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Chiodo schiaccia chiodo

Come funziona il dolore? Quali tipi di dolore ci sono? Perché le persone percepiscono il dolore diversamente? La Gate control theory, o teoria dei cancelli, elaborata nel 1965 da Robert Melzack e Patrick Wall, spiega come il dolore funziona negli esseri umani e in altri animali.
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Vi punge un insetto. Il pizzicore non vi dà tregua. Vi grattate, provocandovi un dolore aggiuntivo, ma poi provate po’ di sollievo almeno per qualche minuto. Un chiodo schiaccia un altro chiodo, per così dire. Ma poi la morsicatura riprende a darvi noia. Che cosa è successo nel cervello? Fino a metà del Novecento l’idea prevalente era che la risposta al dolore fosse un meccanismo semplice, lineare e uguale per tutti. Formulata da Cartesio nel 1664 col nome di “teoria della specificità”, l’idea era grosso modo questa: dai un calcio con l’alluce a un angolo e vedi le stelle. Perché? Perché c’è una specie di cavetto che dal piede sale lungo la gamba e la schiena fino al cervello, e trasmette la sensazione di dolore.

René Descartes, illustrazione della via del dolore nel “Traité de l'homme” (1664). Immagine: Wikimedia

Se le cose stessero così, per far cessare un dolore cronico dovrebbe bastare tagliare il “cavetto”. Nel Novecento i chirurghi hanno spesso reciso, in pazienti con tumori o artrite, i nervi che si credeva fossero i soli responsabili della trasmissione del dolore, ma il dolore non sempre è scomparso. Ci sono poi casi di lesioni gravissime che non provocano dolore. Il dottor Harry Beecher era un anestesiologo americano che durante la Seconda Guerra Mondiale curava i soldati feriti sulla spiaggia di Anzio. Agli uomini con terribili ustioni e ferite da proiettili, Beecher offriva la morfina, ma molti la rifiutavano sostenendo di non sentire alcun male.

Un ufficiale medico della 45° divisione di fanteria dell’esercito americano cura insieme a un prigioniero medico tedesco un soldato tedesco ferito ad Anzio nel febbraio 1944 (fonte: Pinterest)

Viceversa ci sono persone che lamentano dolori acuti e cronici in parti del corpo che addirittura non esistono perché, per esempio, sono state amputate. È la sindrome dell’arto fantasma. Insomma, il dolore è soggettivo e una lesione per quanto grande non equivale necessariamente a un’identica sensazione spiacevole in individui diversi. A variare sono soprattutto la soglia, l’intensità e altri fattori, che dipendono in parte dalla genetica e dall’anatomia, ovvero da come la natura ci ha fatti, e in parte dalle esperienze che ci hanno plasmato. Anche gli animali manifestano diversamente il dolore. Prendete per esempio dei terrier scozzesi e allevateli in gabbie di laboratorio, in modo che siano esposti a pochi stimoli sensoriali. Quando i cani usciranno dalle gabbie mostreranno reazioni al dolore diverse da quelle di cani della stessa razza allevati in casa: per esempio, quando incapperanno in un ostacolo non faranno il tipico guaito dei loro simili domestici. Un semplice nervetto che partiva dalla periferia e raggiungeva il cervello non poteva spiegare tutta questa variabilità. Insomma, la teoria di Cartesio faceva acqua e andava superata con un’ipotesi nuova. Ronald Melzack e Patrick Wall, uno psicologo canadese e un neurofisiologo inglese che si sono incontrati al Massachusetts Institute of technology (MIT) attorno al 1965, hanno ipotizzato, sulla base di queste osservazioni, che nel sistema nervoso centrale dovesse esistere un circuito più articolato. Tale circuito doveva, secondo loro, essere in grado di trasformare gli impulsi nervosi (attività elettrica) in ciò che noi percepiamo come dolore (sensazioni). Inoltre doveva essere capace di far variare intensità e qualità delle sensazioni in base all’esperienza di un individuo, alla psicologia e al contesto.

Patrick Wall e Ronald Melzack all’epoca della loro collaborazione sulla fisiologia del dolore al MIT negli anni ’60 (foto: McGill University).

Melzack e Wall cominciarono così a pensare a qualcosa che potesse bloccare l’impulso del dolore o viceversa spianargli la strada, nel suo viaggio verso il cervello. Insomma, ci doveva essere una sorta di diga che poteva lasciar passare o frenare gli impulsi. Nel 1965 Melzack e Wall divulgarono la loro “Gate control theory” (teoria del cancello), in un articolo su Science che ha cambiato la storia della scienza medica del dolore. Secondo questa teoria gli stimoli di dolore viaggiano dagli organi di senso, nella periferia del corpo umano, fino a una prima fermata nel midollo spinale, dove incontrano altre cellule nervose che agiscono da cancelli. Queste cellule, che sono a loro volta influenzate dalle precedenti esperienze, dall’ambiente, dall’umore, dal contesto, permettono o meno ai segnali di raggiungere il cervello. Si stabilisce così se il dolore sia percepito e, in caso, in che modo e con quale intensità. La teoria era un “educato indovinare”, come amano dire gli scienziati quando osano con l’intuito. Melzack e Wall non avevano infatti gli strumenti anatomici, fisiologici o farmacologici per dimostrare che quei cancelli esistevano realmente, sotto forma di cellule nervose. Avevano soltanto ipotizzato un simile circuito in base all’osservazione delle diverse manifestazioni del dolore. Oggi sappiamo che quel circuito esiste e funziona proprio come lo avevano immaginato Melzack e Wall.

