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Biologia e dintorni

Effetti placebo (e nocebo) in 5 puntate/1

Che cos'è un effetto placebo? Qual è la sua storia? Che cosa accade nel cervello quando si induce un effetto placebo? Funziona solo per modulare il dolore? Come si studia e come si misura? È lecito mentire a un paziente, seppure a fin di bene, o è meglio istruirlo? Tante domande per altrettante risposte, in 5 puntate, su Biologia e dintorni.
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Ho cominciato a scrivere questo post il 26 dicembre, pensando di fare un tuffo di qualche ora nella modulazione del dolore. Una settimana dopo ero ancora immersa nei meandri del cervello umano, a districarmi fra i tanti fenomeni placebo e nocebo (sì, ho scoperto che sono ben più di uno).

In questo labirinto cognitivo ho trovato una guida formidabile in Luana Colloca, una giovane ricercatrice che da Vibo Valentia è approdata al National Center for Complementary and Alternative Medicine (NCCAM) presso i National Institutes of Health di Bethesda, Maryland.

Da Luana, che si è formata con Fabrizio Benedetti all’Università di Torino, ho imparato a riconoscere alcune delle leve profonde di questi fenomeni: l’anticipazione di qualcosa di positivo o negativo che accadrà, il condizionamento inconscio e l’attesa della gratificazione; ma anche l’apprendimento e la memoria, il comportamento sociale e la capacità di provare empatia. A rendere veramente concreta questa storia c’è l’attività, reale e misurabile, di molte molecole e aree cerebrali note, che plasmano e modificano le nostre risposte placebo nella materia grigia.

Studiando mi sono entusiasmata, ma non mi sono sfuggite le critiche (c’è ancora molto scetticismo attorno a questi fenomeni), né i dilemmi etici (è possibile indurre una risposta placebo senza mentire?). Ciò che in fondo mi ha più colpito è, da un lato, la possibilità di rendere più sopportabili diverse malattie, non soltanto dolorose, attraverso l’induzione di reazioni placebo; dall’altro l’opportunità di migliorare i modi, non sempre ideali, con cui oggi si pratica l’arte della medicina.

Tutto questo mi è sembrato troppo interessante per finire confinato in un solo post, perciò ho deciso di fare un esperimento: gli effetti placebo (e nocebo) ve li propongo in cinque puntate. Buona lettura e buon anno nuovo!

 
1. Che cos’è e che cosa non è un effetto placebo
 
Per molti anni la parola placebo è stata usata per descrivere cose diverse: il contenuto inerte di alcune sostanze, chiamate per l’appunto placebo, e il loro uso come controllo delle sperimentazioni dei farmaci e dei trattamenti clinici. La ricerca più recente ha tuttavia dimostrato l’esistenza di effetti placebo, ossia di fenomeni biologici che sono in grado di modificare alcune reazioni corporee a una terapia, indipendente dal contenuto della terapia stessa. Gli effetti placebo, di cui i più studiati sono quelli legati al dolore, sono misurabili sia in laboratorio, sia nell’ambiente clinico in cui si verificano; sono riconducibili all’azione di molecole e aree cerebrali note; e possono avvenire perfino in assenza di una sostanza inerte (a indurre un effetto placebo possono bastare le parole). Le cause non dipendono infatti dal contenuto, più o meno inerte di una sostanza, ma dall’insieme di cose che accadono nel contesto terapeutico.
 
Provate a immaginare il contesto terapeutico come un piccolo sistema solare. Al centro del sistema si trova (o almeno si dovrebbe trovare) il paziente, con le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, e le sue interazioni con gli altri “pianeti”: i medici e il personale sanitario, ma anche il tipo di terapia e il modo in cui essa viene somministrata.
 
