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Guerra e pace: è un problema biologico?

Da un dialogo fra uno scienziato e una preside, una riflessione sulle radici della violenza e della cooperazione, e sul ruolo che la scienza può avere per un futuro di pace.
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Telmo Pievani è uno studioso dell’evoluzione, Rita Bramante dirige una scuola media di Milano. A fine novembre 2011 si incontrano in occasione di Science for Peace, la conferenza internazionale della Fondazione Veronesi che promuove la diffusione di una cultura di pace e maggiori investimenti nella ricerca e nello sviluppo tramite la riduzione delle spese militari.
“La violenza umana ha una base biologica?” Da questa domanda nasce un piccolo, interessantissimo scambio epistolare fra Rita a Telmo, che mi arriva per posta, insieme al suggerimento di parlarne nel blog. Non avrei potuto ricevere un regalo di Natale migliore: un messaggio di pace su cui riflettere, di cui vi propongo una rielaborazione.
I miti sulla violenza innata si sprecano. Dall’ipotesi delle scimmie assassine all’idea che esistano speciali geni dell’aggressività, molte teorie prive di fondamento sono state smentite. Al punto che la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza nel 1986 ha stabilito che la guerra non è una necessità evolutiva, né un destino predeterminato geneticamente, né un fenomeno cablato nel nostro cervello.
Eppure la brutalità non è rara nelle notizie di cronaca e anche in natura i conflitti “armati” fra i gruppi di primati che vivono in comunità sociali complesse sono frequenti. La Dichiarazione di Siviglia ha peccato di ottimismo? Sì e no. Da un lato non si può negare che la violenza sia un fenomeno diffuso nel mondo non solo animale; dall’altro lato, oggi sappiamo che l'aggressività è controbilanciata da comportamenti come la solidarietà di gruppo, la reciprocità, l’altruismo e l’empatia, di cui la ricerca scientifica ha messo in luce l’importanza negli ultimi decenni.
La realtà è che l’aggressività in genere convive con la cooperazione. Se la guerra è comune fra gruppi sociali rivali, per conquistare il controllo delle risorse e i partner più desiderabili, la collaborazione prevale invece all’interno dei gruppi, presumibilmente per mantenere la coesione sociale e ridurre gli effetti dell’egoismo dei “battitori liberi”. C’è chi dice che un rito collettivo come il Palio di Siena sia nato per incanalare un’abitudine millenaria a scontri letali fra bande in una cerimonia meno cruenta. Ma se i senesi sono riusciti a smettere di ammazzarsi fra contradaioli, viene da chiedersi perché, su una scala più grande, non siamo ancora stati capaci a fare lo stesso con la guerra.
C’è chi giustifica l’inevitabilità della guerra come una necessità biologica. Il tentativo è di dare ai conflitti armati una parvenza d’ineluttabilità, che però non è dimostrabile scientificamente. Il comportamento violento o cooperativo è infatti una matassa di influenze assai complicate da dipanare: dentro si annidano tracce fossili, ereditate e modificate lungo i 200.000 anni della nostra storia di specie; effetti prodotti dall’evoluzione culturale; e continui intrecci non lineari fra geni, ambiente e società. Cercare in questo gomitolo aggrovigliato la giustificazione di presunti comportamenti “normali”, siano essi violenti o pacifici, è un’impresa che va al di là dalle capacità d’indagine della scienza contemporanea ed è perciò sconsigliabile. Da questi incauti tentativi in genere emergono quadretti grotteschi di cui diffidare: un universo oscuro e violento, dedito unicamente al male, o un’edificante natura umana, pacifica e cooperativa, corrotta dalla civilizzazione e dalla tecnologia.
La biologia non ci condanna alla guerra e alla violenza, ma ci permette di scegliere tramite l’uso del nostro cervello. Certo, possiamo essere condizionati da pulsioni che affondano in tempi remoti della nostra storia, ma siamo anche liberi (e responsabili) di scegliere fra invenzioni sociali differenti, improntate alla guerra come alla pace. Anche se in noi troviamo predisposizioni naturali all’aggressività e alla cooperazione, nessun nostro comportamento è determinato al punto da non poter essere modificato dall’apprendimento e dalla responsabilità individuale. L’apertura di queste possibilità implica che possiamo decidere di imparare a gestire l’aggressività umana in modo differente da come abbiamo fatto in passato e che la pace è una possibilità globale e realistica, oltre che un’urgenza sociale e un imperativo morale per la specie umana.
