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Fare il morto salva la vita?

Siamo sempre in grado di scappare, nasconderci, combattere? La volontà è un'opzione non sempre disponibile nelle situazioni di pericolo, dove capita anche di bloccarsi in modo automatico e incontrollato: una reazione, il fare il morto, che l'evoluzione ha selezionato come difesa contro i predatori.
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“Scappa, nasconditi, combatti”, suggeriscono l’FBI e il Ministero degli interni statunitense ai cittadini che si trovino coinvolti in una situazione di pericolo come una sparatoria. L’idea è: se puoi fuggi; se non puoi nasconditi; se non hai altre opzioni battiti. Poliziotti e funzionari forse però non sanno che quando uno si trova in quelle situazioni non è sempre in grado di fare un calcolo razionale: riesco a correre abbastanza velocemente? Dove mi posso nascondere? Sono forte abbastanza per combattere? «Alla base del concetto del ‘correre, nascondersi, combattere’ c’è la presunzione che in situazioni di pericolo siano facilmente disponibili scelte volontarie. Ma il fatto è che quando ci si trova in pericolo, sia che si tratti di un ciclista che accelera verso di voi o di un tizio che vi punta addosso una pistola carica, uno può anche restare immobile, incapace di agire e di pensare con chiarezza», ha scritto il neuroscienziato americano Joseph LeDoux, venerdì 18 dicembre sul New York Times.

Joseph LeDoux, direttore del ‘’Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety’’ della New York University (fonte: cns.nyu.edu)

Che cos’è questa specie di paralisi? Innanzitutto non è una scelta ed è una reazione involontaria e precisa che gli scienziati chiamano immobilità tonica: in pratica si tratta di un blocco dei muscoli che verosimilmente si è evoluto come una difesa estrema contro i predatori. È un impulso antico, controllato da circuiti cerebrali che coinvolgono l’amigdala e che condividiamo con molte specie animali. Le reazioni che hanno a che fare con le intenzioni di fuggire, nascondersi, battersi sono controllate da circuiti che si sono evoluti più tardi nella corteccia. Funziona? Pare di sì. Giorgio Vallortigara e io ne abbiamo scritto in Piccoli equivoci fra noi animali: «In un esperimento del 1974, Alan Sargeant e Lester Eberhardt gettarono una cinquantina di anatre in una gabbia di volpi, in un centro di ricerca del North Dakota. Nessun comitato etico autorizzerebbe oggi un simile test, ma da quell’esperimento abbiamo imparato che la strategia è efficace: tutte le anatre si erano paralizzate dopo l’attacco delle volpi e nel 60% dei casi le volpi avevano mollato le prede simil-morte, che erano così sopravvissute».

 

Lisa Vozza, Giorgio Vallortigara, Piccoli equivoci tra noi animali, Zanichelli (2015)

 «L’immobilità tonica è una reazione diffusa fra gli animali: si osserva nelle galline bloccate strettamente tra le mani, nei cani immobilizzati contro la loro volontà, nei ragni, e nei rospi rovesciati sottosopra (qualcuno li ricorderà in tivù, fra le mani del mago Jucas Casella). Il denominatore comune sembra essere qualche forma di costrizione fisica e la risposta è una difesa automatica innata, incontrollabile e involontaria». Nel parlare comune si dice che gli animali fanno il morto e in effetti molti predatori lasciano perdere le prede che non si muovono. E noi? Anche noi ci immobilizziamo in una varietà di situazioni della vita moderna che non hanno a che fare con i predatori: i pompieri trovano persone incapaci di muoversi nel mezzo di un incendio e si paralizzano alcune donne che subiscono una violenza sessuale. «Si tratta di situazioni di estremo pericolo che possono generare un terrore simile a quello che provava un nostro antenato finito fra le grinfie di un predatore, come ha argomentato in uno studio del 1979 lo psicologo Gordon Gallup Jr., della State University di New York ad Albany, negli Stati Uniti», cito ancora dal nostro libro. Perché alcuni si paralizzano e altri non lo fanno? Le variazioni individuali sono comuni e possono dipendere dalla particolare situazione in cui ci si trova e dalla predisposizione individuale. «Alcune persone hanno la capacità naturale di pensare in una situazione stressante, o addirittura di esserne motivati, e per loro sarà più facile correre, nascondersi o combattere. Per gli altri serve aiuto», scrive ancora LeDoux. La scienza contemporanea ha dunque perfezionato il vecchio adagio, “fuggi o combatti”, e oggi sappiamo che le opzioni cablate nel cervello per reagire quando si è in pericolo di vita sono tre: immobilizzati, fuggi, combatti. Sappiamo anche che, almeno nella prima opzione, la volontà non è in gioco. «Se l’immobilità tonica è automatica, incontrollabile e involontaria, perché nell’espressione “fare finta di fare il morto” è sottintesa una messa in scena, una malizia, un inganno? Tutt’altra cosa rispetto a quando parliamo di svenire, perdere i sensi o avere un mancamento, una reazione anch’essa involontaria, per la quale infinite pagine di letteratura ci hanno mostrato il sentimento da provare: comprensione e tenerezza per qualcosa che non si può controllare. Due pesi e due misure?». Con questa domanda per i lettori si conclude il capitoletto dedicato all’immobilità tonica in Piccoli equivoci fra noi animali. Buona lettura e buon Natale! Ho scritto questo post dopo avere letto sul New York Times ‘Run, Hide, Fight’ Is Not How Our Brains Work, di Joseph LeDoux. L'articolo di LeDoux mi ha ricordato il pezzetto che abbiamo dedicato al tema in Piccoli equivoci fra noi animali (Zanichelli 2015) e che ho in parte ripreso. In apertura, una rana della specie Phyllomedusa burmeisteri con immobilità tonica: sembra morta, ma è viva (fonte: Wikipedia).
LEDOUX 1823skcCOR
vallortigara_big
PhyllomedusaBurmeisteri_(6) (1)
phyllomedusa

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