Posso dire di conoscere mia zia Graziella grazie a un antibiotico. Senza la preziosa dose di penicillina arrivata in Italia con gli alleati nel 1945, il tifo se la sarebbe portata via a meno di vent’anni d’età, molto tempo prima della mia nascita, e sarebbe stato un vero peccato.
Dopo la scoperta accidentale della penicillina, avvenuta nel 1928 per mano di Alexander Fleming, la produzione industriale di antibiotici è cominciata solo nella Seconda guerra mondiale. Lo scopo: salvare dalle infezioni e dalla sepsi decine di migliaia di soldati feriti da armi da fuoco. Dato il contesto originale, non ho remore a usare una sfilza di metafore belliche, a partire dalla guerra ingaggiata contro i batteri più di mezzo secolo fa.
Gli antibiotici sono stati considerati, a ragione, una medicina miracolosa, capace di far fuori in pochi giorni bacilli temibili che per millenni hanno schiacciato la speranza di vita del genere umano. Ma a cantare troppo presto vittoria a volte si sbaglia, soprattutto quando non si conosce bene il nemico.
Prendiamo una popolazione di batteri in coltura e somministriamo un antibiotico. Quasi tutti i batteri muoiono tranne un piccolo gruppetto di cellule vigorose. Avete in mente i sopravvissuti? Rispetto alla massa di micro-cadaveri, i batteri survivors hanno sviluppato una mutazione genetica, essenziale per non soccombere all’effetto dell’antibiotico.
La mutazione di per sé sarebbe efficace soltanto per il singolo batterio e la sua progenie, se non fosse per un’ulteriore capacità dei microbi: un piccolo ponte temporaneo che mette in comunicazione due batteri vicini e permette il passaggio del pezzo di DNA mutato da un batterio all’altro. La resistenza è così trasmessa non soltanto in verticale, ai «figli» del batterio, ma anche in orizzontale, ai «parenti» e agli «amici» (in gergo il meccanismo si chiama trasferimento genetico orizzontale o laterale).
Con questo meccanismo di scambio di resistenze, semplice e rapido come far passare un pezzo di musica fra due iPod, i batteri hanno messo al tappeto un arsenale farmacologico possente. I vecchi antibiotici funzionano sempre peggio: vanno assunti per molti più giorni rispetto al passato e le ricadute sono sempre più frequenti. I batteri, al contrario, godono di un indomito vigore e sono la prova vivente della straordinaria capacità di adattamento delle specie biologiche alle circostanze più sfavorevoli. Al di là delle conseguenze possibilmente catastrofiche per il genere umano, Darwin sarebbe felice di conoscere i superbugs.
Provate ora a immaginare un mondo senza antibiotici. Togliersi un dente del giudizio o farsi operare di appendicite sarebbero operazioni ad alto rischio. Per non parlare di un intervento a cuore aperto, un trapianto o di una terapia intensiva. Addio medicina moderna? Forse, se non corriamo ai ripari, secondo Lancet Infectious Diseases, l’ultima di una serie di riviste autorevoli a occuparsi di questo problema sempre più pressante.
E gli antibiotici di nuova generazione? All’orizzonte se ne vedono pochissimi. Un antibiotico costa poco, cura in maniera rapida ed efficace (una confezione e via) e diventa in poco tempo obsoleto (ricordate i survivors?). Dati i costi elevati di sviluppo, l’industria preferisce puntare a farmaci per malattie croniche che i pazienti assumono a vita (tante confezioni!). A mio modo di vedere il ragionamento è miope perché, in un mondo a corto di antibiotici, i malati cronici potrebbero avere vita breve. Ma tant’è, alcune industrie sembrano fare così i loro conti.
Non vi avrei mai parlato di scenari tanto lugubri e ansiogeni senza una buona notizia. Il New York Times ha annunciato pochi giorni fa che il governo americano sta seriamente considerando di offrire incentivi finanziari all’industria farmaceutica per stimolare lo sviluppo di nuovi antibiotici. Dato lo spaventoso debito pubblico che Obama porta sulle spalle, la proposta è il segno eloquente che la preoccupazione è alta. Con batteri a resistenza multipla come il MRSA, non più confinati alle corsie di ospedale, gli esperti sono concordi che una crisi sanitaria maggiore è imminente.
«Finalmente qualcuno ci pensa», ho pensato leggendo la notizia. Fra l’altro pare che anche l’Unione Europea stia sviluppando un piano simile (l’ho scoperto sempre leggendo il New York Times; sui giornali italiani neanche l’ombra di queste notizie). Sperando che le dichiarazioni d’intenti si trasformino presto in realtà, dovranno passare almeno 10 anni di ricerche e prove cliniche prima di trovare in farmacia la prossima generazione di antibiotici. A meno che la genomica non aiuti a raccorciare i tempi.
Nel frattempo come ci difendiamo? Tre consigli di buon senso: laviamoci spesso e bene le mani (dalle mani passa buona parte dei contagi); facciamo buon uso degli antibiotici che ancora funzionano (prendiamoli solo dietro prescrizione del medico e, una volta iniziata la terapia, non interrompiamola se non per ragioni molto serie, altrimenti i batteri hanno buon gioco a diventare resistenti); vacciniamoci contro tutte le malattie, batteriche e virali, che si possono prevenire (i batteri si fanno spesso aprire la strada dai virus).
Grazie Obama!