“Il declino della violenza potrebbe essere il progresso più significativo e meno considerato della storia della nostra specie”, ha scritto Steven Pinker in The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined. In effetti, se pensiamo che nella notte di San Bartolomeo nel 1572, in tre ore pare che siano stati uccisi circa 1000 ugonotti, la probabilità di subire un’aggressione letale in Europa occidentale è certamente più bassa oggi che qualche secolo fa. Se però guardiamo agli oltre 70 milioni di morti provocati dalle guerre del 20° secolo solo in Europa, la tesi sembra un po’ meno solida, come ha commentato Elizabeth Kolbert in una recensione del libro di Pinker sul New Yorker. Se volete ascoltare l’opinione di Pinker, potete farlo in questo video:
L’Europa occidentale gode ancora del più lungo periodo di pace mai conosciuto, ma è un effetto di maturazione della civiltà o di deterrenza? Winston Churchill scriveva, nel 1955, che “per ironia della sorte, potremmo avere raggiunto una fase della storia in cui la sicurezza è la solida figlia del terrore, e la sopravvivenza, la sorella gemella dell’annientamento”. Se resta il dubbio che la nostra concordia prolungata sia un effetto del progresso o della paura, di certo non siamo stati capaci di estendere il beneficio di tanta pace ai popoli che hanno subito guerre in ogni angolo del pianeta. E anzi, abbiamo pensato bene di sfruttare la nostra tranquillità estesa per fornire loro armi sempre più micidiali. Per citare il costo in vite umane soltanto di un conflitto fra i tanti (troppi) di cui ci è giunta voce, la seconda guerra del Congo ha fatto, da sola, più di 5 milioni di morti. La scienza produce sapere che può essere utilizzato per la guerra o per la pace, secondo l’impiego che se ne fa. Dalla ricerca robotica sono nate di recente armi automatiche, come i drone, per il cui uso il Presidente Obama ha argomentato che avrebbe potuto fare a meno dell’autorizzazione del Congresso, visto che non si sarebbero corsi rischi di perdita di vite umane da parte degli Stati Uniti.
Ma la scienza può e deve dare un contributo diverso alla pace, visto che parla un linguaggio che valica i confini di frontiera e che può unire i popoli nella ricerca di strategie nuove di convivenza e di sviluppo, favorendo la collaborazione tra ricercatori di paesi in conflitto, e fornendo idee, innovazioni e tecnologie che contribuiscano ad alleviare situazioni di sofferenza e di ingiustizia.
Soprattutto, la scienza è in grado di fornire gli strumenti intellettuali per disarmare le narrazioni collettive che inneggiano alla paura, alla violenza, all’annientamento dei “diversi da noi”. Di queste narrazioni fallaci abbiamo già visto l’enorme capacità autodistruttiva e il potere di suggestione che ha spinto intere comunità a correre compatte verso il conflitto, se non addirittura la pulizia etnica o il genocidio. Viviamo tempi di risorse in calo e di tensioni crescenti, ma nessuna necessità biologica ci obbliga a ucciderci l’un con l’altro per accaparrarci un magro bottino. Sta soltanto a noi decidere, piuttosto, di usare la nostra testa per aumentare le risorse e dividercele in maniera più equa.
Buon Natale.
Per scrivere questo post ho rielaborato il testo di una corrispondenza fra Telmo Pievani e Rita Bramante e ho inoltre consultato: Steven Pinker, The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined (Viking, 2011); Elizabeth Kolbert, Peace in our time, The New Yorker, Oct. 3 2011; P. W. Singer, Military robotics and ethics: A world of killer apps, Nature, Sept. 22 2011. Nell’Aula di Scienze Giulia Bianconi ha già affrontato il tema delle violenze antiche e moderne, parlando di un sito archeologico del Colorado in cui sono state scoperte tracce di un genocidio di oltre 3000 anni fa.
Guerra e pace

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