

La progettazione di edifici richiede la collaborazione di diverse figure professionali che possono variare a seconda dei casi, tra cui, per esempio, persone laureate in:

  • ingegneria meccanica e energetica, per la progettazione e la gestione degli impianti di un edifici
  • ingegneria civile, per progettare la struttura dell’edificio
  • ingegneria ambientale, per lo studio dell’impatto sul territorio
  • architettura del paesaggio, per la progettazione del verde
  • agronomia, per la progettazione del verde e il rispetto della biodiversità
  • psicologia, per l’analisi del contesto sociale di un determinato luogo e lo sviluppo di processi partecipativi di un progetto
  • pedagogia, per la progettazione di scuole e ambienti per l’infanzia e l’istruzione

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ingegneria civile.

Aggiornato al 21 marzo 2022

Esempio di analisi annuale su scala urbana

Esempio di analisi annuale a scala urbana, applicata al centro di Londra. Simulando la radiazione solare incidente sulle facciate degli edifici e analizzando i raggi solari che giungono a terra è possibile capire quali sono le zone in ombra e quali sono quelle soleggiate, per intervenire rispettivamente a scala di edificio e a scala urbana. Software utilizzati: Ladybug e Grasshopper su Rhinoceros.Immagini per gentile concessione di Elena Biason.

Immagine di copertina gentilmente concessa da Chiara Montanari

Abituata a lavorare in ambienti pericolosi e a gestire situazioni impreviste frequenti, è stata la prima italiana a guidare una spedizione tra i ghiacci dell’Antartide. Il suo è un lavoro frutto di anni di studio e di passione smisurata per la natura incontaminata e selvaggia. La curiosità e il desiderio di guardare il mondo da un altro punto di vista le hanno permesso di affrontare sfide importanti per la ricerca e il progresso scientifico. Chiara Montanari è esperta nel coordinare e gestire gruppi di lavoro molto eterogenei all’interno dei centri di ricerca più estremi del nostro pianeta, affrontando ogni volta sfide nuove con determinazione e professionalità.

INDICE

  • Quali sono le peculiarità del suo lavoro che più la affascinano?
  • Come si svolgono le giornate durante le missioni e quali sono gli obiettivi principali che perseguite?
  • Per arrivare a fare il suo lavoro crede sia più importante lo studio o il lavoro sul campo?
  • Lei oggi è considerata un esempio di empowerment femminile e giovanile, ma è sempre stata così risoluta e determinata?
  • Tralasciando le enormi difficoltà del lavorare in ambienti estremi, quali sono i principali problemi che ha dovuto affrontare durante le missioni?
  • Quali sono le caratteristiche che si devono possedere in questo mestiere?
  • Che cosa significa lavorare in un contesto estremo?
  • Le viene in mente un esempio emblematico che metta in luce le capacità davvero utili in un contesto come quello antartico?
  • LE PROFESSIONI – Spedizione in Antartide

PER APPROFONDIRE

  • Leggi altre interviste relative all’ingegneria civile
  • Obiettivo: ingegneria civile – scopri percorsi di studio e sbocchi professionali
  • Scopri dove si studia ingegneria

Quali sono le peculiarità del suo lavoro che più la affascinano?

Ci sono parecchi aspetti che mi appassionano, e ogni volta che intraprendo una nuova missione ne scopro di ulteriori. Anzitutto, la possibilità di entrare in contatto con tantissime persone, provenienti da settori lavorativi e di formazione differenti. I gruppi di lavoro in cui mi inserisco sono sempre molto eterogenei: proprio attraverso la diversità ci si arricchisce e si ottengono quegli stimoli necessari per affrontare le difficoltà che si incontrano ogni giorno. Viaggiare e confrontarmi con gli altri mi rende migliore sia dal punto di vista professionale sia da quello personale, permettendomi di cogliere la realtà anche da prospettive diverse e di vedere strade alternative che prima sembravano impercorribili.

Amo la natura, nella sua espressione più selvaggia e diversa: quando si scende dall’aereo e si cammina in Antartide sembra veramente di essere in un altro pianeta, con sensazioni ed emozioni uniche, difficili da raccontare a chi non ha vissuto un’esperienza simile. Mi appassionano le cosiddette scienze della complessità, perché riflettono quello che ci circonda. La natura è così straordinaria da coglierci spesso impreparati e a volte ci fa sentire impotenti, ma paradossalmente è proprio quando arriviamo a questa resa incondizionata che può portarci i doni più belli. Mi piace collegare il mio lavoro nelle spedizioni internazionali con temi di grande rilevanza come la sostenibilità, intesa come il pensare ecosistemico che rende armoniosa la sopravvivenza dell’essere umano e delle altre specie viventi.

