Dieci giorni fa aspettavo che mio papà uscisse dalla sala operatoria, nel corridoio davanti alla sua stanza. L’intervento, piuttosto semplice, serviva a rimettere a posto un lembo di retina che era stato sollevato da una fibra poco disciplinata del vitreo. Nell’attesa, mio zio mi raccontava com’era l’ospedale in cui ci trovavamo quando lui aveva cominciato a operare negli anni Sessanta. “C’erano letti dappertutto, per assicurare lunghe degenze a persone che uscivano dalle sale operatorie con occhi tumefatti dalle incisioni di strumenti grossolani e invasivi, che erano lo stato dell’arte dell’epoca”. Mentre lui parlava si è aperta la porta dell’ascensore e ne è uscito camminando una specie di marziano, vestito con un camice, una cuffia in testa e con una benda sull’occhio. Il marziano era mio papà, presente con la testa e per nulla incerto sulle gambe. Ma da quando in qua i pazienti escono dalla sala operatoria a piedi?
Due secoli di chirurgia
Da pratica brutale e spesso inefficace, in 200 anni la chirurgia ha raggiunto traguardi che lasciano i pazienti in condizioni straordinariamente migliori di un tempo. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza due innovazioni antiche, ma fondamentali: l'anestesia e l'igiene.
La chirurgia è stata per millenni una pratica orrenda e brutale. Ancora nella prima metà dell’Ottocento i pazienti arrivano nel teatro anatomico dopo essere stati inebriati con alcol e altre sostanze. Venivano operati fra dolori atroci e fiumi di sangue, soltanto per rari interventi di ultima istanza.
L’anestesia era di là da venire, la coagulazione del sangue era un processo misterioso e anche la conoscenza dell’anatomia, senza strumenti in grado di catturare immagini dell’interno del corpo, era assai limitata. Per non parlare delle idee, vaghissime, che i medici nutrivano sulle infezioni.
La velocità estrema era l’essenza di quelle operazioni primitive. Un’amputazione poteva essere completata in meno di un minuto: il solo modo per non uccidere di dolore i poveri pazienti. Ma organi come l’addome, il torace, le articolazioni, per non dire il cuore o il cervello, rimanevano fuori dalla portata della chirurgia, che si occupava solo degli organi più esterni e lasciava il resto alla cosiddetta medicina interna, un termine desueto che a volte persiste ancora oggi.
Il primo anestetico è stato usato nello studio di un dentista. William Morton era un odontoiatra di Boston, che aveva cominciato a sperimentare l’etere come antidolorifico sui suoi pazienti. Nel 1846 Morton convinse Henry Jacob Bigelow e John Collins Warren, due fra i chirurghi più prominenti dell’epoca, ad allievare il dolore dei malati con la sua preparazione. Sotto gli occhi degli studenti di medicina, Morton chiese a una paziente di respirare il gas anestetico da un tubo per 2 o 3 minuti e quindi Warren la operò. Al risveglio la donna disse di aver sentito soltanto qualche graffio.
Prima dell’anestesia le urla dei pazienti riempivano le sale operatorie, dopo c’è stato il silenzio. Oggi grida disumane si sentono solo nelle troppe sale parto che ancora scoraggiano l’uso dell’anestesia per le partorienti.
Il rapporto sulla prima operazione con l’etere, scritto da Bigelow, è stato l’articolo più famoso nei 200 anni di storia del New England Journal of Medicine. Chirurghi di tutto il mondo provarono l’anestesia sui propri pazienti nel giro di qualche mese dopo avere letto l’articolo e la pratica diventò routine in pochissimo tempo. Il potere analgesico dell’etere era conosciuto da secoli, ma il suo impiego nelle operazioni è stato curiosamente tardivo forse perché il sollievo dal dolore era considerato un obiettivo secondario alla cura.
L’anestesia è stata la prima grande rivoluzione della chirurgia. Con i pazienti addormentati e senza dolore, è diventato possibile entrare all’interno del corpo, in aree e modi che prima erano semplicemente impraticabili. La liberazione dal dolore ha anche obbligato i chirurghi a diventare meticolosi oltre che veloci. Nel tempo nuovi anestetici più sicuri ed efficaci hanno soppiantato i primi ritrovati a base di etere.
Le operazioni tuttavia rimanevano estremamente pericolose, seppure con il beneficio dell’anestesia. Nel giro di pochi giorni dall’intervento buona parte dei pazienti moriva di infezioni di cui i medici non capivano l’origine. Da dove venivano: dall’interno del corpo? Dall’aria? Da qualcosa di invisibile?
