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Farmaci biologici: un prodigio della chimica

I farmaci biologici escono dal laboratorio chimico più sofisticato in assoluto, la cellula di un organismo vivente. La cellula più banale crea molecole rifinite quanto quelle fabbricate dal nostro corpo, ma di queste molecole ignoriamo molti dettagli. Al confronto, i migliori laboratori creati dall'uomo producono composti semplici e rozzi, di cui conosciamo però ogni atomo.
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Ogni giorno salta fuori qualche nuovo farmaco biologico. Con la moda “bio” che impazza anche in farmacia, l’impressione è che si stia accumulando una riserva di medicine dagli effetti naturalmente benefici e radicalmente migliori dei prodotti della chimica. Innanzitutto sgombriamo il campo dal primo equivoco: tutto è chimica, inclusi gli ingredienti del mirtillo naturale al 100% che potete vedere sulla maglietta in apertura (me la sono fatta spedire da James Kennedy, un simpatico australiano, stufo di sentire che la chimica sarebbe tutta un orrore rispetto alla benefica natura: talmente benefica da produrre anche il 33° elemento della tavola chimica degli elementi, che di nome fa arsenico. Garantito naturale al 100%). La chimica è la moneta di scambio di ogni reazione e di ogni trasferimento energetico, naturale o sintetico che sia. Senza chimica non avremmo farmaci né biologici, né di sintesi, e non avremmo neppure l’acqua, il cibo o noi stessi. I farmaci biologici sono prodotti che escono dal laboratorio chimico più piccolo e sofisticato che sia mai stato costruito, la cellula di un organismo vivente. Per i farmaci che ci riguardano, in genere la cellula appartiene a un microrganismo, una pianta o un animale in cui siamo riusciti a inserire uno o più geni, spesso umani, grazie alle tecniche del DNA ricombinante. Perfino la cellula più banale in cui possiamo insinuare un nostro gene crea molecole sofisticate e rifinite quanto quelle che è capace di fabbricare il nostro corpo. Al confronto, i composti che escono dal migliore laboratorio della migliore industria chimica sono infinitamente più semplici e rozzi. Del processo biologico però non controlliamo ogni dettaglio perché non lo conosciamo a sufficienza, dal momento che esso è emerso non da un progetto umano, ma dal percorso tortuoso e casuale dell’evoluzione. I composti che escono da una sintesi chimica sono invece sostanze la cui struttura è definita e controllata fino all’ultimo atomo, proprio perché sono fabbricati secondo un manuale di istruzioni progettato dall’uomo. Quindi, anche se si tratta di sostanze assai meno sofisticate di quelle prodotte in natura, di esse sappiamo tutto: conosciamo esattamente come sono fatte e la loro purezza è assoluta. Per passare dalla teoria alla pratica, prendiamo ad esempio l’EPO, un noto farmaco biologico. La sigla sta per eritropoietina, un ormone che il nostro corpo produce per stimolare la crescita dei globuli rossi. L’EPO può dare a un ciclista più globuli rossi per pedalare lungo i tornanti di montagna o può curare un paziente che ne ha persi a causa della chemioterapia. Il primo uso è illecito e pericoloso perché è incontrollato, mentre il secondo è lecito e salvavita se avviene sotto stretto controllo medico. L’EPO è una piccola proteina di 166 aminoacidi dalla cui struttura fondamentale si dipartono quattro catenelle ramificate di zuccheri, ma la quantità e composizione degli zuccheri di ogni catenella è variabile e imprevedibile. Le fiale di EPO che si vendono in farmacia contengono quindi una miscela di molecole eterogenee: ognuna di esse ha gli stessi 166 aminoacidi, ma gli zuccheri variano. Gli zuccheri però sono ben più della guarnizione di una torta: la stabilità e l’azione dell’EPO cambiano infatti a seconda degli zuccheri presenti, anche se il contributo individuale di ciascun tipo non è noto.