Come si svolgono le giornate durante le missioni e quali sono gli obiettivi principali che perseguite?

Durante le missioni in Antartide il ritmo delle attività è sempre molto frenetico, in quanto i compiti da portare a termine sono numerosi e le condizioni ambientali rendono tutto molto più difficile di quanto possa sembrare. Per esempio, vengono condotti dei carotaggi e campionamenti di ghiaccio per comprendere l’andamento climatico, oppure vengono lanciati dei palloni in quota per svolgere analisi sull’aria a varie altitudini. E ancora, vengono studiate le interazioni tra Terra e Sole, per esempio per prevenire le tempeste solari che possono danneggiare i satelliti in orbita. Durante le missioni in Antartide la maggior parte delle attività sono rivolte alle ricerche sul clima, per dare una prospettiva storica e tentare di capire i possibili effetti dell’attuale riscaldamento globale sui ghiacci perenni.

In parallelo all’attività scientifica c’è poi tutto quello che riguarda la quotidianità con una base da gestire e: persone da coordinare, sicurezza da tutelare, risorse da organizzare e manutenzioni da svolgere in qualunque condizione, anche quando fuori, in piena estate, le temperature scendono al di sotto dei -50°C, o in inverno quando siamo a -80°C.

Per arrivare a fare il suo lavoro crede sia più importante lo studio o il lavoro sul campo?

Io sono laureata in ingegneria civile e proprio grazie a questo percorso formativo ho ottenuto alcune competenze davvero utili per il lavoro che svolgo. Ma, secondo me, occorre rivedere il concetto stesso di studio: studiare significa dedicarsi a quello che piace, anche se gli argomenti inizialmente sembrano lontani, sparpagliati o in opposizione tra loro: studiare è approfondire ciò che interessa, così che nel momento in cui si comprende qualcosa di nuovo lo si possa davvero metabolizzare per arricchire le nostre possibilità di visione sul mondo. Altrimenti si tratta di puro e inutile nozionismo, che non porta da nessuna parte né a livello personale né tantomeno collettivo.

Studiare ci permette così di aprire la mente e di comprendere la complessità del mondo, mentre lo specialismo esasperato in cui talvolta ci incartiamo tende a chiudere e a limitare la visione su quello che ci circonda. Per questo studiare senza fare esperienza non serve, è come scappare nelle proprie fantasticherie e chiudersi in una bolla. L’altro elemento imprescindibile per la crescita personale, che si può imparare solo attraverso il lavoro sul campo, è la capacità di confronto e la volontà di dialogare ed espandere le proprie conoscenze anche rapportandosi con realtà nuove e diverse.

Lei oggi è considerata un esempio di empowerment femminile e giovanile, ma è sempre stata così risoluta e determinata?

Quando svolgo le missioni in Antartide come capo spedizione, proprio per le caratteristiche del ruolo che ricopro, devo essere determinata e risoluta nelle scelte. Per questo motivo, molti mi ritengono un valido esempio di empowerment femminile e giovanile, ma in realtà fino a qualche anno fa ero una persona estremamente incerta sul da farsi, e da piccola immaginavo di fare tutt’altro nel mio futuro. Di fatto, il sogno della vita mi è capitato tra le mani accidentalmente, e il non avere un percorso chiaro in testa mi ha permesso di cogliere le opportunità che mi si sono presentate sul cammino. Non avere le idee chiarissime non è affatto un male, in quanto permette di ascoltare di più l’istinto e magari ci avvicina alle nostre reali passioni, quelle che sentiamo più intime e libere dal condizionamento sociale. Quando ci ripenso mi viene da sorridere, ma di fatto la mia prima volta in Antartide è stata quasi casuale: qualcuno ha letto la mia tesi di laurea e ha deciso di realizzare davvero l’impianto di riscaldamento ad alta efficienza energetica che proponevo, e da lì ho intrapreso questa bellissima carriera lavorativa.

Tralasciando le enormi difficoltà del lavorare in ambienti estremi, quali sono i principali problemi che ha dovuto affrontare durante le missioni?

Potere lavorare con tante persone diverse, sia per esperienze di vita sia per ambiti di competenza, è di sicuro un valore aggiunto, ma crea anche non poche difficoltà nella gestione del gruppo. Nello stesso team puoi trovare un ex militare, un ricercatore esperto di modelli climatici, un ex ingegnere di Formula1, un incursore dell’esercito, un esploratore e tanto altro. Oltre alle evidenti difficoltà nel gestire personalità così diverse, il problema riguarda anche il fatto che io non sono esperta in molte delle materie di interesse nella missione. Insomma, è un po’ come fare il capitano di una quadra formata da atleti di discipline diverse, e coordinare un gruppo di questo tipo è un privilegio ma anche una bella sfida. Il motore per far funzionare le cose è l’obiettivo comune e condiviso del progetto, che ci porta a confrontarci continuamente: sia a scontrarci sia a supportarci l’un l’altro.

