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Che cosa ci ha reso umani?

Sappiamo dire che cosa ci ha reso umani? Non molto, ma un po' più di qualche decennio fa. Grazie alla paleogenetica, una nuova disciplina che riesce ad analizzare il DNA dei nostri antichi parenti.
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Immaginatevi che il titolo di un tema di maturità sia "Che cosa ci ha reso umani?". Se lo avessero dato a me quasi trent’anni fa, ammesso che avessi avuto qualche idea in proposito, avrei probabilmente raccontato cose che non hanno retto alla prova del tempo.

Credevamo di essere gli unici ad avere imparato a costruire strumenti, ma poi abbiamo scoperto che anche i “cugini” Neandertal ne fabbricavano di ottimi; pensavamo di essere i soli a seppellire i nostri cari, ma abbiamo trovato tracce di sepoltura in insediamenti precedenti alla nostra comparsa; ci ritenevamo irripetibili nella nostra dotazione di empatia, ma dal ritrovamento di ominidi arcaici sopravvissuti a ferite gravi, abbiamo supposto che, almeno in qualche caso, questi siano stati assistiti dai loro prossimi.
 
Forse il nostro segreto risiede nel linguaggio? In effetti comunicare è una capacità tipicamente sapiens, che ha permesso agli individui della nostra specie di instaurare uno scambio reciproco incessante, essenziale per la continua crescita della prosperità umana sulla Terra. Ma si tratta solo di un’ipotesi, impossibile da testare, perché i tessuti molli che adoperiamo per produrre i suoni non lasciano tracce fossili su cui indagare. Inoltre il gene più famoso associato finora al linguaggio, FOXP2, è pressoché identico nel nostro genoma e in quello dei Neandertal.
 
Che cosa ci dicono i geni sui nostri antenati? Innanzitutto, occorre premettere che studiare il DNA antico è difficilissimo. La doppia elica si disintegra non appena un essere vivente muore e gran parte del danno avviene subito, nelle prime ore dopo la morte, a opera di enzimi presenti nel corpo stesso. Dopo un po’ restano soltanto frammenti della sequenza originale, e dopo un altro po’ soltanto singole molecole. Quanto è veloce questo processo, dipende soprattutto dal luogo in cui si trova il corpo in decomposizione. Nel permafrost, un terreno dove il suolo è permanentemente ghiacciato, è possibile trovare parti di DNA intatto risalenti anche a 500.000 anni fa. Ma questo è un limite estremo, che ci fa capire come l’idea di ritrovare l'intero DNA di un dinosauro estinto 60 milioni di anni fa può esistere solo in un film, divertente ma fantasioso, come Jurassic Park.
 
Pensate a quante mani possono avere toccato un reperto antico: le tracce di DNA lasciate dai polpastrelli di un essere vivente, enormemente più integre del DNA frammentato di un organismo antico, confondono i risultati della maggior parte delle analisi genetiche, rendendole non interpretabili. Per non dire delle contaminazioni microbiche che fanno impazzire di stizza e frustrazione schiere di ricercatori davanti ai dati “inquinati”, prodotti dalle macchine che amplificano il DNA.
 
Eppure, nonostante le difficoltà, siamo riusciti a leggere il DNA dei nostri “nonni” e “bisnonni”, grazie alla perseveranza di chi ha osato tentare un’impresa considerata impossibile (o folle), e grazie allo sviluppo delle sensibilissime tecnologie genomiche che hanno avuto la meglio. Gli ultimi risultati spettacolari, dal genoma dei Neandertal a quello recuperato dal dito dell’uomo di Denisova (dal nome del sito siberiano dove è stato trovato) sono solo la cima visibile di una montagna di dati e scoperte che continua a crescere a una velocità da cardiopalmo per i ritmi a cui erano abituati i paleontologi. Il merito è soprattutto di Svante Pääbo, uno scienziato che fin da bambino sognava di capire chi siamo e da dove veniamo. Pääbo è l’inventore della paleogenetica, una disciplina che nel giro di pochi anni è emersa come uno dei campi più fertili ed entusiasmanti della ricerca scientifica.
 
Se avete voglia di saperne di più, potete ascoltare questa conferenza TED di Pääbo:

La genetica ha dunque cambiato la storia della diversità umana, dipingendo un quadro inedito delle migrazioni che ci hanno portato a colonizzare l'intero pianeta. Secondo questa visione recente, il genere Homo – un gruppo di primati di dimensioni piuttosto grandi e completamente bipedi – si sarebbe originato in Africa circa 2 milioni di anni fa e avrebbe dato luogo a diverse specie, fra cui Homo sapiens, nata 200.000 anni fa circa. Nel corso dei millenni, diversi gruppi di pochi individui per volta, appartenenti a specie arcaiche di ominidi, avrebbero lasciato l’Africa andando a popolare gli altri continenti.

