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Biologia e dintorni

Effetti placebo (e nocebo) in 5 puntate/3

Che cos'è un effetto placebo? Qual è la sua storia? Che cosa accade nel cervello quando si induce un effetto placebo? Funziona solo per modulare il dolore? Come si studia e come si misura? È lecito mentire a un paziente, seppure a fin di bene, o è meglio istruirlo? Tante domande per altrettante risposte, in 5 puntate, su Biologia e dintorni.
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3. Effetti nocebo ed evoluzione; critiche e metodi

Nella prima puntata ho raccontato che cosa è e che cosa non è un effetto placebo;
nella seconda puntata ho fatto un breve riassunto della storia delle scoperte che hanno portato a comprendere e a descrivere i meccanismi placebo;
nella terza puntata vi parlo di tre argomenti diversi: gli effetti nocebo, lo specchio del placebo, e la loro possibile ragione evolutiva; le critiche che gli studi su placebo e nocebo hanno ricevuto; e il metodo da seguire perché gli studi siano sempre più rigorosi.
 
Effetto nocebo: quando l’ansia si trasforma in dolore. Se penso che una sostanza mi farà male, è probabile che mi sentirò peggio e non meglio, anche se la sostanza è innocua. L’aspettativa ansiosa e negativa è al cuore dell’effetto nocebo, ma per capire meglio di che cosa si tratta, vediamo un esempio concreto. In uno studio clinico pubblicato su Lancet nel 1981, a un gruppo di pazienti che si era sottoposto a una puntura lombare, i ricercatori avevano detto che uno degli effetti collaterali del trattamento è il mal di testa. Il numero di mal di testa che i partecipanti allo studio hanno riportato è stato significativamente superiore alla norma. L’interpretazione dei risultati dello studio è che un’informazione troppo dettagliata sugli effetti collaterali di un farmaco o di un intervento può stimolare un effetto nocebo, provocando nei pazienti la comparsa degli stessi sintomi di cui hanno sentito parlare (vien da pensare che è meglio non indugiare a leggere gli effetti collaterali nei foglietti informativi dei farmaci). Ma questa osservazione pone un problema etico non da poco: è corretto dare ai pazienti informazioni che, seppur veritiere, possono nuocere alla loro salute? Parleremo di questo e di altri temi etici nell’ultima puntata.
 
Come funziona l’effetto nocebo? Le dinamiche che innescano l’effetto nocebo sono speculari a quelle del placebo: anche in questo caso contano l’aspettativa, la suggestione verbale, l’anticipazione di un effetto negativo, l’osservazione sociale, l’empatia, l’apprendimento e il condizionamento inconscio. Tuttavia lo specifico meccanismo d’azione molecolare alla base del nocebo era poco conosciuto fino a qualche anno fa. Benedetti e colleghi hanno individuato la colecistochinina come una delle molecole in grado di convertire l’aspettativa di dolore in dolore reale. Si tratta di un neurotrasmettitore, ossia una molecola che permette la comunicazione fra cellule nervose, la cui attività può essere bloccata farmacologicamente. Quando l’attività della colecistochinina è inibita, i pazienti non sentono più il dolore da effetto nocebo, anche se in loro permane l’ansia che ha anticipato il dolore. La scoperta della colecistochinina è stata pubblicata sul Journal of Neuroscience nel 2006 e in futuro forse si potrà applicare ai pazienti per impedire l’effetto nocebo.
 
Una risposta adattativa e di sopravvivenza? Una particolarità dell’effetto nocebo, rispetto al placebo, è che l’apprendimento ha un ruolo non solo essenziale, ma molto più pronunciato. Se mi informano che proverò un sollievo, oppure un dolore, il dolore arriverà con molta più intensità e certezza rispetto al sollievo. È possibile che questa differenza abbia una ragione evolutiva. La capacità di anticipare uno stimolo nocivo o doloroso, attraverso l’osservazione di un altro individuo che sta soffrendo, o tramite un’informazione ricevuta, o ancora per mezzo di immagini, suoni, odori associati a un pericolo o a una sofferenza, ha probabilmente permesso agli esseri umani di evitare molti pericoli. Si può anche ipotizzare che nel corso dell’evoluzione sia stato più importante imparare più in fretta i sintomi di una sofferenza piuttosto che di un piacere.
 
