Mia cara Janet,
mi dicono che giravi per Oxford in una Mini gialla, ti vestivi di tweed e andavi in biblioteca fino a quasi novant'anni, con il tuo apparecchio acustico che, fischiando, disturbava gli altri lettori.
Che modo impertinente di cominciare una lettera, penserai là dove sei. È che, vedi, la mia ammirazione per te è talmente sconfinata, che se partissi dagli elogi ti metterei in imbarazzo.
L’ammirazione comincia per te bambina, quando hai ignorato quella preside che di te ha detto: «Troppo stupida per imparare». Poi prosegue, per il coraggio di decidere di fare il medico, in un’epoca in cui le dottoresse erano merce rara. Talmente rare che non le volevano neppure i più poveri dei poveri.
Non ti volevano nemmeno i malati dei quartieri più tristi di Londra, dove ti avevano mandato, cara dottoressa Vaughan, durante la specialità. Lì un paziente ti aveva perfino detto: «Non c’è un medico maschio? Piuttosto che farmi curare da lei preferirei un nero». Fra emarginati ci si capisce, vero, Janet?
Fra quei malati che avevano bisogno di tutto, come hai trovato il tempo, lo spirito, la sete per dedicarti anche alla ricerca? Perché è lì che ti sei chiesta se la cura migliore per l’anemia perniciosa fosse proprio l’arsenico. E non lo era, come avevi letto nei lavori di quel medico americano, George Minot, che aveva ottenuto risultati migliori con un estratto di fegato crudo.
Mentre cerchi di provare se la tua idea è buona, riesco a immaginarti grazie a tua cugina, Virginia Woolf, che ti ha messo in quella scena di Una stanza tutta per sé, in cui appari presissima a tritare i fegatini di cane. Siamo negli anni Venti, no?
L’idea di tentare con i cani, mi han detto, era del tuo capo, ma non aveva funzionato. Allora hai provato su di te. E la mattina dopo eran tutti lì increduli, in ospedale, a vedere se eri ancora viva. Vivissima, eri, cara Janet. Allora il grande professore ha deciso di dare l’estratto di fegato a un paziente in fin di vita, che è sopravvissuto.
Ovviamente il prof si piglia tutto il merito, ma tu, Janet, te ne sbatti, come direbbe mia figlia, e te ne vai a Harvard. E lì la tua passione per il sangue continua. Ma neppure negli Stati Uniti, un Paese assai meno snob della tua vecchia isola, una donna medico veniva accolta a braccia aperte. Tanto meno se voleva fare ricerca. Per te, Janet, non c’erano né pazienti, né topi. C’erano solo «bloody pigeons»: così chiamavi i tuoi cari piccioni, che tanto ti hanno detto sulla vitamina B12.
Dimmi la verità, Janet, non ti venivano mai i nervi? Neanche in quell’ospedale in cui lavoravi dopo il ritorno in Inghilterra, appena sposata? Sì, quel posto a Londra, dove gli altri medici che ormai conoscevano la tua reputazione, e avevano bisogno dei tuoi consigli, ti scrivevano delle lettere pur di non parlarti!
E come ti sei sentita, Janet, quando quel paziente ti ha chiesto di non dargli più quella medicina, l’estratto di fegato, perché gli faceva venire fame e lui non aveva i soldi per mangiare? Non sai che cosa darei, Janet, per vedere la sua faccia, e la tua, in quella corsia d’ospedale londinese degli anni Trenta.
C’era profumo di guerra, Janet. E tu sapevi quanto sangue ci sarebbe voluto per curare i feriti. Ma come conservarlo, quel sangue? Tu, che fin da bambina eri una divoratrice di libri e articoli, avevi letto da qualche parte che in Russia conservavano, a bassa temperatura, il sangue delle vittime degli incidenti stradali, per usarlo poi per i pazienti negli ospedali.
Nel 1938 sapevate già come conservare il sangue per qualche giorno (aggiungendo il citrato di sodio, che blocca la coagulazione). E sapevate anche come fare le trasfusioni, con tutte le regole dei gruppi sanguigni. A Londra c’erano addirittura 7000 donatori, tutti schedati e da chiamare al bisogno. Ma il loro sangue era da usare subito: appena chiamati i donatori, gli veniva fatto il prelievo, e il sangue era utilizzato sul posto.
Ma questo bel marchingegno, in una guerra sarebbe bastato? Certo che no, Janet. E tu lo sapevi bene, a differenza del Ministro della Difesa. Lui diceva che «conservare il nostro sangue nella nostra gente» sarebbe bastato e avrebbe dato maggiore soddisfazione.
