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ADHD: diagnosi in eccesso legate ai test di valutazione degli studenti?

Le diagnosi di ADHD sembrano inflazionate, almeno negli Stati Uniti, ben al di là dei casi veramente seri. Complici diversi incentivi sociali che spingono genitori e insegnanti a cercare trattamenti di comportamenti magari fuori dalle righe, ma non necessariamente patologici.
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La sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è uno dei problemi del comportamento più comuni dell’infanzia, specialmente negli Stati Uniti. Ma non è sempre stato così. Prima degli anni ’90 le diagnosi non superavano il 5% dei bambini in età scolare; poi dal 1997 al 2006 sono aumentate del 3% per anno, e addirittura del 5,5% in ogni anno fra il 2003 e il 2007. I dati sono dei Centers for Disease Control and Prevention. A ciascuna delle 6,4 milioni di persone diagnosticate finora negli Stati Uniti è stato in genere prescritto il metilfenidato, noto con il nome commerciale di Ritalin: un farmaco stimolante che, preso con regolarità, può controllare sintomi come la difficoltà a prestare attenzione, l’impulsività e l’iperattività. Molti ritengono che l’ADHD sia una malattia inventata per vendere medicine. In realtà, anche se le cause del problema sono ancora ignote, ci sono ormai dati piuttosto convincenti che dimostrano che l’iperattività e la disattenzione sono caratteri fortemente ereditabili. Inoltre nel cervello delle persone diagnosticate con ADHD sembrano esistere differenze nella struttura dei circuiti nervosi e una minore quantità di recettori del neurotrasmettitore dopamina, ma parte di queste variazioni si attenua nell’adolescenza. Il problema è che non c’è alcun modo di fare una diagnosi oggettiva, come quella che per altre malattie si ottiene con un esame del sangue. L’etichetta di ADHD viene appioppata, soprattutto in America, dopo una breve visita medica, spesso soltanto con il pediatra, che prescrive il metilfenidato per vedere se le cose a scuola migliorano. In queste condizioni è facile che una banale irrequietezza o un periodo di distrazione siano presi per un problema più serio, e che risultino diagnosi in eccesso rispetto al numero di casi con una reale componente biologica. Altri fattori sembrano però avere inflazionato il numero di diagnosi almeno negli Stati Uniti. Nel 1991 la ADHD è stata incorporata nella legge per l’educazione degli individui con disabilità, mentre dal 1997 è possibile fare pubblicità di farmaci diretta ai consumatori. Secondo Adam Rafalovich, un sociologo della Pacific University in Oregon, sia la norma di legge, sia la pubblicità hanno aumentato il numero di genitori informati del problema e della possibilità di chiedere al medico di trattarlo chimicamente. E in effetti le diagnosi hanno cominciato ad aumentare proprio in quegli anni. Un’altra coincidenza curiosa è la distribuzione maggiore delle diagnosi negli stati dove i finanziamenti alle scuole sono legati ai risultati delle valutazioni. Se ne è accorto Steven Hinshaw, un professore di psicologia all’Università della California a Berkeley, che ha anche notato come le diagnosi cominciavano ad aumentare in uno stato poco dopo l’entrata in vigore di una legge che puniva o premiava le scuole in base ai risultati degli studenti. Le coincidenze rispecchiano soltanto correlazioni e non nessi causali, ma è abbastanza chiaro che ci sono parecchi incentivi sociali a favore delle diagnosi di ADHD: per genitori ansiosi di vedere un figlio un po’ agitato che diventa finalmente calmo e bravo a scuola; per insegnanti che preferiscono lavorare in classi più gestibili; e per presidi autorizzati per legge a scorporare i voti dei bambini con diagnosi di ADHD dalle performance medie di un istituto. Le diagnosi spinte verso l’alto, al di sopra della reale prevalenza biologica di ADHD, potrebbero anche spiegare come mai negli Stati Uniti nel 2003 la percentuale di casi arrivava all’8% mentre in Gran Bretagna era ferma al 2%. Noi italiani possiamo considerarci immuni da quello che avviene negli Stati Uniti? Forse no. La prevalenza dell’ADHD in Italia è fra il 4 e il 12%, piuttosto alta rispetto ad altri paesi europei, ma fra i numeri dei diversi studi ci sono discrepanze. Inoltre altri problemi, come i vari disturbi dell’apprendimento, hanno subito impennate diagnostiche, ben al di sopra dell’incidenza media nel resto del mondo, proprio in coincidenza con l’entrata in vigore di leggi ad hoc. E anche se sono dati aneddotici, le notizie di ragazzi irrequieti, invitati a ritirarsi dal liceo prima che arrivi la bocciatura, fanno pensare a modi per non far apparire voti particolarmente magri nelle performance medie delle scuole. Una volta i ragazzi che non rientravano nella norma finivano in castigo e passavano molte ore in corridoio o nell'ufficio del preside; oggi stanno in classe se ricevono una diagnosi e delle medicine. Se le diagnosi fossero precise e riguardassero soltanto i casi molto seri, sia l’etichetta sia il trattamento potrebbero essere considerati non soltanto una condizione accettabile, ma un progresso rispetto alla precedente emarginazione. L’incertezza delle diagnosi crea però un problema particolarmente acuto, dato che il trattamento farmacologico tocca i cervelli di ragazzi in crescita. Trattamenti a lungo termine, con conseguenze di cui sappiamo ancora pochissimo. Ho trovato le principali informazioni per questo post nell’articolo di Maggie Koerth-Baker sul New York Times del 15 ottobre 2013. Oltre agli articoli linkati nel post, ho consultato le pagine del NIMH dedicate ad ADHD. Un lettore dell’articolo del New York Times ha fatto un’osservazione interessante riguardo alla Finlandia: i tassi di ADHD fra i ragazzi finlandesi sono i più bassi dei paesi occidentali; lì le lezioni durano 45 minuti, con 15 minuti di pausa ogni ora, in cui i ragazzi possono correre e giocare; gli insegnanti si formano in università selettive, e stipendi adeguati premiano passione, merito e competenza; le valutazioni degli studenti finlandesi sono in cima alle classifiche di tutti i paesi. Che ci sia una correlazione anche fra questi fenomeni?
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