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E se i delfini non fossero poi così intelligenti?

L’idea che l’intelligenza sia una specie di sostanza unica e misteriosa, che è posseduta in quantità diversa dalle diverse specie, è da abbandonare. Gli animali – esseri umani inclusi – si comportano in modo intelligente o stupido a seconda degli strumenti che la selezione naturale ha lasciato loro in valigia.
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Lisa Vozza e Giorgio Vallortigara I delfini piacciono a tutti, hanno stampato in faccia un sorriso amabile e ci è stato raccontato che sono più intelligenti della gran parte degli altri animali. Nella concezione comune sono membri di un club esclusivo la cui presidenza è saldamente in mano ai membri della nostra specie. Tra i pochi ammessi oltre ai delfini, gli scimpanzé e forse le altre scimmie antropomorfe. Alla porta però bussano da un po’ corvi ed elefanti. Ma i delfini hanno davvero capacità cognitive che li distinguono da quasi tutti? Non secondo Paul Manger, un neuroscienziato dell’Università Witwatersrand a Johannesburg che ha avuto il coraggio di violare qualche tabù. È vero, distinguono ciò che è “di più” o “di meno” fra quantità diverse di oggetti, ma questo lo fanno anche i pesci e le api. Con le spugne sul muso spazzano i fondali cercando prede nascoste: è un abbozzo di uso di strumenti? Sì, ma le prestazioni sono rudimentali rispetto a quelle dei corvidi, dei pappagalli e dei primati non umani. Pare che sappiano riconoscersi allo specchio, come del resto le gazze, gli scimpanzé e forse le scimmie. Se addestrati rispondono a comandi gestuali e vocali complessi, alla pari però dei leoni marini e dei cani. Posseggono forse qualcosa di simile a dei “nomi”: un segnale stereotipato per riferirsi a una cosa o a un individuo, ma nei polli lo stesso comportamento è più convincente e sofisticato. In qualche intervista Manger si è spinto un po’ in là nel suo furore critico, facendo notare che un pesce rosso imprigionato in una boccia prova a saltar fuori, mentre i delfini intrappolati dalle reti della pesca al tonno non lo fanno. È la prova che i delfini sono un po’ stupidi? Non secondo Lori Marino, una neuroscienziata della Emory University ad Atlanta che sostiene che sia il terrore a inibire il tentativo di evasione. Il che è ragionevole, ma perché il panico colpirebbe soltanto i delfini e non i pesci rossi? Un maggiore autocontrollo di questi ultimi di fonte al pericolo pare improbabile. Se i comportamenti lasciano un po’ a desiderare, proviamo con un altro criterio: quello dei cervelli più grandi o sofisticati. Stando al peso, i cetacei se la cavano piuttosto bene, seppure con variazioni notevoli da una specie all’altra: si va dall’etto e mezzo del delfino dell’Indo ai quasi sette chili della megattera, “la più allegra e spensierata di tutte le balene” secondo Melville. Con questo criterio però dobbiamo aggiungere al circolo molti altri animali con cervelli pesanti, dagli elefanti alle foche, ed escluderne tanti leggeri, ad esempio i cani. Un’alternativa un po’ meno rozza è considerare la grandezza del cervello in relazione alla dimensione del corpo, usando il cosiddetto quoziente di encefalizzazione (QE) che paragona il peso medio del cervello di una specie a quello medio delle specie di taglia simile. Se il QE di noi umani è circa sette volte maggiore di quello dei mammiferi della nostra taglia, i cetacei come si piazzano? Non male il delfino dai denti rugosi, che raggiunge un dignitoso 4,95, molto in basso i capodogli, con un misero 0,16. Come spiegare una tale differenza? Secondo Manger le variazioni di QE fra i cetacei hanno a che fare più col freddo che con le capacità cognitive. In acqua il calore si dissipa rapidamente e il cervello va tenuto invece un po’ al caldo: i cetacei sembrano avere risolto questo problema con un numero alto e inusuale di cellule gliali, che fra le altre cose servono da isolante termico dei neuroni. Ora, l’ipotesi di Manger è molto controversa e ci vorranno tante altre prove prima di modificare i convincimenti più radicati. Manger però, con la sua proposta un po’ temeraria, ha posto un problema serio: se la grandezza del cervello sia davvero una misura