Il giorno di Pasquetta rientravo dalla Francia in Italia, viaggiando lungo la Valle del Rodano. Mentre un divino paesaggio primaverile scorreva dal finestrino, l’immagine di due centrali nucleari a pochi chilometri l’una dall’altra ha fermato la mia attenzione per un istante, riportandomi con il pensiero a Fukushima. Non lontano dalla sagoma delle torri di raffreddamento mi pare di avere intravisto anche qualche casetta, il che mi ha fatto subito pensare alle persone che abitano lì vicino e al rischio, sempre dibattuto, di questa coesistenza per la salute (chiaramente quando le centrali operano in condizioni normali e non in caso di incidente).
La buona notizia è che l’eventuale effetto sulla salute delle basse emissioni di una centrale nucleare che opera in condizioni normali è probabilmente piccolo. La cattiva notizia è che, se quel piccolo effetto esiste, non è affatto detto che siamo in grado di misurarlo. Ripercorriamo insieme i risultati dei principali studi compiuti finora e la ragione di tante incertezze, come ha fatto Nature il 7 aprile scorso.
Nel 1990 si concludeva con risultati rassicuranti il più ampio studio epidemiologico americano sul rischio di morte per cancro dovuta alle emissioni dei reattori. Condotto da Jablon e colleghi del
National Cancer Institute su tutta la popolazione americana esposta, lo studio ha paragonato trent’anni di decessi da tumori fra le popolazioni che abitavano o meno in prossimità di un reattore, senza trovare differenze significative. Ma gli autori stessi dello studio, pubblicando la sintesi dei risultati sul
Journal of the American Medical Association, mettevano in rilievo i limiti principali di qualunque indagine di questo tipo.
In generale l’epidemiologia non prova quasi mai una relazione di causa ed effetto, ma mette in evidenza un fenomeno associato un altro. Con una malattia come il cancro, che negli adulti spesso resta latente decenni prima di manifestarsi, è estremamente difficile se non impossibile risalire alle cause iniziali nella maggior parte dei casi. Dunque gli studi possono soltanto rilevare un certo numero di morti da tumore, ed eventualmente delle differenze di mortalità fra una popolazione e l’altra, ma non sono quasi mai in grado di attribuire loro una causa specifica.
La statistica non è abbastanza potente per rilevare effetti piccoli in popolazioni piccole, distribuite su un’area geografica molto vasta. In condizioni normali le emissioni dei reattori sono molto contenute; la popolazione che vi abita vicino non è mai molto numerosa; e i tumori indotti da radiazioni sono malattie relativamente rare. Inoltre, poiché le centrali sono in genere distribuite in siti anche molto distanti fra loro, l’area geografica da considerare è estremamente ampia e variegata.
Come distinguere, poi, l’eventuale effetto delle radiazioni emesse dalle centrali rispetto a ad altre fonti di radiazioni? Secondo i dati della
Nuclear Regulatory Commission statunitense (NRC), meno dell’1% dell’esposizione annuale totale alla radiazione di fondo deriverebbe dall’abitare vicino a una centrale nucleare, mentre il resto avrebbe origine da fonti naturali, presenti nel terreno e nell’aria, e dagli esami medici cui ciascuno si sottopone. La confusione fra le diverse fonti di radiazione è un problema pressoché irrisolvibile per gli epidemiologi.
Secondo alcuni esperti, se un effetto esiste, è nei bambini che va cercato, perché le cellule di un organismo in crescita si riproducono più frequentemente rispetto agli adulti e sono dunque più sensibili alle radiazioni. Inoltre, come ha sottolineato
Steve Wing, un epidemiologo dell’Università della North Carolina a Chapel Hill, i bambini piccoli in genere accumulano un basso numero di esposizioni a carcinogeni in pochi anni di vita, rispetto agli adulti.
In altre parole il “rumore di fondo” delle esposizioni diverse, accumulate dagli adulti in molti anni di vita, rende difficile isolare l'eventuale effetto prodotto dalle emissioni delle centrali.
