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Biologia e dintorni

Effetti placebo (e nocebo) in 5 puntate/4

Che cos'è un effetto placebo? Qual è la sua storia? Che cosa accade nel cervello quando si induce un effetto placebo? Funziona solo per modulare il dolore? Come si studia e come si misura? È lecito mentire a un paziente, seppure a fin di bene, o è meglio istruirlo? Tante domande per altrettante risposte, in 5 puntate, su Biologia e dintorni.
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4. Non solo dolore

Nella prima puntata ho raccontato che cosa è e che cosa non è un effetto placebo; nella seconda puntata ho fatto un breve riassunto della storia dei meccanismi placebo; nella terza mi sono occupata dell’effetto nocebo, del suo possibile ruolo nell’evoluzione, delle critiche rivolte a questi studi e dei metodi più rigorosi per compierli. Oggi vi parlo di effetti placebo in malattie che non sono caratterizzate dal dolore, come il morbo di Parkinson e la psoriasi e la dipendenza da cocaina.
 
Il meccanismo placebo è conosciuto soprattutto nell’ambito della riduzione del dolore, ma studi recenti hanno individuato meccanismi analoghi in malattie dove questo aspetto non è il più rilevante. Le malattie studiate sono tante e diversissime, dalla sindrome del colon irritabile all’ansia e alla depressione. Qui mi limito a riportarvi tre esempi di studi che mi sono sembrati particolarmente significativi, per avere dimostrato come l’aspettativa o il condizionamento inconscio siano presenti, con effetti non trascurabili, in problemi diversi come la dipendenza da cocaina, il morbo di Parkinson e la psoriasi.

Cominciamo con la dipendenza da cocaina. Nora Volkow, la carismatica e autorevole direttrice del National Institute on Drug Abuse (NIDA) di Bethesda, Maryland, ha fatto questo esperimento insieme al suo gruppo di ricerca: ha reclutato alcuni consumatori abituali di cocaina e li ha divisi in due gruppi. A entrambi i gruppi i ricercatori hanno somministrato un analogo della cocaina, ma pur avendo dato loro la stessa sostanza in dosi uguali, le informazioni fornite in proposito sono state diverse per i due gruppi: ai soggetti del primo gruppo hanno detto che avrebbero ricevuto un analogo della cocaina, mentre il secondo gruppo ha saputo che la sostanza sarebbe stata un placebo. I ricercatori hanno quindi valutato la diversa attività cerebrale dei soggetti, misurando il metabolismo del glucosio con la risonanza magnetica funzionale (il metabolismo del glucosio è il parametro usato negli studi di risonanza magnetica per valutare l’attività cerebrale: semplificando molto, più glucosio viene consumato e rilevato e più una certa area del cervello è attiva). Lo studio, pubblicato nel 2003 sul Journal of Neuroscience, ha rilevato una differenza del 15% nel metabolismo del glucosio fra i due gruppi. In altre parole, il fatto di sapere che si sta per ricevere una sostanza che avrà un effetto sul cervello crea un’aspettativa che modifica la risposta dei tessuti cerebrali e l’effetto di alterazione che provoca la sostanza stessa.
 
Il Parkinson migliora con l’effetto placebo. In uno studio canadese alcuni pazienti malati di Parkinson hanno ricevuto, oltre al farmaco usato per trattare questa malattia, anche una soluzione salina, mentre altri pazienti hanno ricevuto soltanto il farmaco. I dettagli dell’esperimento sono un po’ complicati, ma il succo è questo: attraverso un esame di imaging con la PET, i ricercatori hanno osservato un incremento significativo della produzione endogena di dopamina da parte dei neuroni danneggiati dalla malattia, nei pazienti che hanno ricevuto il placebo insieme al farmaco, ma non nel gruppo che ha avuto solo il farmaco (la dopamina è il neurotrasmettitore, la cui carenza nel Parkinson è dovuta al progressivo deterioramento dei neuroni che la producono). L’interpretazione dei risultati dello studio è che il farmaco abbia creato un condizionamento tale per cui l’aggiunta della sostanza placebo avrebbe contribuito a mantenere l’effetto prodotto dal farmaco. Lo studio è stato pubblicato su Science nel 2001. Ulteriori studi sul Parkinson, con metodi differenti, per esempio la ricerca di Benedetti e colleghi pubblicata su Nature Neuroscience nel 2004, hanno confermato questo risultato.
 