Come si manifesta un effetto placebo? Partiamo da un esempio concreto: un gruppo di pazienti che ha appena subito un’operazione chirurgica. A ciascun gruppo è prescritta la stessa dose di analgesico, la morfina, ma il farmaco può essere somministrato da un’infermiera, tramite un’iniezione, o in modo automatico, con una pompa a infusione. Nel primo caso il trattamento è aperto, ossia il paziente è consapevole del momento in cui la morfina è iniettata, mentre nel secondo caso, nascosto, il paziente sa che riceverà morfina, ma non quando. Anche se il dosaggio è identico, il dolore cessa più precocemente quando sono un’iniezione e un essere umano, piuttosto che una macchina, a somministrare il farmaco. Questo esperimento, pubblicato da Colloca e colleghi su Lancet Neurology nel 2004, dimostra che a parità di trattamento quello che ci aspettiamo fa una notevole differenza.
 
Le nostre reazioni dipendono dalla capacità consapevole di anticipare il futuro. Le parole di un medico o di un’infermiera, che per esempio ci dicono che fra poco staremo meglio, sono uno dei meccanismi più importanti per stimolare un effetto placebo. Attraverso una suggestione verbale passano infatti molti messaggi: la fiducia nell’autorevolezza e nella competenza di chi ci cura, ma anche la sincerità e l’interesse per la nostra salute. Non meno importante è la capacità individuale di anticipare un beneficio, ovvero la possibilità di immaginare la sensazione che proveremo. Infine, contano anche l’osservazione sociale e la capacità di provare empatia: se vedo qualcuno che sta meglio in seguito a un trattamento, e so mettermi nei suoi panni, la mia risposta allo stesso trattamento sarà maggiore che se non lo avessi visto.
 
L’effetto placebo avviene anche senza che ce ne rendiamo conto. Qualità come la forma, la dimensione o il colore di una pastiglia modificano le nostre reazioni tramite un condizionamento inconscio. È per esempio dimostrato che, a parità di contenuto, la risposta placebo aumenta quanto più è grande una pastiglia; due pillole fanno più effetto di una; e pastiglie prodotte da un marchio noto battono i generici. Le capsule sono più convincenti delle pasticche e le iniezioni producono un effetto ancora più pronunciato. C’è perfino la prova che il colore delle medicine influenza l’effetto placebo: pillole colorate danno più sollievo dal dolore rispetto a pillole bianche; pillole blu aiutano le persone a dormire meglio delle pillole rosse; e le capsule verdi sono il massimo per quanto riguarda i medicamenti contro l’ansia. Ma l’aspetto delle pastiglie non è il solo modo di condizionare inconsciamente la risposta di un paziente: anche il gesto di un medico o uno strumento che fa parte del rituale terapeutico possono influenzare l’entità dell’effetto placebo senza che ce ne accorgiamo. E in diverse culture gli stimoli in grado di attivare un condizionamento variano: per esempio l’aspetto delle pillole è un fattore molto forte solo nel mondo occidentale.
 
C’è chi sostiene che nell’effetto placebo si crea un riflesso condizionato come quello scoperto da Pavlov, in cui un animale si abitua a richiamare un elemento tramite uno stimolo associato. Nell’esperimento di Pavlov, lo stimolo era il suono di un campanello e l’elemento che veniva richiamato era la carne presentata all’animale; nel caso dell’effetto placebo, l’aspetto di una pastiglia può essere lo stimolo in grado di richiamare le parole del medico che ha prescritto la cura, o anche solo il suo tono di voce.
 
Che cosa viene prima? Normalmente gli effetti consci precedono quelli inconsci. Una persona deve avere fiducia nel proprio medico e credere alle sue parole nel momento in cui riceve una prescrizione. Solo successivamente la forma e il colore della pillola si associano all’aspettativa creata durante la visita medica. Ogni farmaco ha quindi due componenti che controllano il suo effetto: l’ingrediente attivo e il contesto psicosociale in cui la pillola viene prescritta e assunta.
 
