Sir Richard Peto, l’autore dell’omonimo paradosso (foto: Università di Oxford)
La stranezza ha preso il nome di “Paradosso di Peto”. Come si spiega? Le nostre cellule non sono, evidentemente, a prova di cancro, e la ragione più verosimile del paradosso è evolutiva. Specie più grandi e longeve hanno evoluto armi capaci di sopprimere almeno un po’ il cancro, aumentando così la probabilità di sopravvivere e riprodursi. Altrimenti «ogni bebè elefante dovrebbe morire di tumore al colon entro i tre anni di vita», ha detto Joshua D. Schiffman, un oncologo pediatra dell’Huntsman Cancer Institute all’Università dello Utah. Quali sono i meccanismi capaci di tenere almeno un po’ a bada il cancro? Il paradosso di Peto è stato per circa trent’anni soprattutto una teoria, perché non c’era davvero la maniera di ottenere dati empirici. Poi le cose hanno iniziato a cambiare. Un’analisi sulle autopsie di 36 specie di mammiferi dello zoo di San Diego, con dimensioni che variavano dai 51 grammi del topo striato ai quasi 50 quintali dell’elefante, non ha trovato alcuna relazione fra la dimensione del corpo e l’incidenza dei tumori. Nei registri dello zoo di Salt Lake City Schiffman e colleghi hanno trovato le cause di decesso di 644 elefanti: meno del 5% di questi animali è morto di cancro. In paragone muoiono di tumore dall’11 al 25 per cento degli esseri umani – nonostante il fatto che un elefante pesi 100 volte più di uno di noi.Joshua Schiffman con un elefante dello Hogle Zoo di Salt Lake City, in Utah (foto: Università dello Utah).
Un gruppo speciale di proteine, chiamate p53, sembra uccidere le cellule danneggiate degli elefanti che potrebbero dare origine a un tumore. Chiamate le «guardiane del genoma», le proteine p53 fanno parecchie cose: alcune controllano i danni al DNA e stimolano la riparazione, altre bloccano la divisione cellulare e a volte istigano la cellula danneggiata irreparabilmente al suicidio controllato o apoptosi. Gli elefanti hanno venti copie del gene p53, noi una. Per dare un’idea di quanto è importante questo gene, ci sono persone che ne ereditano una versione mutata e per questo soffrono della cosiddetta sindrome di Li-Fraumeni, una predisposizione a un rischio superiore al 90% di sviluppare tanti tipi di tumori. Vincent J. Lynch, un biologo evoluzionista dell’Università di Chicago, ha cercato il gene p53 nei resti di DNA degli antenati di taglia più piccola degli elefanti. Nella maggior parte delle specie ne ha trovata una sola copia, ma via via che questi animali si sono evoluti crescendo in dimensione, anche le copie di p53 sono aumentate: i mammut ne avevano 14. Che cosa dicono gli esperimenti? Cellule di elefante trattate in laboratorio con radiazioni o sostanze chimiche che danneggiano il DNA tendono a non riparare il materiale genetico e a suicidarsi tramite apoptosi. Un altro animale che resiste in maniera straordinaria al cancro è una specie di talpa senza pelo (Heterocephalus glaber). In questo caso l’arma evolutiva, che permette una longevità fino a trent’anni, sembra essere un polisaccaride particolarmente lungo che si trova nella cosiddetta matrice extra-cellulare, lo spazio tra le cellule. TRamite un meccanismo sostanzialmente meccanico la crescita delle cellule che si dividono più velocemente si blocca.La talpa glabra resiste in modo straordinario al cancro (foto: Wikipedia)
Insomma, sembra che ogni specie di mammiferi abbia trovato la propria soluzione evolutiva in grado di sopprimere i tumori, almeno a giudicare da questi pochi esempi. Scarsissimi dati sono disponibili sulle specie selvatiche che non frequentano laboratori o zoo. Né sappiamo molto dell’influenza della vita in cattività sulla probabilità che gli animali sviluppino un tumore. Questo per dire che occorre qualche cautela prima di trarre conclusioni. Quanto deve cambiare la biologia di una specie per compensare l'effetto di dimensioni e longevità sul rischio di sviluppare tumori? Aleah Caulin e colleghi hanno calcolato che una riduzione di tre volte il tasso di mutazione o della velocità di divisione delle cellule staminali, o l’aggiunta di una o due copie di geni oncosoppressori, dovrebbero essere sufficienti a compensare un aumento di 1000 volte delle cellule di un organismo. È la differenza fra noi e le balene. All’interno della stessa specie invece il paradosso non tiene. Esseri umani più alti, ovvero con più cellule, tendono ad avere un rischio lievemente maggiore di sviluppare un tumore rispetto a persone più basse. Lo si è visto in due studi britannici: uno che ha seguito 17.738 funzionari governativi per 25 anni e un altro che ha studiato oltre un milione di donne. Lo stesso vale per i cani: fra le cause di morte di 74.556 cani domestici, l’incidenza del cancro era minore nelle razze più piccole. In media i cani sono dieci volte più suscettibili al cancro rispetto agli esseri umani. La causa sono i “colli di bottiglia” genetici provocati dalla selezione delle razze. Fra i più vulnerabili, i golden retriever, ad alto rischio per vari titpi di cancro (per saperne di più e curarli meglio, alcuni ricercatori stanno seguendo l’intera vita di 3000 esemplari nel Golden Retriever Lifetime Study). Altri tipi di cani sono ad alto rischio per tumori molto specifici (il bovaro bernese per un sarcoma, un tumore dei tessuti molli; il terrier scozzese per un tumore delle vie urinarie, il carcinoma uroteliale; il boxer per il glioblastoma, un tumore cerebrale).Un cucciolo di golden retriever, una razza di cani particolarmente vulnerabile al cancro (foto: Wikipedia).
