All’inizio del Novecento, negli Stati Uniti orientali, un fungo insidioso spazzava via da tre a quattro miliardi di alberi di castagno in appena qualche decennio. Rimangono un centinaio di esemplari, e il ricordo nella toponomastica. Varie colline dei castagni, Chestnut Hills, si ritrovano da Boston a Filadelfia, antiche e rugose come castagne secche.
Si trattava di alberi molto comuni, che avevano riempito le foreste della costa orientale del Paese, dal Maine alla Georgia, per migliaia di anni. Un fungo meschino è bastato a fare della castagna in America un ricordo del passato, che oggi si può mangiare solo come un frutto esotico di importazione.
La scienza potrebbe oggi permettere di ripristinare i castagni in quelle foreste, andando in un certo senso avanti e indietro nel tempo. Accanto alle foglie degli aceri e delle querce, che infuocano la tarda “estate indiana”, le rigogliose chiome dei castagni potrebbero tornare a crescere, grazie all’ingegneria genetica.
I castagni americani erano alberi enormi. Molto più grandi dei “cugini” europei, gli esemplari di Castanea dentata potevano raggiungere oltre trenta metri d’altezza e quattro di diametro, dando alle foreste un aspetto assai diverso da quello attuale.
Le castagne e la loro farina erano alimenti di base della dieta nordamericana. Proprio come nelle nostre montagne, lo erano specialmente per le popolazioni degli Appalachi, la catena montuosa che corre parallela alla costa per buona parte degli Stati Uniti orientali. Il rito del raccolto dei ricci da terra, seguito dalla sgusciatura e dall’essiccatura dei frutti, e dalla macinatura in farina, impegnava famiglie e comunità per settimane anche da quelle parti.
Il legno del castagno era leggero, e il trasporto costava poco. Inoltre non marciva facilmente, perché conteneva molti tannini, che agiscono da pesticidi naturali. Alla fine dell’Ottocento, con il castagno gli americani costruivano dalle traversine ferroviarie ai pali del telegrafo, dai banchi delle chiese ai pianoforti. Facevano davvero di tutto, “dalle culle alle bare”, come ha detto Susan Freinkel, autrice di “American Chestnut: The Life, Death, and Rebirth of a Perfect Tree” (University of California Press, 2007) in un’intervista al podcast Science Friday nel 2021.
La prima segnalazione del contagio è del 1904 a New York. Una guardia forestale di nome Hermann Merkle stava camminando nei giardini di quello che è oggi lo zoo del Bronx, quando aveva notato che le foglie di uno degli alberi erano appassite e che i rami erano ricoperti di granelli arancioni.
Merkle aveva colto in castagna quello che sarebbe stato poi identificato come Cryphonectria parasitica, un fungo originario dell'Asia orientale, nonché l’agente del cancro corticale di questi alberi. Non si sa esattamente quando o come il fungo sia arrivato negli Stati Uniti, ma si ritiene che abbia attraversato l’oceano Pacifico su una nave, insieme a una diversa specie di castagno, probabilmente proveniente dal Giappone.
Già nel 1912 tutti i castagni della città di New York erano morti. Negli anni successivi il fungo si era diffuso in Pennsylvania, in North Carolina, in Georgia, nel Tennessee e in altri stati. A metà del Novecento le castagne americane erano ormai un malinconico ricordo.
L’infezione avviene tramite minuscole spore che penetrano negli alberi attraverso ferite o fessure nella corteccia. Una volta all’interno sottraggono acqua e altre sostanze nutritive agli alberi, che non sono così più in grado né di crescere né di fare foglie e frutti. La beffa è che il fungo non attacca le radici, perciò i castagni continuano a emettere germogli, che smettono però di crescere appena sono a loro volta attaccati.
Perché in Europa abbiamo ancora alberi di castagno e frutti gustosi ogni autunno? Il cancro corticale era stato segnalato anche da noi, a partire dal 1938, in alcuni alberi di Castanea sativa vicino a Genova. Ma è verosimile che fosse già presente da tempo e non solo lì. Dopo la Seconda guerra mondiale si era diffuso nella maggior parte dei castagneti italiani e poi in Europa. Molte coltivazioni erano state abbandonate, con notevoli danni sociali ed economici, dato che si temeva una devastazione simile a quella americana.
La catastrofe nei nostri boschi è stata evitata grazie a un provvidenziale virus. Le piante hanno infatti resistito al fungo quando questo era a sua volta infettato dal micovirus CHV, del genere Hypovirus, che indebolisce il parassita e lo rende meno dannoso. Di fatto il virus che ha infettato il fungo ha agito come un agente naturale per la lotta biologica, impedendo l’estinzione del castagno europeo a opera della Cryphonectria parasitica. Poiché il virus può essere trasmesso da fungo a fungo, è anche stato usato attivamente per proteggere i castagneti.