Lo schema del gate control theory (fonte: Robert Sapolsky, Behave, Bodley Head, 2017)

In pratica come funziona? Prendo in prestito l’ottimo schema con spiegazione di Robert Sapolsky (Behave, Bodley Head, 2017). Immaginate che il vostro neurone A, appena sotto la pelle, risponda a uno stimolo doloroso, per esempio un pizzicotto, tramite una scarica elettrica (un potenziale d’azione, nel gergo dei neurofisiologi). Il neurone A a sua volta stimola il neurone B che si trova nel midollo spinale, e questo spedendo il messaggio al cervello, vi fa sapere che vi sta accadendo qualcosa di doloroso. Ma il neurone A stimola anche il neurone C, che inibisce B. Risultato? Il neurone B “spara” per un po’ e poi viene silenziato: voi percepite un dolore acuto ma rapido. Ma nel diagramma c’è anche un neurone D, che si trova nella stessa area sotto la cute di B, ma risponde a un diverso tipo di stimoli. Il neurone D eccita anch’esso B e il messaggio è inviato al cervello, ma D è in contatto anche con C e lo inibisce. Risultato? Quando D è attivato da un segnale doloroso, per esempio una morsicatura d’insetto, blocca la capacità del neurone C di inibire B. Ecco che voi percepite un dolore lento e continuo. La cosa particolarmente interessante è che i due tipi di fibre interagiscono e competono come due macchinine che viaggiano a diverse velocità in autostrada. Il neurone D è più lento di A. Così il dolore nel mondo del neurone A non è solo passeggero ma è anche veloce; viceversa, il dolore trasportato dal neurone D non è solo duraturo, ma si manifesta più lentamente. È così che si crea quella varietà di sensazioni che distinguono un dolore di un tipo da un altro nello stesso individuo e in individui diversi. In alre parole, in questa competizione interattiva fra i diversi tipi di neuroni c’è tutta la capacità umana di controllare il dolore, di distrarsi, di sentirlo di più o di meno. Un esempio è dunque ciò che accade quando ci grattiamo una morsicatura d’insetto: stimolando brevemente le fibre veloci di tipo A, per un istante il dolore aumenta, ma il neurone C attivato a sua volta blocca il circuito per un po’. Abbiamo interrotto il circuito del dolore più duraturo per qualche minuto e proviamo sollievo. Questo meccanismo è anche alla base del trattamento del dolore cronico tramite la stimolazione elettrica transcutanea dei nervi (TENS): impiantando un piccolo elettrodo nel circuito del dolore veloce e attaccandolo a uno stimolatore nell’anca, il paziente può darsi una stimolatina ogni tanto provocando un dolore acuto in grado di silenziare per un po’ il dolore cronico. In molti casi la tecnica almeno un po’ funziona, per esempio in persone che soffrono di gravi lesioni alla schiena. Ronald Melzack è anche autore del questionario McGill sul dolore. Pubblicato nel 1975, è una lista di parole associate al dolore che Melzack ha messo a punto insieme a uno statistico. Permette di valutare il tipo di dolore sperimentato da una persona e la sua intensità in base alle parole scelte dalla persona stessa per descriverlo. Tradotto in più di 50 lingue, il questionario è ancora oggi considerato uno degli strumenti più potenti per la ricerca e il trattamento del dolore dei pazienti in tutto il mondo. Le implicazioni degli studi di Melzack e Wall sono vaste. Le scoperte degli analgesici naturali come le endorfine prodotte dal nostro corpo e dei rimedi farmacologici che permettono di controllare il dolore sono figlie della loro teoria. Inoltre gli stessi centri cerebrali sono utilizzati per elaborare anche forme di dolore non letterale, come l’esclusione, l’aggressione sociale, una perdita significativa. Insomma, se a volte percepiamo un dolore morale come qualcosa di fisico, è perché la natura usa e riusa gli stessi circuiti di cellule per mestieri non del tutto dissimili. Robert Sapolsky ha accennato alla teoria di Melzack e Wall in Behave, Bodley Head (2017) e mi ha ispirato questo post. Ho anche consultato Mark Shainblum, The King of (Understanding) Pain: Q&A with Ronald Melzack, McGill Reporter (4/9/2009); Converging pathways of pain research at NICDR, Office of NIH History; Pain, Historical theories, Wikipedia; Ronald Melzack, Wikipedia; Pain Pioneer: Ronald Melzack, McGill University, Youtube (6/10/2010). In apertura Michelangelo Merisi da Caravaggio, Ragazzo morso dal ramarro, 1593-94, Fondazione Longhi - Firenze, particolare (Wikipedia).
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