Nel 1847 Ignác Semmelweis, un ostetrico ungherese, fece un’osservazione fondamentale nella clinica ostetrica dell’ospedale di Vienna. Semmelweis notò che se i ginecologi e le ostetriche si lavavano le mani prima di ogni parto, potevano prevenire le febbri puerperali che erano la principale causa di morte delle donne che avevano partorito. Semmelweis pubblicò la sua osservazione senza però essere in grado di spiegare la causa del fenomeno che aveva registrato. La classe medica rifiutò la responsabilità di disseminare malattie attraverso la scarsa igiene, soprattutto perché il nesso fra la mancanza di igiene e le infezioni non era all’epoca né compreso, né provato. Come Louis-Ferdinand Céline ha raccontato nella sua tesi di laurea in medicina, Semmelweis fu irriso e denigrato (il libretto è tutt’ora pubblicato da Adelphi e merita un’oretta di lettura).
Il riscatto di Semmelweis dovrà attendere almeno gli esperimenti di un chimico francese che studiava la fermentazione della birra. Quel chimico era Louis Pasteur e la sua dimostrazione, nel 1857, che i microrganismi presenti nell’aria sono la causa delle malattie infettive, provò la teoria dell’origine microbica delle infezioni.
Certe sostanze erano in grado di uccidere i microbi, aveva letto Joseph Lister, un chirurgo britannico, in un articolo di Pasteur. Lister provò una di queste sostanze, l’acido carbolico (oggi chiamato fenolo) per disinfettare le mani sue e dei collaboratori e misurare se le infezioni si riducevano con questa pratica. L’esperimento di Lister era ben condotto e i risultati pubblicati su Lancet inequivocabili. Eppure anche Lister fu maltrattato dai medici, che non tolleravano l’accusa di portare la contaminazione in sala operatoria (anche un articolo del New England non fu molto carino con Lister).
Ancora alla fine dell’Ottocento i chirurghi entravano in sala operatoria vestiti in eleganti redingote nere, su cui portavano le tracce biologiche di tante operazioni precedenti. Inutile chiedersi se si lavassero le mani. A differenza dell’anestesia, l’igiene è entrata in chirurgia con grande lentezza.
Oggi la chirurgia è asettica e indolore, ma ha un nuovo problema da risolvere: i rischi e gli errori connessi alla complessità. In due secoli circa siamo passati da un’era in cui c’erano pochissime procedure efficaci a una in cui disponiamo di più di 6000 farmaci, circa 2500 procedure chirurgiche e 1500 procedure mediche. Abbiamo conquistato il cuore, sappiamo aprire il cervello e trapiantare persino la faccia. Le procedure sono sempre più precise e i tagli sempre meno invasivi. Basti pensare ai successi della laparoscopia e delle altre tecniche, che hanno ridotto incisioni prima lunghe anche mezzo metro a buchi poco più grandi di una puntura. Ma dobbiamo dominare la complessità.
Come fa un chirurgo, che è pur sempre un essere umano, a essere certo che tutti gli esami e le procedure pre-operatorie siano stati eseguiti e che ciò sia avvenuto correttamente? Atul Gawande, un chirurgo e scrittore americano, ha proposto nel suo ottimo libro Checklist (Einaudi 2011) una ricetta molto semplice: un semplice elenco di cose da fare, per ricordare come vanno fatte, quando e in quale ordine. L’idea di Gawande nasce dagli studi di Peter Provonost, un medico di terapia intensiva dell’Ospedale Johns Hopkins di Baltimora, che ha misurato come gli errori in ambito ospedaliero si possano ridurre drasticamente se le procedure sono eseguite controllando delle semplici liste di cose da fare piuttosto che affidandosi alla memoria.
C’è chi dice che più sappiamo e meno taglieremo. Può darsi che un futuro di procedure nanoinvasive e nanofarmaci sia all’orizzonte. Per ora, mi raccomando: prima di farvi operare, chiedete al chirurgo se lui e la sua equipe usano una checklist.
Per scrivere questo articolo ho consultato soprattutto 200 years of surgery di Atul Gawande, pubblicato in occasione del bicentenario del New England Journal of Medicine. Il sito dedicato all’anniversario della più autorevole (e bella) rivista medica al mondo è ricchissimo di informazioni sulla storia della medicina. Consiglio di guardare soprattutto la timeline interattiva, che è particolarmente interessante e ricca di documenti. L'immagine di apertura è dell'archivio Shutterstock.