Oltreoceano i tentativi di salvare il castagno americano sono stati numerosi, come si può leggere sul sito dell’American Chestnut Foundation. La strategia iniziale era stata l’abbattimento e l’isolamento delle foreste colpite, un po’ come si fa quando si cerca di contenere gli incendi. Il fungo però, non trovando né barriere geografiche né la competizione di altre specie, era sempre più veloce di ogni intervento umano.
Alcuni agronomi avevano allora cercato di ottenere una varietà resistente incrociando il castagno americano con una specie cinese immune al fungo. Tuttavia, ottenere ibridi soddisfacenti richiedeva innumerevoli tentativi. In molte delle piante ibride sarebbero stati poi presenti tanti geni della specie cinese, oltre a quello in grado di conferire la resistenza, che avrebbero potuto modificare il castagno americano in più aspetti. Ulteriori decenni sarebbero poi stati necessari prima che queste piante potessero raggiungere la maturità.
Negli anni Cinquanta si è provato con le radiazioni. Era l’epoca in cui si tentava di dare una prospettiva civile al nucleare, in grado di redimere questa tecnologia dopo gli orrori Hiroshima e Nagasaki. I possibili usi erano soprattutto energetici e medici, ma anche agricoli. Nel caso dei castagni, l’idea era di irradiare un gran numero di semi, “sparando” alla cieca su tutto il genoma. L’obiettivo era indurre mutazioni, alcune delle quali avrebbero potuto offrire resistenza al fungo. Altre avrebbero però potuto alterare le caratteristiche desiderate e tipiche della pianta. In pratica neppure questa strategia ha portato ai risultati sperati.
Il successo, almeno scientifico, è arrivato infine con l’ingegneria genetica. Anziché confidare in una fortunata combinazione genica, creando innumerevoli varietà ibride o irradiando miliardi di semi, era finalmente diventato possibile inserire nel patrimonio genetico del castagno americano un singolo gene, in grado di conferire la resistenza.
Il gene era stato individuato nelle piante di frumento e ad alcuni ricercatori della State University di New York a Syracuse era finalmente riuscita l’impresa: un solo gene in grado di sconfiggere il malefico fungo, lasciando inalterate tutte le altre caratteristiche della pianta e dei suoi frutti.
Nel 2013, a poco più di un secolo dall’inizio della devastazione provocata dal fungo, i ricercatori hanno ottenuto un castagno americano resistente e transgenico. Esemplari di questi alberi rinnovati e rafforzati sono stati finora piantati solo in condizioni sperimentali controllate e non su larga scala.
Oggi ci sarebbe dunque la possibilità concreta di correggere il “marrone”, ma diversi ostacoli vanno superati. Innanzitutto ci sono le approvazioni da ottenere da parte di diverse agenzie federali. Il Dipartimento dell'Agricoltura deve dare l’OK alla possibilità di piantare in campo aperto una specie geneticamente modificata; l'Agenzia per la protezione dell'ambiente sta studiando il possibile impatto ambientale della piantumazione di questi castagni; e la Food and Drug Administration sta valutando la sicurezza alimentare delle castagne transgeniche.
Queste valutazioni devono dare risposte convincenti ai timori e alle obiezioni della popolazione, in particolare delle tribù native che un tempo erano le principali utilizzatrici dei prodotti dei castagni. Oggi i loro discendenti temono sia l’introduzione della specie transgenica, sia l’impatto che le piante potrebbero avere sull’ecosistema.
I ricercatori e le agenzie federali non sottovalutano i rischi. Molti studi sono stati finora effettuati per valutare i possibili impatti della reintroduzione di questi alberi in un ambiente che nel frattempo si è modificato e riempito di altre specie. Hanno, per esempio, considerato che cosa potrebbe comportare per le api, il suolo, le acque e così via. Gli esiti delle valutazioni sono stati finora positivi.
Basteranno a vincere le obiezioni più filosofiche? Il convincimento di alcuni è che gli esseri umani non debbano interferire con i processi della natura. Il proposito di chi è invece convinto di reintrodurre i castagni nel Nord America è riparare un danno provocato da un accidentale intervento umano, ripristinando almeno in parte la situazione precedente.
Insomma, sembrano ancora tante le castagne da togliere dal fuoco, prima di poter gustare di nuovo questi frutti strepitosi prodotti sul suolo americano.