Un genio, eh, Janet? No, non ti preoccupare, lo dico io, non tu. Ben più educata e accorta di me, ti sei limitata a dire la cosa giusta: che non eri d’accordo. Sempre cortese, ma spiccia, senza tempo da perdere. Soprattutto determinata ad aggirare l’ostacolo. Con 100 sterline in tasca che ti ha dato il tuo direttore, hai sguinzagliato gli assistenti in giro per Londra a raccattare tutte le provette in circolazione.
Le bombe però ci hanno messo un po’ prima di cadere su Londra. E così tu, Janet, hai avuto un po’ di più di tempo del previsto per fare un bel piano. Il tuo piano era di costruire dei magazzini dove mettere il sangue. Ti hanno dato il permesso per quattro, due a Nord e due a Sud. Vicini agli ospedali, ma lontani dal centro che sarebbe stato bombardato con maggiore probabilità.
Tutto qui? Macché, Janet, so benissimo che ti sei occupata di ogni dettaglio e ti sei fatta ogni possibile domanda. Quanto sangue prelevare da un donatore? Accettare donatori solo di gruppo sanguigno 0, il tipo universale, o tutti? E poi, quali controlli fare sul sangue? La sifilide si sapeva che era un problema, soprattutto in tempo di guerra. Ma poi, come dire agli ignari portatori che erano stati infettati, magari dalle loro spose?
E che cosa mi dici delle bottiglie in cui mettere il sangue? Oggi, Janet, avrai saputo che abbiamo delle comode sacche di plastica usa e getta. Ma allora voi dovevate cavarvela col vetro, e non era mica facile scegliere la bottiglia di vetro più adatta. Janet, mi han detto che i tuoi bambini non ne potevano più delle bottiglie di tutte le forme con cui avevi riempito il tuo appartamento!
Anche tu, Janet, eri una «bambina molto birichina», secondo il tuo capo che aveva sentito dei tuoi preparativi. Si illudeva di fermarti con una gelida battuta?
No di certo, anche perché tu, Janet, avevi per la testa tutt’altro gelo. Insieme al comitato organizzativo che avevi messo in piedi, avevate deciso che per trasportare il sangue avreste usato i furgoncini di un gelataio.
«Comincia a prelevare», ti hanno scritto con un telegramma dal Medical Research Council il 3 settembre 1939. Due giorni prima Hitler aveva invaso la Polonia e la Gran Bretagna stava dichiarando guerra alla Germania.
Janet, siamo a più di metà di questa lettera, anzi della tua vita, e non ti ho ancora detto come ho saputo tutte queste cose su di te. Ti prego di avere pazienza, alla fine te lo dirò, è una promessa. Ma prima voglio tornare nel tuo magazzino del sangue, dove giravano dei tipi strani che ti chiederei di presentarmi.
C’era quell’irlandese matto che faceva ribaltare i furgoncini. E poi c’erano quegli altri autisti che avevi reclutato al pub. D’altronde c’era la guerra e non potevi mica fare la schizzinosa. Come direbbe mia figlia, ci stava che non solo gli ubriaconi, ma anche molte donne diventassero autisti. Come Lady Dustan, sulla settantina, con la collana di perle e il cappellino alla Queen Mary. E ci stava pure che la sera, quando tornavano al magazzino dopo avere girato per tutta Londra fra oscuramenti e tempaccio, si bevessero il loro buon whisky. Giusto Janet?
E che cosa mi dici di quella ragazzina talmente ustionata che pensavi che sarebbe morta? Eri andata a vedere se c’era qualcun altro a cui dare sangue, ma poi eri tornata indietro e l’avevi trovata ancora viva. Il problema era che era talmente bruciata che non aveva più vene. Ma tu, cara Janet, come al solito ne sapevi una più del diavolo e ti eri ricordata di aver letto da qualche parte che si poteva dare il sangue direttamente nelle ossa. Così hai preso l’ago più grande che hai trovato, glielo hai infilato nello sterno e hai detto a un’infermiera di pompare il sangue.
Quell’incidente ha cambiato la forma degli aghi da trasfusione, e ha salvato la vita a una ragazzina che poi avrebbe scelto, per te, di studiare a Somerville, nel collegio di Oxford dove tu eri preside. Ma questa è una cosa che è successa molti anni dopo, e noi adesso siamo ancora in guerra.
«La cosa grandiosa della medicina di guerra era che potevi correre dei rischi perché le persone morivano comunque, e non sarebbero morte peggio a causa di quello che gli facevamo» per tentare di salvarle. Janet, devo dirti che capisco quello che dici, ed è ragionevole: hai una persona che sta morendo e fai di tutto per salvarla, anche sperimentando qualcosa che non sai come andrà a finire. La sensibilità di oggi, però, è diversa, nel bene e nel male. E mi chiedo se in una guerra dei nostri giorni i medici hanno la libertà che hai avuto tu, nel tentare il possibile.