“Quando Homo sapiens è uscito dall’Africa, ha trovato un pianeta già affollato”, ha detto Telmo Pievani durante la Conferenza di Venezia sul Futuro della Scienza, annunciando la mostra Homo sapiens - La grande storia della diversità umana, che aprirà l’11 novembre a Roma, al Palazzo delle Esposizioni (una mostra da non perdere: affrettatevi a prenotare, perché dura solo fino al 12 febbraio). Con i “cugini” arcaici, i cui antenati erano fuoriusciti dall’Africa ben prima di H sapiens, la nostra specie ha convissuto a lungo, e con alcuni di loro, i Neandertal, si è addirittura incrociata. Forse gli incontri non sono stati tanti o frequenti, ma sufficienti a lasciare in eredità a tutte le popolazioni emerse dall’Africa una traccia genetica duratura. La quantità di DNA Neandertal, variabile fra l'1 e il 4% del genoma, è il segno tangibile che “i Neandertal non sono totalmente estinti, ma vivono un po’ in ognuno di noi”. Parola di Pääbo, che è coautore anche di questa scoperta.
 
È probabile che non riusciremo a capire che cosa ci ha reso umani soltanto leggendo i geni. Dopo tutto, la costruzione di un essere umano moderno passa sì per i geni, ma anche per le infinite variazioni nell’espressione e nella regolazione dei geni stessi, di cui non è possibile ricostruire i cambiamenti nel tempo a partire dal genoma fossile. Occorrerebbero come minimo i tessuti molli, il cibo, i microbi con cui abbiamo convissuto, l’ambiente esterno e molto altro. Per non dire di tutto ciò che ha influenzato il nostro divenire senza toccare il nostro patrimonio ereditario: dagli oggetti che abbiamo costruito agli animali e le piante che abbiamo incontrato alle tradizioni che abbiamo trasmesso.
 
Grazie alla genomica arriveremo comunque a capire molto di più su come eravamo. Anzi, lo stiamo già facendo. Gli ultimi studi hanno per esempio mostrato che Homo sapiens, a differenza dei Neandertal e dei Denisovan, aveva geni utili a difendersi contro le malattie infettive. Una scoperta che ha senso, se pensiamo che i nostri antenati si sono trovati presto a vivere in aggregazioni ad alta densità, dove chi era in grado di difendersi dalle epidemie aveva un indubbio vantaggio selettivo.
 
E se il nostro segreto stesse anche in una vena di follia? Magari in quel coraggio incurante dei pericoli che ha consentito a noi umani di attraversare gli oceani e raggiungere l’Australia 40.000 anni fa circa. L'irrequietezza che ha portato tanti a partire lasciandosi tutto dietro le spalle sarebbe, secondo Pääbo, la stessa che nel 1969 ci ha portato sulla Luna e che un domani ci guiderà forse su Marte. Una forza che forse mancava agli altri ominidi arcaici, che potrebbero non avere osato altrettanto. Trovare l’origine genetica di questa ossessione per il rischio, l’avventura, la curiosità per l’incognito è il sogno di Svante Pääbo: "Se un giorno verremo a sapere che una qualche strana mutazione ha reso possibile la follia umana per l'esplorazione, sarà incredibile pensare che giusto una piccola inversione su un cromosoma ha potuto cambiare l'intera economia del pianeta, portandoci a dominare ogni cosa". Sappiamo bene quanto sia improbabile che una mutazione da sola possa fare tutto questo. Tuttavia, se mai dovesse esistere, l’unico intrepido in grado di trovarla sarebbe senza dubbio Pääbo.

 
Per scrivere questo post ho consultato:
Sleeping with the enemy - What happened between Neanderthals and us, di Elizabeth Kolbert, The New Yorker, Aug. 15 2011
Ancient DNA reveals secrets of human history - Modern humans may have picked up key genes from extinct relatives, di Ewen Callaway, Nature, Aug. 9 2011
African origins, di Jean-Jacques Hublin, Nature, Aug. 25 2011
 
Se volete approfondire, vi consiglio di leggere Gli antenati - Che cosa ci raccontano i più antichi resti umani, di Jill Rubalcaba e Peter Robertshaw, Chiavi di lettura Zanichelli 2011. Il libro, tradotto da Luisa Doplicher, è un viaggio divertente e adatto a tutti.
 
Il molare di Homo denisovan è tratto da D. Reich et al. Nature 468, 1053-1060 (2010) doi:10.1038/nature09710; la foto della grotta croata, in cui sono sono stati trovati i resti dei Neandertal utilizzati per il sequenziamento del genoma, appartiene al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, Leipzig. L'immagine di apertura è della mostra Homo sapiens - La grande storia della diversità umana.

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