 

La struttura dell’eritropoietina con i suoi variabilissimi zuccheri (fonte: P. Huey/Science)

Gli zuccheri sono soltanto un esempio di ciò che può essere aggiunto alle proteine dopo la sintesi: grassi o altri gruppi chimici possono anch’essi attaccarsi e modificarne le proprietà. La cellula produce così molecole di complessità ben superiore a quel che si può ottenere in un laboratorio chimico. Se infatti un piccolo composto di sintesi come l’acido acetilsalicilico comprende 21 atomi, l’insulina ricombinante fatta da una cellula conta 788 atomi organizzati in 52 molecole, e farmaci ancora più evoluti arrivano oltre i 20 mila atomi. Le istruzioni che la cellula usa per effettuare le sue finiture spesso complicatissime sono assai meno conosciute e standardizzate rispetto alla sintesi del DNA o delle proteine. Per questo siamo ancora lontani dal sapere riprodurre questi processi al di fuori di una cellula. Costruire farmaci biologici senza le cellule, riproducendo l’intero percorso di sviluppo e produzione in un laboratorio chimico, sarebbe vantaggioso per controllare purezza e contenuto, atomo per atomo. Ma vorrebbe dire che sapremmo controllare e imitare una cellula, mentre siamo assai lontani. Ecco perché dai farmaci biologici ci possiamo aspettare azioni più mirate, ma non la stessa purezza e il controllo fino al livello atomico di un composto chimico progettato e realizzato da un essere umano. Un’altra categoria che va di moda sono i farmaci a bersaglio molecolare. Si tratta dei composti di cui è noto uno specifico obiettivo all’interno del corpo, in contrapposizione a farmaci che apparentemente sparano nel mucchio. Per esempio, i cosiddetti anticorpi monoclonali sono considerati i farmaci a bersaglio molecolare per eccellenza perché sono capaci di riconoscere una molecola specifica fra molte. Sono anche considerati biologici poiché sono ottenuti dallo sfruttamento di un processo, quello della produzione degli anticorpi, che si trova naturalmente nel nostro corpo. Biologici e farmaci a bersaglio molecolare sono inevitabilmente migliori di quelli tradizionali? Abbiamo detto che la passione per il “bio” va oltre il supermercato, e medici e pazienti non sono immuni alle mode. Così l’industria farmaceutica sfrutta l’interesse e la curiosità, oltre che per il biologico, per tutto ciò che è tecnologicamente avanzato con grandi campagne pubblicitarie assai persuasive. Non è detto però che i farmaci biologici o a bersaglio molecolare siano per definizione superiori a quelli tradizionali, né che quelli tradizionali siano privi di un bersaglio molecolare: ogni farmaco va valutato per la sua efficacia e per la sua sicurezza, qualunque sia la genesi (chimica o biologica), e che il bersaglio sia noto o non lo sia. Tutti i farmaci, dal più vecchio al più recente, hanno almeno un bersaglio molecolare, e spesso più d’uno, altrimenti non funzionerebbero! Per lo stesso motivo molti di essi imitano i processi biologici o vi interferiscono. In certi casi conosciamo sia i bersagli sia i meccanismi; in altri conosciamo l’effetto, ma non il meccanismo o il bersaglio. Non per questo i meccanismi e i bersagli non esistono o non sono specifici. Dire quindi che soltanto i nuovi farmaci hanno un preciso bersaglio molecolare è un po’ una sciocchezza. Sciocchezza che però fa presa su medici, pazienti, giornalisti, svilendo la qualità dei tanti ottimi farmaci di sintesi che continuano a fornire ottime prestazioni a prezzi assai più contenuti degli ultimi ritrovati. Ho trovato ispirazione per questo post nell’articolo Improving biologic drugs via total chemical synthesis di Linda C. Hsieh-Wilson e Matthew E. Griffin, pubblicato su Science il 13 dicembre 2013, e in conversazioni sui farmaci biologici con Maurizio d’Incalci, direttore del Dipartimento di Oncologia dell’Istituo Mario Negri di Milano. La foto di apertura è frutto della collaborazione di Chiara Levy (modella) e Giulia Falci (fotografa).
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