Nel 1941, con l’arrivo della primavera sono finiti i bombardamenti. Immagino il sollievo, cara Janet! Oppure pensavi di rimanere disoccupata? Neanche per sogno, perché a quel punto i medici e i chirurghi avevano scoperto la bellezza delle trasfusioni e non hanno smesso di chiedere sangue.
Forse ti starai scocciando di rileggere la tua vita, riscritta in malo modo, in una lingua che neppure conosci. Chissà quante imprecisioni avrò scritto. Perdonami Janet. Ma anche con le fesserie che avrò ficcato dentro questa lettera, bisogna pure che la tua vicenda sia conosciuta nel mio Paese. Perché non è che da noi non si facciano trasfusioni.
Dimmi, Janet, come facevi a dire sempre sì a tutti? Hai detto che lo facevi perché «quello che donne e uomini hanno bisogno, quando sono in disperata emergenza, è di essere rassicurati». Forse non ho incontrato molte donne e uomini in una disperata emergenza, ma da te, in questo, ho molto da imparare.
Non hai detto di no neppure quando ti hanno chiesto di andare a Bergen Belsen, in Germania. E dire che venivi da cinque anni di morti, feriti, ustionati sotto le bombe.
Per salvare i prigionieri denutriti, l’idea prevalente era di iniettare idrolisati, una miscela concentrata di proteine in acqua. Ma tu, provando con gli idrolisati o con piccole quantità di cibo, hai capito presto che il secondo trattamento era il modo più semplice ed efficace per ridare forza a quei corpi straziati nei loro pigiami a righe.
Ma tu, Janet, non eri lì per salvare loro. Eri lì, su mandato del governo britannico, per studiare la maniera migliore di ridare forza a persone che erano denutrite al punto di morire di fame. La ragione? Il tuo Paese stava aspettando il ritorno dei prigionieri di guerra inglesi dai campi giapponesi, e bisognava sapere come nutrirli.
Hai detto che hai dovuto «fare scienza all’inferno». Apprezzabile la tua onestà, Janet, altri avrebbero omesso quel racconto, che ti ha segnato. Quando sei tornata a casa, cara Janet, hai bruciato tutti i pigiami a righe di tuo marito.
A guerra finita ti hanno fatto preside del Somerville College di Oxford, dove sei rimasta per 22 anni. È lì che hai rincontrato la ragazzina, cresciuta, a cui hai salvato la vita. Ma le tue battaglie, anche in pace, non sono finite. Hai combattuto perché i collegi femminili fossero riconosciuti come veri collegi di Oxford, un privilegio che fino ad allora era riservato a quelli maschili.
È tempo, cara Janet, di mantenere la promessa. Come ho saputo tutte queste cose di te? Me le ha fatte conoscere Rose George, una scrittrice sorprendente, che è stata allieva del tuo collegio. No, Janet, non ti puoi ricordare di lei, naturalmente. Lei però ha pranzato tre anni sotto il tuo ritratto. Finché ha scoperto tutto quel che c'era da scoprire su quel nome, il tuo, inciso sulla targa. E lo ha raccontato con maestria e ammirazione. Non potevi trovare migliore biografa.
Da Rose ho imparato che ogni due secondi qualcuno ha bisogno di sangue. In media ne servono 50 litri a chi rimane coinvolto in un incidente d’auto. E se per un bypass delle coronarie occorre il sangue di 20 donatori, per un bambino prematuro ne bastano tre cucchiai. Raccontando la tua storia, Rose ha fatto capire a me (e a tanti altri, spero), che se oggi possiamo separare, conservare e trasportare il sangue, per chiunque ne abbia bisogno, in parte lo dobbiamo a te.
Avevi 92 anni quando hai lasciato questa Terra, cara Janet, e avevi appena smesso di guidare la tua Mini.
Grazie di tutto,
Lisa
Mi è venuta l’idea di scrivere questa lettera a Janet Vaughan dopo avere letto A very naughty girl di Rose George (Longreads, marzo 2015), una biografia talmente carina che il mio debito verso Rose è grandissimo. Mi hanno poi ispirato la Lettera a Orazio di Iosif Brodskij, (in Dolore e ragione, Adelphi 1998) e la Lettera per l’anno nuovo di Marina Cvetaeva (cit. in Iosif Brodskij, Il canto del pendolo, Adelphi 1987). Sono modelli inarrivabili, naturalmente.