Oggi non avremmo mammiferi grandi, a volte centenari, se l’evoluzione non avesse selezionato adattamenti in grado di sopprimere il cancro. Meccanismi che limitano i tumori sono nati insieme agli organismi multicellulari, dato che il cancro è un vincolo pervasivo e costante in organismi fatti di tante cellule. Più cellule che si riproducono, convivono, competono in un organismo rischiano di sopraffare, per così dire, il resto della comunità se in loro insorge una mutazione che favorisce in alcune la proliferazione senza freni. Ogni grande specie di mammifero dalla lunga vita ha dunque trovato il proprio adattamento. Un esempio sono le venti copie del gene p53 negli elefanti. Perché noi ne abbiamo una soltanto? Pare che, per animali di dimensioni intermedie come noi umani, il vantaggio di possedere molte copie di questo gene comporti lo svantaggio di una fertilità ridotta. Insomma, ogni soluzione è un compromesso fra pro e contro da bilanciare, a seconda di che cosa è più importante e utile per una specie. Per noi, "un po’ di cancro nell’età dopo la riproduzione" è stata verosimilmente una soluzione evolutiva migliore di "meno figli nell’età riproduttiva" (almeno per la specie: il discorso è tutt'altro per l’individuo, naturalmente). Altri modi di contenere il rischio? Avere cellule grandi e lente a dividersi. Il volume dei globuli rossi di un elefante è quattro volte quello del toporagno. Più le cellule sono grandi, più tempo impiegano a riprodursi. Se si calcola il numero di possibili mutazioni sul numero totale di divisioni cellulari di tutta la vita di un organismo, la differenza diventa esponenziale. Animali molto grandi hanno anche un metabolismo più lento, un altro fattore che limita i possibili danni al DNA (gli atomi di ossigeno reattivo che si liberano nella respirazione mitocondriale provocano mutazioni). L’oncologia comparata è nella sua infanzia. Gli esperti concordano che si dovrebbero studiare le balene, le più longeve dei mammiferi, ma lo studio non è facile da mettere in piedi. Più pratico può essere paragonare la longevità, la dimensione e la propensione al cancro fra diverse specie di roditori, e osservare quali meccanismi molecolari possono contrastare lo sviluppo dei tumori. Oltre a oncosoppresori come p53, anche molecole capaci di inibire le telomerasi, gli enzimi che allungano i telomeri, le terminazioni dei cromosomi, e con essi la vita della cellula, sono ottimi candidati. Cosa possiamo imparare dagli animali più resistenti al cancro? Topi transgenici con copie di p53 pari a quelle presenti negli elefanti sono più capaci di sopprimere i tumori, ma mostrano anche segni di invecchiamento prematuro. In altre parole, sapere resistere al cancro implica che l’organismo riproduce meno le proprie cellule e questo ha controindicazioni per la fertilità e l’invecchiamento dei tessuti. Per dirla come farebbero gli inglesi, non c’è mai un pasto gratis in biologia! Per scrivere questo post mi hanno guidato questi testi: la voce di Wikipedia sul paradosso di Peto; Carl Zimmer, Elephants: Large, Long-Living and Less Prone to Cancer, The New York Times (8/10/2015); Virginia Gewin, Massive animals may hold secrets of cancer suppression, Nature (21/1/2013); Leonard Nunney e colleghi, Peto's paradox and the promise of comparative oncology; Philosophical Transacrions of the Royal Society B, 370: 2014.0177 (19/7/2015); Robin Hesketh, Bigger is better, Cancer for all (18/15/2015). Gli altri articoli che ho consultato sono linkati nel testo. In apertura una riproduzione di una balenottera azzurra (Wikipedia; American Museum of Natural History, New York).