Che cosa accade nel cervello quando proviamo un effetto placebo? L’insieme dei meccanismi consci e inconsci che ci porta ad aspettarci sollievo da un dolore, nel cervello si traduce in diversi processi: da un lato si riduce l’ansia, dall’altro si attiva il meccanismo di gratificazione (o reward) e si liberano antidolorifici endogeni come le endorfine. La regione del cervello che è più attiva in questi processi è quella frontale, ed è importantissima sia nel creare un’aspettativa, sia nel mantenere nel tempo l’effetto.
 
Attività che possono avvenire nel cervello per effetto placebo 
(Colloca L., Benedetti F., Nat. Rev. Neurosci., 2005 Jul;6(7):545-52.).
 
Non tutti rispondono ugualmente al placebo, soprattutto la prima volta. La ragione per cui le persone sono diversamente sensibli a uno stimolo placebo non è nota, ma potrebbe esserlo a breve. I dati preliminari di una ricerca condotta da Ted Kaptchuk, a capo del Programma di studi sul placebo e sull’incontro terapeutico dell’Università di Harvard, suggeriscono che le differenze possano essere associate a un diverso profilo genetico (Kaptchuk è considerato una sorta di “guru” degli studi sugli effetti placebo; ho imparato molto sulla sua storia curiosa nel profilo che Michael Specter gli ha dedicato sul New Yorker a dicembre 2011).
 
Provando si impara. L’apprendimento, sia conscio che inconscio, è fondamentale per instaurare una risposta placebo. Diverse ricerche hanno dimostrato che chi non risponde la prima volta può imparare a rispondere attraverso il condizionamento. E l’effetto che si ottiene è più o meno duraturo in funzione della durata dell’apprendimento.
 
Chi non è in grado di imparare, o di anticipare il futuro, ha una risposta placebo ridotta. È il caso, per esempio, dei malati di Alzheimer che, essendo afflitti da gravi problemi di memoria, non riescono a creare un’aspettativa favorevole rispetto al sollievo dal dolore (nei casi più gravi dell’Alzheimer va addirittura persa la percezione stessa del dolore). Anche altre patologie mentali possono modificare l’entità e la percezione dell’effetto placebo.
 
Di effetto placebo si parla sempre al singolare, ma il fenomeno è decisamente plurale. Abbiamo visto che il nostro organismo ha diverse modalità, consce e inconsce, per modificare l’intensità e la percezione di sintomi dolorosi, e non solo. Queste modalità si possono attivare alternativamente o insieme, a seconda del tipo di malattia e del contesto in cui avviene la terapia. E ad ogni modalità corrisponde un diverso meccanismo.
 
Non tutto è placebo. Chi studia gli effetti placebo sa bene che deve fare attenzione a non lasciarsi confondere da una serie di fenomeni che possono “intorbidire le acque”. Fra questi i più importanti sono la regressione verso la media (un problema statistico per cui a una seconda valutazione del sintomo, il sintomo fluttua); l’effetto Hawthorn (per cui i soggetti che partecipano a uno studio tendono a modificare il proprio comportamento, per esempio per compiacere il medico); l’effetto Pigmalione (per cui l’aspettativa dei risultati di uno studio influenza chi lo conduce); i risultati falsi positivi; la storia naturale della malattia (per cui i sintomi possono migliorare o peggiorare in maniera spontanea); e infine le terapie concomitanti. Oltre a essere l’ultimo messaggio di questa prima puntata, questo è un concetto fondamentale, da tenere sempre a mente per non confondersi quando si parla di effetti placebo.
 
Se volete approfondire, potete guardare questa conferenza di Luana Colloca in Webcast con sottotitoli in inglese, sul sito del NIH. L’appuntamento alla seconda puntata è per lunedì 16/1/12, con una breve storia dell’effetto placebo. Pubblicherò la bibliografia completa di questi post nell’ultima puntata della serie. Le immagini di questo post provengono dall'archivio Shuttertock (l'apertura), da Luana Colloca (la prima fotografia in alto), dal sito del British Medical Journal (la copertina azzurra) e da Colloca L., Benedetti F., Nat. Rev. Neurosci., 2005 Jul;6(7):545-52 (la mappa cerebrale con gli effetti placebo).

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