Il primo grande studio effettuato sui bambini ha dato risultati meno incoraggianti di quello sugli adulti. Un’analisi tedesca ha, in effetti, trovato 1,5 volte più leucemie fra i bambini entro i 5 anni di età, residenti nel raggio di 5 km da tutte le centrali tedesche, rispetto ai bambini della stessa fascia età che abitavano altrove. Tuttavia anche in questo caso la cautela è d’obbligo. Spix e colleghi, gli autori dello studio che è stato pubblicato sull’
European Journal of Cancer nel 2008, ritengono che le emissioni delle centrali studiate siano troppo basse per spiegare l’effetto osservato. La cautela è ancora più d'obbligo visto che studi analoghi, compiuti successivamente in Francia e in Gran Bretagna, non hanno trovato un aumento paragonabile di casi di leucemia fra i bambini. In effetti a complicare le cose vi è il fatto che la popolazione esposta di bambini è ancora più piccola di quella adulta, e dunque il rischio di errori statistici aumenta e l’affidabilità dei risultati diminuisce.
Il pubblico, insoddisfatto dai risultati poco conclusivi degli studi, continua a chiedere nuove indagini, tanto che il NRC aveva già domandato lo scorso anno alla
National Academy of Sciences americana di riesaminare la questione. Ma la comunità scientifica è divisa.
Alcuni ricercatori ritengono che sia inutile continuare a cercare un effetto che gli attuali metodi di indagine non sono in grado di rilevare.
Edward Maher, Presidente della Health Physics Society, pensa che un nuovo studio possa forse servire a rasserenare il pubblico, non a misurare effetti da dosaggi troppo bassi per poter essere determinati.
Se studi su popolazioni troppo piccole, alla ricerca di eventi rari, sono sostanzialmente infattibili, farli comunque per la pressione del pubblico può generare solo false attese e risultati incomprensibili al pubblico stesso. Qual è dunque il beneficio?
Altri esperti pensano addirittura che non ci sia alcun effetto da studiare. Data la nostra immersione “in un mare di radioattività naturale fin dai primordi della nostra evoluzione”, abbiamo probabilmente imparato a difenderci quanto meno dalle basse dosi di radiazioni, come quelle emesse dalle centrali, secondo
Anton Brooks, tossicologo alla Washington State University a Tri-City. Il nostro organismo sa infatti
riparare il DNA danneggiato e tramite il meccanismo di
apoptosi è anche in grado di eliminare selettivamente le cellule compromesse in modo irreparabile.
Altri ancora ritengono invece che il rischio non scompaia mai del tutto, visto che i meccanismi biologici di riparazione e ripristino non sono efficaci al 100%, come sottolinea
Bill Morgan, del Pacific Northwest National Laboratory.
Se un nuovo studio ci sarà, dovrà essere progettato in modo da superare almeno alcuni dei problemi incontrati dagli studi precedenti. Le raccomandazioni di Wing e colleghi, appena pubblicate su
Environmental Health Perspectives, invitano a studiare l’
incidenza (e non la
mortalità) dei tumori, nei bambini (e non negli adulti), focalizzando l’attenzione sulle esposizioni fin dalla gestazione in utero e nella prima infanzia. Suggeriscono inoltre la raccolta di informazioni geografiche più precise, per esempio attraverso l’uso del sistema
GPS che può localizzare esattamente la posizione delle abitazioni in cui risiedono i bambini rispetto alle centrali nucleari e la distanza che le separa. Inoltre raccomandano di stimare più precisamente le dosi di esposizione, studiando meglio i percorsi di trasporto e assorbimento dei radionuclidi. Ma anche con un’analisi così congegnata non è detto che si riesca a rilevare un effetto.
Aggiungo due considerazioni collaterali. Mi colpisce un po’ l’insistenza su questi effetti, probabilmente piccoli, mentre non ci si stupisce che le conseguenze sulla salute di un incidente della gravità di Chernobyl non siano state studiate in maniera adeguata, tanto che chiunque dà i numeri che preferisce. Va bene che l’Unione sovietica era un paese per nulla trasparente, e che poco dopo è anche collassata, ma la comunità scientifica internazionale perché non è riuscita a imporre studi migliori?
Mi chiedo anche come mai non si studi con altrettanta attenzione l’effetto sulla salute della radioattività naturale emessa, per esempio, tramite le centrali a carbone, che sembra essere notevolmente superiore a quella che fuoriesce dai reattori nucleari. L’opportunità di effettuare o meno uno studio su questi temi sembra dipendere più dalla pressione del pubblico che dalla quantità di radiazioni effettivamente in circolazione.
La maggior parte delle informazioni raccolte in questo post, escluso il commento di chiusura, sono tratte da “US radiation study sparks debate. Researchers divided on how best to probe any possible link to cancer”
di Gwyneth Dickey Zakaib, pubblicato su Nature
il 7/4/11. La fotografia di apertura, della centrale nucleare di Cruas, in Francia, è tratta da Wikipedia.