Le emozioni e i loro “salti” da un individuo all’altro sono un fenomeno di moda. Oggi se ne parla nei libri, nei talk show e nei congressi scientifici, ma non è sempre stato così. I neuroscienziati hanno a lungo considerato l’empatia un fenomeno da baraccone, degno al più di qualche mediocre rivista femminile, e i pochi ricercatori che osavano proporre osservazioni e studi in proposito erano guardati con scetticismo.
La diffidenza che relegava l’empatia ai margini della ricerca è spiegabile, almeno in parte, con le tecniche e gli strumenti rudimentali di un tempo, che difficilmente permettevano di indagare una funzione cognitiva complessa come il riconscimento e la percezione delle emozioni altrui.
Eppure, gli esseri umani conoscono l’empatia fin dall’antichità, seppure in modo empirico e intuitivo. Ma questo ai ricercatori non bastava. Gli scienziati pretendevano, giustamente, di disporre di prove concrete prima di stabilire la reale esistenza di questo fenomeno biologico.
La fortuna per l’empatia è girata a partire dalla metà degli anni Novanta, con la scoperta da parte di Giacomo Rizzolatti e del suo gruppo, all’Università di Parma, dei neuroni specchio, un circuito di cellule nervose che, individuato nelle scimmie e poi nell’uomo, permette di riconoscere le azioni degli altri e di sentirle come proprie. In pratica, una persona che osserva un’altra compiere un’azione è in grado, attraverso l’attivazione dei neuroni specchio, di simulare la medesima azione nel proprio cervello. L’attivazione dei neuroni specchio non è un processo volontario, ma un automatismo che entra in funzione in maniera inconsapevole ogni volta che osserviamo un’altra persona compiere un’azione.
Oggi sappiamo che i meccanismi specchio permettono di riconoscere non solo le azioni, ma anche le intenzioni e addirittura le emozioni degli altri. Il circuito dedicato alla percezione delle emozioni altrui è stato definito principalmente con strumenti come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che ha per esempio permesso di osservare quali aree del cervello sono attive quando un soggetto osserva un'altra persona provare emozioni. Un ulteriore contributo è emerso dagli studi genomici, che hanno associato una serie di geni alla presenza o assenza di empatia.
Il “contagio” delle emozioni è diventato in pochi anni un tema di ricerca non solo rispettabile, ma anche entusiasmante. E non si studia l’empatia soltanto negli esseri umani, ma anche negli animali. Nella lecture di apertura della settima conferenza sul Futuro della scienza di Venezia, Frans de Waal ha mostrato molti esempi di empatia nel mondo animale, dagli scimpanzé agli elefanti. Ed è assai probabile che condividiamo questa abilità, indispensabile alla vita sociale, oltre che con parecchi mammiferi, anche con gli uccelli. Una prova, questa, che l’empatia si è probabilmente evoluta più volte nell’evoluzione, conferendo un vantaggio adattativo agli animali che hanno una vita sociale.
Negli esseri umani l’empatia è innata ed è già attiva alla nascita. Fin dal primo giorno di vita i neonati sembrano in grado di percepire lo stato d’animo della mamma o delle persone che stanno loro vicino. Il canale di comunicazione ha due componenti, una emotiva e una cognitiva. Ciò signfica che siamo in grado di percepire le emozioni sia in modo automatico, senza che ce ne accorgiamo, sia in modo razionale, riconoscendole con un ragionamento. Gli indizi che sappiamo cogliere, e che ci permettono di comprendere immediatamente se una persona è allegra, triste o pensierosa, sono un insieme di segnali sottili, che includono fra le altre cose i gesti, la postura, l’espressione del viso, il tono della voce.
È probabile che gran parte delle interazioni sociali umane coinvolgano processi empatici. Per esempio, quando due persone fanno gli stessi gesti, parlano nello stesso modo, o si trasmettono sbadigli l’un l’altra, ciò che avviene è una sincronizzazione automatica e inconsapevole dei gesti e dei movimenti, che è associata all’empatia. A volte questo fenomeno dà luogo a involontari effetti comici, come quando Tony Blair, in visita al ranch texano di George W. Bush, aveva assunto un passo da cowboy molto simile a quello dell’allora Presidente degli Stati Uniti.
L’empatia è generalmente più comune fra le femmine che fra i maschi, ma la dotazione di ciascun individuo è variabile. Inoltre la capacità di immedesimarsi nelle emozioni degli altri non è fissa, ma muta a seconda di chi abbiamo di fronte (più abbiamo qualcosa in comune con una persona e più tendiamo a “sentire insieme”, un effetto che gli scienziati chiamano bias di gruppo) e in base alle circostanze (se siamo stanchi o stressati abbiamo una minore disponibilità verso il resto del mondo).
Una dote magnifica per chi ce l’ha, l'empatia quando manca crea qualche problema. Simon Baron-Cohen è uno psicologo inglese, fra i massimi esperti al mondo di sindromi autistiche. Nel suo ultimo libro, intitolato Zero degrees of empathy Simon Baron-Cohen propone una nuova teoria, capace di spiegare alcune forme di crudeltà umana con la mancanza parziale o totale di empatia.
Ogni persona, secondo Baron-Cohen, viene al mondo con un quoziente di empatia in parte ereditario, dovuto alla particolare conformazione che assumono i circuiti di neuroni coinvolti nei processi empatici. Questa dotazione genetica e anatomica non è statica, ma dopo la nascita continua a essere plasmata e riconfigurata a seconda di ciò che ogni individuo sperimenta durante lo sviluppo. Particolarmente importante in proposito sembrano essere l’affetto e l’attenzione dei genitori.
Per Baron-Cohen le varie forme di crudeltà umana, dalla ferocia di un kapò nazista agli atti criminali di un serial killer, possono essere spiegate da un’erosione dell’empatia che si può produrre quando i circuiti nervosi dedicati a questo processo sono alterati. Questa anomalia neuronale, che può avere cause sia genetiche che ambientali, porterebbe le persone che ne sono affette a ignorare l’umanità altrui e la mancanza di empatia sarebbe, dunque, una sorta di cecità emozionale, per cui le altre persone possono essere percepite non come esseri umani ma come oggetti.
Un’empatia alterata non è sempre distruttiva. Ci sono diversi esempi di persone affette da sindromi autistiche che, pur avendo una notevole difficoltà a interagire con il mondo esterno, hanno doti di attenzione e di precisione fuori dall’ordinario, in grado di produrre talenti eccezionali in campi come la matematica o l’arte. Un individuo straordinario da questo punto di vista è certamente Stephen Wiltshire:
Il libro di Baron-Cohen termina con una proposta audace: rivedere i criteri diagnostici di diverse malattie psichiatriche, in base alle nuove prove neurobiologiche che individuano nell’alterazione dei circuiti dell’empatia la base comune. Si tratta di una proposta incoraggiante e ottimista, dal momento che le evidenze suggeriscono la possibilità di migliorare la capacità di empatia con terapie adeguate.
Per approfondire:
Frans de Waal, L’età dell'empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale, Garzanti 2011
Simon Baron-Cohen, Zero degrees of empathy. A new theory of human cruelty, Penguin 2011
Lisa Vozza, Giacomo Rizzolatti, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Zanichelli 2007
Le foto di Frans de Waal e di Simon Baron-Cohen sono tratte da Wikipedia (la fotografia di Frans de Waal è di Catherine Marin); la fotografia di apertura è tratta da Fotopedia.