Nella psoriasi il placebo dato dopo un farmaco mantiene l’efficacia della terapia. La psoriasi è una malattia infiammatoria i cui sintomi sono tenuti a bada da corticosteroidi. Nello studio effettuato da Robert Ader, il fondatore appena scomparso della psiconeuroimmunologia, i ricercatori hanno curato tre gruppi di pazienti, affetti dalla forma severa della malattia, con una prima dose completa di corticosteroidi, seguita rispettivamente da: solo farmaco; una dose ridotta di farmaco, compensata da placebo; una dose ridotta di farmaco, senza placebo. I pazienti che hanno ricevuto la dose ridotta del farmaco più il placebo hanno avuto una percentuale di ricadute pari a chi ha assunto il farmaco in dose piena e di circa un terzo inferiore ai pazienti che hanno avuto solo la dose ridotta senza placebo. Il risultato di questo studio suggerisce che la somministrazione iniziale di farmaco crei un condizionamento, per cui l’organismo si aspetta una nuova somministrazione. Se questa arriva sotto forma di sostanza placebo, riesce comunque a mantenere l’efficacia di cura anche in assenza del principio attivo. Si tratta di un condizionamento di tipo pavloviano, come è stato anche dimostrato nel 1962 negli animali: “l’effetto del farmaco si mantiene quando il farmaco e il placebo sono somministrati alternativamente”. Negli animali, a differenza degli esseri umani, è probabile che ci possa essere solo un condizionamento inconscio, e non può un’aspettativa consapevole.
 
Si potrà usare l’effetto placebo nella pratica clinica? I risultati che abbiamo appena visto, insieme a tanti altri su malattie molto comuni come il disturbo d’ansia, la depressione e altre malattie, offrono speranza e ottimismo a chi si aspetta un miglioramento delle terapie. Detto questo, ci vuole prudenza e cautela.Gli studi di cui vi ho parlato in queste quattro puntate hanno fatto molti passi avanti nel descrivere e caratterizzare che cosa sono gli effetti placebo e nocebo, come si manifestano, quali sono le leve cognitive, consce e inconsce, e quali sono le attività più minute e profonde che avvengono nei colloqui molecolari fra neuroni.
Ci sono piccoli studi clinici in corso, in cui si sta cercando di applicare alcune delle conoscenze acquisite a vantaggio dei pazienti (per esempio alternando le dosi di morfina con una sostanza inerte, in modo da ridurre le dosi e la tossicità del farmaco). Non bisogna tuttavia dimenticare che le persone non rispondono ugualmente al placebo, un fatto che rende ogni ipotesi di applicazione clinica degli effetti placebo un po’ remota (salvo che un giorno non si disponga di un semplice esame per stabilire a priori chi è sensibili o meno al placebo). Inoltre studi più ampi, che prendano in considerazione un maggior numero di pazienti, sono necessari a confermare i dati raccolti nelle ricerche comportamentali e a valutare se un giorno sarà possibile applicare i risultati di queste scoperte alla clinica.
 
Se volete approfondire, vi consiglio di ascoltare questa intervista in podcast a Fabrizio Benedetti da parte di Ginger Campbell, autrice del Brain Science Podcast (ottima divulgatrice, che trascrive ogni Podcast parola per parola; qui trovate la trascrizione dell’intervista a Benedetti. Abbiate pazienza se il podcast si scarica un po’ lentamente). Le foto di questo post provengono dall'archivio Shutterstock (l'apertura), da Wikipedia (la foto di Nora Volkow) e dal sito Parkinson-Italia Onlus (la foto di Fabrizio Benedetti). L’appuntamento è alla quinta e ultima puntata, lunedì 6/2/12. Parleremo di aspetti etici dell’effetto placebo e dei messaggi importanti che emergono da questi studi per chi esercita l’arte della medicina. Nell’ultima puntata pubblicherò anche la bibliografia completa.

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