Quali sono le caratteristiche che si devono possedere in questo mestiere?

Non è un percorso lavorativo adatto a tutti, e questo deve essere sempre tenuto a mente. Chi vuole rimanere sé stesso e non mettersi in gioco con sfide sempre nuove non può fare attività di questo tipo, perché metterebbe in pericolo la sia propria incolumità sia quella degli altri membri della squadra. Di certo non può mancare la voglia di esplorare e il gusto per l’avventura. In una parola serve curiosità, ossia l’interesse per scoprire cose nuove e la voglia di mettere in discussione il proprio punto di vista per scoprirne di alternativi ed espandere le proprie conoscenze. Per essere capo spedizione, poi, sono molto importanti anche le capacità di leadership e di comunicazione: in un contesto come quello dell’Antartide riuscire a confrontarsi e sviluppare insieme un percorso comune è essenziale per portare a termine le missioni in maniera efficacie. Un buon leader è molto di più di una persona in gamba in grado di prendere decisioni.

Che cosa significa lavorare in un contesto estremo?

Reinhold Messner ha definito l’Antartide un’esperienza sia di paradiso sia di inferno. Condivido a pieno questa espressione perché rende giustizia a quello che è il luogo più estremo del mondo, con temperature che arrivano a −93°C: tutto è congelato e non ci sono odori, rumori, movimenti. Tutto sembra fermo e congelato. Ma gli imprevisti e le svolte drammatiche sono sempre in agguato, e per questo è necessario prestare grande attenzione a tutto ciò che accade. Anche dal punto di vista psicologico è molto complicato: per esempio, durante alcuni mesi d’inverno, quando si entra nella notte polare e il giorno scompare, gli aerei non possono raggiungere la base per il troppo freddo e si rimane di fatto isolati dal mondo.

Non esistono scuole specifiche che preparano ad affrontare condizioni di questo tipo: si fanno molti corsi di addestramento con le forze armate, con gli incursori, con i medici e gli alpini per abituarsi ad affrontare sfide nuove e a gestire la pressione nei momenti di difficoltà. Ma la realtà è che nulla ti prepara veramente a quello che dovrai affrontare una volta giunto in Antartide. Il capo spedizione, in più, ha anche la difficoltà aggiuntiva di prendere decisioni: si ascoltano tutte le idee dei membri del team ma poi spetta a lui o lei scegliere cosa fare, spesso con poco tempo e la pressione di una condizione tutt’altro che rassicurante.

Le viene in mente un esempio emblematico che metta in luce le capacità davvero utili in un contesto come quello antartico?

La sfida principale del mio lavoro consiste nell’affrontare i momenti di crisi e trovare soluzioni a situazioni complicate. Una volta, durante una spedizione in Antartide alla guida del team belga, ho dovuto gestire una sfida impossibile da prevedere. Il viaggio fila liscio ma all’arrivo ci accorgiamo che la base è stata sabotata e saccheggiata: sono state portate via la maggior parte delle attrezzature di infermeria e le scorte di cibo. Subito ho pensato che non ci fosse più niente da fare: l’unica soluzione era annullare la missione e tornare a casa. Dopo qualche ora di grande sconforto, abbiamo riorganizzato le risorse a disposizione e, sfruttando le competenze di tutti i membri del team, abbiamo portato a termine tutti i programmi di ricerca previsti. Proprio in quell’occasione, dagli esperimenti condotti sono emersi risultati inaspettati e scientificamente rilevanti. Quella volta fu terribile, ma gli imprevisti e le sfide complicate sono all’ordine del giorno in quel contesto lavorativo e senza capacità di improvvisazione e di adattamento alle circostanze che si presentano è davvero difficile riuscire a portare a termine le missioni.

LE PROFESSIONI

Spedizioni in Antartide

Una spedizione scientifica in Antartide richiede la partecipazione di diverse figure professionali, da persone con specifiche competenze tecnico-pratiche, scientifiche, mediche, psicologiche, in ambito della meteorologia a trainer che preparano alla spedizione, per esempio provenienti dall’Agenzia spaziale europea. Inoltre, è necessario un team in grado di costruire le basi e di supporto logistico e per la comunicazione radio.

Per approfondire prospettive occupazionali e percorsi di studio, leggi Obiettivo: ingegneria civile.

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Immagini per gentile concessione di Chiara Montanari
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