L’effetto nocebo è contagioso, anche quando è basato su informazioni non veritiere. Nel 1962, 62 lavoratori di una fabbrica americana di vestiti sono stati improvvisamente colpiti da mal di testa, nausea ed eczemi. All’origine dell’epidemia era stato ipotizzato un insetto, forse arrivato con un carico di vestiti dal Regno Unito, anche se nessun insetto è stato mai ritrovato nella fabbrica. Malattie psicogeniche di massa come queste capitano in tutto il mondo, in genere in comunità chiuse come quella dei lavoratori della fabbrica americana, e di solito si diffondono più rapidamente fra gli individui di genere femminile che hanno visto qualcun altro altro soffrire del problema.
 
Dare informazioni sul dolore può produrre dolore. Uno studio recente, condotto dal gruppo di Irene Tracey all’Università di Oxford, ha monitorato il livello di sofferenza provata da alcuni volontari affetti da dolore cronico, tramite la risonanza magnetica. Prima di effettuare la risonanza, i ricercatori avevano somministrato ai volontari un forte antidolorifico e poi avevano detto loro che l’effetto del farmaco si era esaurito. Anche se l’informazione non era veritiera (il farmaco stava ancora producendo il suo effetto analgesico), la notizia è stata sufficiente a far risalire il dolore ai livelli precedenti alla somministrazione del farmaco. Il monitoraggio tramite risonanza magnetica ha dimostrato che il dolore dei volontari era reale e non immaginario. Il risultato di questo studio, pubblicato su Science Translational Medicine nel 2011, indica che ciò che si aspetta un paziente ha il potere di compromettere l’efficacia di un trattamento. Questa consapevolezza dovrebbe suggerire ai medici di considerare non solo i sintomi fisici, ma anche ciò che i pazienti pensano e si attendono.
 
Un’immagine simbolica dell’inganno negli effetti placebo e nocebo: 
un tema etico di cui parlerò nella prossima puntata
(da Plos Medicine
 
Ora passiamo a un altro argomento: lo scetticismo e le critiche sulle ricerche che studiano gli effetti placebo e nocebo. Molti sostengono che l’effetto placebo attragga soprattutto pazienti frustrati da malattie per cui la scienza medica non è in grado di offrire terapie efficaci. E molti tendono a sottovalutare l’esistenza degli effetti placebo, confondendoli con le sostanze inerti dei composti placebo (di questa confusione ho parlato all’inizio della prima puntata). Ma lo studio più citato dagli scettici è un’ampia metanalisi condotta in Danimarca e pubblicata sul New England Journal of Medicine nel 2001. La metanalisi è una sorta di riassunto, prevalentemente statistico, di un grande numero di studi clinici, in cui si cerca di trarre conclusioni sulla reale efficacia di un trattamento. Nella metanalisi danese sono state analizzate 130 sperimentazioni cliniche in cui pazienti affetti da malattie diverse sono stati trattati con un composto placebo o con nessun trattamento. I risultati della metanalisi non indicano differenze significative fra i due gruppi: detto così, sembrerebbe che gli effetti placebo di cui vi ho parlato fin qui non esistano. È così?
Un aggiornamento della metanalisi, uscito nel 2004, ha ritrovato sostanzialmente gli stessi risultati, eccetto per gli studi sul dolore dove l’effetto è piccolo ma misurabile. Siccome siamo fisiologicamente in grado di produrre i nostri analgesici endogeni e di influenzare la liberazione di queste molecole con le aspettative e la suggestione, il risultato forse non è sorprendente. Ma i ricercatori attivi in questo campo non sono molto d’accordo con i risultati delle due metanalisi e mi pare che abbiano più di una ragione.
 
