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Che cos'è la salute?

Salute: assenza di malattia o capacità di adattamento a condizioni variabili?
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«La salute è la vita nel silenzio degli organi» scriveva un famoso medico francese, René Leriche, nel 1937.
 
Nove anni più tardi l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) faceva un passo ben più ambizioso, iscrivendo nella propria Costituzione che «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità». Il momento era in effetti propizio all’ottimismo: si era appena usciti dalla Seconda guerra mondiale e la medicina disponeva forse per la prima volta di armi straordinariamente potenti – antibiotici e vaccinazioni di massa in primis – con cui sembrava ragionevole immaginare un mondo di piena salute per tutti.
 
In effetti la promessa è stata almeno in parte mantenuta. Nei Paesi ricchi l’aspettativa di vita è cresciuta oltre ogni aspettativa, e antibiotici e vaccini, insieme a igiene e alimentazione, hanno fatto la loro parte, non c’è che dire.
 
 
(Immagine tratta da Nature 451, 644-47, 2008)
 
Oggi sappiamo anche silenziare piuttosto bene un organo che duole: con un antidolorifico, se abbiamo mal di testa; con un anestetico, se dobbiamo sottoporci a un’operazione chirurgica; con un antidepressivo, se abbiamo una sofferenza dell’anima (ammesso che esista, l’anima).
 
Eppure non possiamo proprio dire che il benessere fisico, mentale e sociale dell’uomo sia qualcosa di definitivamente acquisito. Fra le migliaia di dati che potrei portare a sostegno di quest’affermazione (se ce ne fosse bisogno), ne cito soltanto due che mi hanno fatto riflettere.
 
Il primo dato lo avrete già sentito mille volte - il numero di bambini sotto i 5 anni di età che muoiono ogni anno nel mondo - e il vostro cervello starà dicendo "basta!". Fra l'altro è un numero non solo ripetuto, ma molto grande, di quelli che non riusciamo facilmente a rapportare a dimensioni a noi più familiari. Provate allora a pensare a una città come Trieste, abitata soltanto da bambini entro l’età da scuola materna, e immaginate che ogni 7 giorni quella città si svuoti completamente. In effetti ogni anno i bambini che scompaiono entro i 5 anni di età sono oltre 11 milioni, pari a 52 Trieste o alla popolazione di un Paese come la Grecia (dati OMS).
 
La morte tuttavia è solo uno dei possibili esiti della sofferenza umana, e in genere non il principale. Nella vicina Romania, nel solo mese di marzo di quest’anno, 1500 bambini sono stati abbandonati alla nascita. È un dato talmente enorme, che non ci avrei mai creduto se non l’avessi sentito dalla voce autorevole e schietta di Don Gino Rigoldi (Don Gino Rigoldi, oltre a essere il cappellano del carcere minorile Beccaria, presiede anche l’Associazione Bambini in Romania, con la quale ogni estate centinaia di ragazzi italiani, dai 16 anni in su, vanno in questo Paese a cercare di migliorare le condizioni di vita dei bambini orfani e abbandonati).
 
Insomma, per eradicare malattie e sofferenza dal pianeta è chiaro che la scienza medica può costituire soltanto una goccia, importante ma insufficiente a colmare un mare di bisogni. Bisogni fatti innanzitutto di quattrini, ma anche di un ambiente più salubre, di educazione e, non ultimo, della possibilità di immaginare un futuro per cui valga la pena restare a lungo in salute.
 
Eppure gran parte degli esseri umani raramente si danno per vinti. Anzi, curiosamente non smettono quasi mai di lottare per una vita migliore, di cui la salute è uno degli ingredienti più attesi.
 
La salute come fine è dunque qualcosa che può nello stesso tempo eludere ogni sforzo e motivarne tanti.
 
Come si può definire allora la salute, perché non sia solo assenza di sofferenza fisica, ma neppure un’idea così meravigliosamente astratta da risultare irraggiungibile? Fra tutte le definizioni che ho letto quella che più mi convince è questa:
 
«La salute è la capacità di ciascun individuo di adattarsi al proprio ambiente e alle circostanze individuali».
 
L’idea, che ho trovato in questo editoriale di Lancet, è formulata da un altro medico francese del secolo scorso, Georges Canguilhem, nel libro Il normale e il patologico, del 1943.
 
Lo stato di salute non è dunque un’entità fissa, che si può stabilire in modo uguale per tutti, ma è un po’ come una barra che ogni persona può alzare o abbassare, in base alla percezione della propria condizione a ogni dato momento.
 
In effetti la salute è almeno in parte soggettiva: lo stesso malanno è per Giovanni un nonnulla e per Francesco una sofferenza immane; e questo non perché Giovanni sia un eroe e Francesco una piaga, ma perché ogni individuo ha, fra le altre cose, una diversa storia immunitaria, una differente percezione del dolore e complessivamente una vulnerabilità variabile alle malattie, che si modifica nel tempo anche per la medesima persona.
 
Il benessere è anche un’idea che varia grandemente a seconda di chi siamo e di dove ci troviamo: se in Italia è considerato da molti normale starsene a casa dal lavoro o da scuola per qualche linea di febbre, in altri Paesi è normale vivere sempre con la febbre.
 
La salute è infine uno stato la cui accettabilità muta nel tempo e con l’esperienza: pensate a come i bambini piccoli, cadendo e piangendo in continuazione, imparano a costruirsi la propria scala graduata di tolleranza al dolore.
 
Se alla ricerca della perfezione sostituiamo quindi la possibilità di adattamento, un certo stato di salute diventa allora un obiettivo raggiungibile, anche se mobile e relativo. Badate che non è una definizione pensata perché si accetti come salute qualcosa che salute non è: è piuttosto un modo pragmatico per permettere a ognuno di stabilire che livello di salute può andare o non andare bene.

Ecco dunque la definizione che preferisco. Mi pare ottimista, incoraggiante e anche un po' darwiniana. E mi sembra pure molto attuale, dato che ci stiamo avviando verso l’era della medicina personalizzata, in base alle caratteristiche di ogni individuo e di ciascuna malattia.

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