affidabile delle capacità cognitive. Consideriamo ad esempio il numero di neuroni. Se potessimo distendere come un foglio la superficie della corteccia cerebrale di un delfino tursiope, troveremmo che è più estesa di quella di un essere umano, ma non potremmo per questo concludere che contiene più neuroni. Nel delfino infatti i neuroni sono più distanziati tra loro rispetto a quelli dei primati, complice anche il maggior numero di cellule gliali. I neuroni non sono neppure tutti grandi uguali: ad esempio nei roditori, ma non nei primati, la dimensione di queste cellule aumenta a volte più che in proporzione alla taglia, per cui animali con cervelli più grandi possono avere anche meno neuroni di animali con cervelli più piccoli. Nel caso dei delfini non sappiamo come stiano le cose. Sappiamo però che i loro ippocampi, le aree del cervello essenziali per la memoria e l’orientamento nello spazio, sono molto più piccoli e producono pochissimi neuroni nuovi, a differenza di quel che accade negli altri mammiferi. Se neppure l’anatomia aiuta la causa della superiore intelligenza dei delfini, dobbiamo concludere che siano animali stupidi? Fare la classifica delle specie più intelligenti lascia il tempo che trova, anche perché abbiamo visto che la graduatoria dei “vincitori” e dei “perdenti” cambia a seconda del criterio scelto. Il punto è che non esistono animali stupidi. Gli animali – esseri umani inclusi – si comportano in modo intelligente o stupido a seconda degli strumenti che la selezione naturale ha lasciato loro in valigia. Si tratta degli attrezzi che permettono di raccogliere, memorizzare ed elaborare le informazioni. Attrezzi che sono però molto vari a seconda degli ambienti che ogni specie ha bazzicato nel corso dell’evoluzione e dei problemi che vi ha incontrato. Ecco perché gli animali possono sembrare molto intelligenti quando in valigia hanno ottimi e collaudati strumenti per risolvere un problema e molto stupidi quando il bagaglio offre poco o nulla di buono. L’idea che l’intelligenza sia una specie di sostanza unica e misteriosa, che è posseduta in quantità diversa dalle diverse specie, è perciò da abbandonare. Da qualche anno in diversi Paesi si discutono e a volte si approvano leggi che vietano di tenere i delfini in cattività, in base alla percezione della loro eccezionale intelligenza. In India, ad esempio, i delfini non possono più essere ospitati nei parchi acquatici e inoltre in un documento del governo si dichiara che “dovrebbero essere visti come ‘persone non umane’ e come tali dovrebbero godere di diritti specifici”. Adesso che l’evidenza scientifica (che naturalmente è sempre rivedibile) suggerisce che l’intelligenza di questi animali non sia speciale rispetto a quella degli altri mammiferi, degli uccelli, o d’insetti come le api, che conseguenze dovremmo trarne? Che siamo stati avventati e frettolosi a ricavare principi morali e di diritto sulla base del grado d’intelligenza di una specie? Che l’attribuzione di diritti non ha nulla a che vedere con le capacità cognitive degli animali? Che dovremmo trattare come persone anche polli, topi e api (anche se l’opinione comune considera poco intelligenti queste specie)? Il modo in cui decidiamo di trattare gli altri animali dipende più da pregiudizi e preferenze che non da ciò che davvero sappiamo. Di fatto l’unico modo per stabilire qualcosa di sensato sulle capacità cognitive degli animali è studiarli, nel comportamento e nella struttura del sistema nervoso, in natura e in laboratorio. Paradossalmente le norme che nascono per salvaguardare i cosiddetti animali “intelligenti”, ad esempio, con la proibizione a tenerli in cattività, potrebbero rendere difficile, se non impossibile, provare la loro reale (e non soltanto presunta) intelligenza. -- Per scrivere questo articolo che è uscito sulla Domenica del Sole 24 ore il 27 luglio 2014 abbiamo letto: Manger P.R. (2013). Questioning the interpretations of behavioral observations of cetaceans: is there really support for a special intellectual status for this mammalian order? Neuroscience, 250: 664–696. Gregg, J. (2013). Are Dolphins Really Smart? Oxford University Press, Oxford, U.K.
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