Si possono paragonare le mele e le pere? Semplificando un poco, questo è il principale rimprovero che gli studiosi degli effetti placebo rivolgono ai due studi, che hanno preso in considerazione anche ricerche progettate in modo non rigoroso, senza utilizzare i criteri del “Balanced placebo design” di cui vi parlerò a breve. E senza considerare che esistono tanti effetti placebo diversi, ciascuno dipendente dal tipo di malattia, dalle condizioni legate alla terapia, dalla relazione medico-paziente e da altri condizionamenti inconsci, che può essere complesso ridurre in numeri e dati. Per questo le metanalisi finora compiute sono un tentativo interessante, ma non possono essere considerate conclusive, dato che ogni raffronto di dati e studi non omogenei rischia di essere un paragone improprio. Ulteriori metanalisi sono in corso, con criteri ancora più stringenti. La speranza è che contribuiscano a fare chiarezza.
 
Per evitare ambiguità, fare studi seri e non attirare critiche, rigore e metodo sono necessari. Il cosiddetto “Balanced placebo design” è lo schema che i ricercatori utilizzano da decenni per isolare al meglio l’effetto placebo o nocebo dai fenomeni confondenti (vi avevo parlato di questi fenomeni nella prima puntata). Si tratta di un metodo che combina ciò che viene detto ai soggetti con ciò che viene loro somministrato:
·      al gruppo 1 viene detto che riceverà un farmaco e in effetti viene somministrato un farmaco;
·      al gruppo 2 viene detto che riceverà un farmaco e invece viene somministrato un placebo;
·      al gruppo 3 viene detto che riceverà un placebo e in effetti viene somministrato un placebo;
·      al gruppo 4 viene detto che riceverà un placebo e invece viene somministrato un farmaco.
È da notare che le sperimentazioni cliniche dei farmaci raramente seguono questo schema rigoroso.
 
Come si misura l’efficacia di un placebo (o di un nocebo)? Poiché il modello di effetto placebo o nocebo più conosciuto è quello del dolore, il metodo più comunemente usato consiste nella misurazione della variazione del dolore che segue alla somministrazione di un trattamento placebo. Il dolore è tuttavia un’esperienza soggettiva, perciò è necessario “tarare” la sensibilità di ogni persona che prende parte a un esperimento. Per fare questo si danno stimoli crescenti (uno stimolo comune negli studi consiste in piccole scosse elettriche trasmesse tramite un elettrodo attaccato alla pelle della mano). Gli stimoli sono aumentati molto gradualmente fino a fissare due livelli: il primo è la cosiddetta soglia percettiva o tattile, al di sotto della quale uno stimolo sensoriale non viene percepito, mentre il secondo è la cosiddetta soglia dolorifica, ossia l’intensità a cui una sensazione si modifica e inizia a essere percepita come dolore.
Il fatto che una misura soggettiva come il dolore sia al cuore degli studi sull’effetto placebo ha attirato molte critiche. Per superare questo problema, negli ultimi anni diversi scienziati hanno associato alle misure tradizionali, tecniche di imaging, come la risonanza magnetica funzionale, che permettono di valutare più oggettivamente le aree cerebrali implicate nella percezione del dolore e l’entità della loro attivazione.
 
Alcuni dati di imaging ottenuti in uno studio sull’effetto nocebo
(da Wager et al., Science. 2004 Feb 20;303(5661).
 
L’appuntamento è alla quarta puntata, lunedì 30/1/12. Parleremo di: effetto placebo in malattie con sintomi diversi dal dolore, come il morbo di Parkinson, la psoriasi e la dipendenza da cocaina. Pubblicherò la bibliografia completa di questi post sugli effetti placebo e nocebo nell’ultima puntata della serie.

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