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Buon viaggio Prof!

Un ricordo di Umberto Veronesi, combattente fermo, tenace, gentile, al servizio della ricerca e dei pazienti, raccontato ai ragazzi di un liceo di Roma.
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Stazione di Venezia, 23 settembre 2013 (?). Non sono sicura della data, potrebbe essere stato anche l’anno prima. In ogni caso credo sia l’ultima volta in cui ho visto Umberto Veronesi. Per uno di quei garbugli ferroviari che rendono varia e sorprendente la vita nel nostro Paese, il treno che ci deve riportare a Milano tarda ad apparire sul binario. Arriverà? Non arriverà? Notizie vaghe, incerte. Noi siamo contenti ma anche un po’ stanchi, dopo la fine della Conferenza “The Future of Science”: abbiamo passato tre giorni in mezzo a ragazzi degli ultimi anni di liceo, rapiti dall’occasione unica di ascoltare il racconto di grandi scienziati, perfino di qualche premio Nobel, in quel posto meraviglioso che è la Fondazione Cini a San Giorgio Maggiore. Una bella idea del Prof. e della sua Fondazione, a cui, con il sostegno di AIRC, ho dato volentieri una mano. Vedo il Prof appoggiato contro uno dei muri della stazione. È evidente che la schiena gli duole, ma resiste, stoico, puntellandosi sui piedi. Cerco di farmi aprire il Club Frecciarossa, ma non trovo la tessera. Al citofono provo a spiegare che non è per me, è per un signore forte e anziano che merita cura e attenzione. È per il Prof. Niente da fare, la porta non si apre. Ma il Prof non si agita e non si scompone. Sta lì, appoggiato al muro, con i piedi fa leva e resiste. Ed è lì che capisco che è un combattente fermo, tenace, sempre gentile. Alla fine il treno arriva, il Prof si siede e si è immerge in un libro. Nell’emozione che mi scombussola per la sua morte, il ricordo si è riacceso, questa mattina, mentre sto andando al Liceo Amaldi di Tor Bella Monaca, un quartiere fra i più complicati di Roma, per uno degli incontri di “La Scienza a Scuola” organizzati da Zanichelli. In questo liceo ci sono altri combattenti: sono i professori che hanno fatto della loro scuola un presidio di civiltà e cultura per la borgata. Il loro lavoro, gentile, fermo, tenace, si vede negli sguardi dei ragazzi che mi ascoltano mentre parlo di ricerca per ottenere medicine. Sono attenti, educati, non vola una mosca. Meglio che nei licei del centro. Alla fine mi fanno un mucchio di domande. Le domande continuerebbero, ma la voce è finita e un treno per Milano mi aspetta alla Stazione Termini. C’è però ancora una cosa che voglio dire ai ragazzi. «Ieri sera, forse l’avrete sentito alla televisione, ci ha lasciato Umberto Veronesi. Voi siete molto giovani e magari non sapete bene chi era o che cosa ha fatto. Era un chirurgo, un oncologo, un ricercatore, che nella vita ha cambiato il modo di curare il tumore al seno, salvando la vita a moltissime donne, e ha fatto un mucchio di altre cose. Di queste tantissime cose straordinarie voglio dirvene una». La storia che racconto ai ragazzi comincia nel 1965. Umberto Veronesi, giovane medico, è rientrato da poco dagli Stati Uniti a Milano, all’Istituto nazionale tumori, dove lavora insieme ad altri medici e scienziati. Negli Stati Uniti ha imparato che per curare il cancro bisogna fare ricerca: occorre capire che cosa non va nelle cellule malate. Non sa però dove trovare i soldi. O meglio, sa dove non li troverà: non glieli avrebbero dati né l’Università, né i Ministeri. «E se i soldi li chiedessimo alla gente?». «Alla gente?! Ma sei matto? Nessuno ti darà mai una lira per studiare una malattia di cui non puoi neppure pronunciare il nome». È vero, nel 1965 la parola, cancro, è impronunciabile, l’ospedale un lazzaretto, perché di tumore muoiono quasi tutti, e nessuno lo incoraggia. Ma lui, il Prof, non fa una piega e tira dritto. Insieme a un gruppetto di amici e colleghi fonda l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (AIRC). Contro ogni aspettativa la gente risponde, alla grande. Dopo poco più di 50 anni almeno la metà dei casi di tumore è diventata curabile, grazie alla ricerca, e l’AIRC oggi conta su un milione e mezzo di sostenitori. Il combattente fermo, tenace, gentile non era matto, era visionario: vedeva quello che la maggioranza delle persone normali non riusciva neppure a immaginare. Ecco, Umberto Veronesi era così: era uno che quando aveva un’idea, una convinzione, un’intuizione non mollava. Con grazia e con gentilezza convinceva tutti che le cose, anche le più pazze, apparentemente, che gli venivano in mente, avevano tanto, tantissimo senso. A questo combattente, fermo, gentile, tenace, dobbiamo tutti moltissimo. Imitatelo, se potete, voi che siete giovani. Io intanto vado a prendere il treno. Buon viaggio Prof e grazie.
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