La storia della scoperta dell’HIV, il virus che causa l’AIDS, è ormai una vicenda da libro di testo. Se però a raccontarla è Françoise Barré-Sinoussi, premio Nobel per la medicina 2008, la storia diventa una cronaca di vita vissuta da cui c’è davvero molto da imparare. E non mancano le novità.
Tutto comincia attorno al 1981. Françoise Barré Sinoussi è una giovane ricercatrice dell’Istituto Pasteur di Parigi, nel laboratorio diretto da Luc Montagnier. In vari ospedali nel mondo i medici cominciano a notare giovani pazienti che muoiono di polmoniti o malattie rarissime, come il sarcoma di Kaposi, che in genere colpiscono soltanto anziani con un sistema immunitario indebolito. I primi casi sono in prevalenza omosessuali e persone che fanno uso di droga, ma via via che i numeri crescono si aggiungono anche malati di emofilia, donne e bambini. La varietà dei casi aiuta gli epidemiologi a decifrare le vie di trasmissione: i rapporti sessuali, le trasfusioni, lo scambio di siringhe, il parto e l’allattamento sembrano essere le vie preferenziali di contagio di questa nuova malattia misteriosa.
I clinici sono in allarme. Vorrebbero fermare la propagazione dell’epidemia, ma come fare senza conoscere il colpevole? Medici e pazienti si rivolgono ai virologi. Nace così una delle collaborazioni più proficue ed efficaci della storia della medicina: in meno di un decennio l’alleanza fra clinici, pazienti e scienziati produrrà scoperte immediatamente trasformate in metodi diagnostici e terapeutici, a un ritmo che soltanto le grandi emergenze sono in grado di garantire.
Il virus, innanzitutto. I sospetti iniziali cadono su HTLV-1, il primo retrovirus tumorale umano, scoperto nel 1980 da Robert Gallo. Ma il virus si nasconde, e nel sangue non lascia quasi tracce (si scoprirà poi che l’HIV forma una riserva in poche cellule dormienti, mentre quelle in cui si riproduce muoiono poco dopo l’infezione). Occorre provare una strada mai tentata prima nell’isolamento di un virus: andare a cercarlo nel tessuto ghiandolare ingrossato dei pazienti. Chissà che non si nasconda proprio lì, in concentrazioni maggiori. L’osservazione, al microscopio elettronico, conferma l’ipotesi: si vedono particelle virali di dimensioni compatibili con quelle di un retrovirus, anche se densità e mancanza di reattività con le proteine di HTLV-1 fanno pensare a una varietà diversa e inedita.
Finalmente nel 1983, al Pasteur, un nuovo virus è identificato dal tessuto di un paziente che non ha ancora sviluppato la malattia, ma è considerato a rischio. Al virus viene dato il nome LAV (lymphoadenopathy virus, da linfadenopatia, il nome con cui veniva all’inizio chiamato l’AIDS). Nel 1984 Robert Gallo, dall’altra parte dell’Atlantico, stabilisce che la causa della malattia è un virus cui dà il nome HTLV-3 (ritenendo che possa essere della stessa famiglia di HTLV-1; in realtà è lo stesso virus isolato in Francia). Entrambe le scoperte finiscono dritte su Science; e Gallo avrà il suo secondo premio Lasker.
Siamo solo all’inizio. La scoperta del virus porta subito ai primi test diagnostici, essenziali per identificare le persone infette, bloccare la propagazione e controllare il sangue da utilizzare nelle trasfusioni. Si inizia a capire che il virus ha un tropismo, ossia infetta preferibilmente alcune cellule del sistema immunitario, chiamate CD4, essenziali per il funzionamento delle difese. Si comprende così perché i pazienti si ammalino di malattie altrimenti rare in persone con un sistema immunitario non compromesso.
Nascono anche i primi test clinici in grado di monitorare l’andamento dell’infezione in funzione del numero di cellule infette (più cellule sono colpite e peggiore è la prognosi). Si studia il ciclo di replicazione del virus e le proteine coinvolte, fra cui la trascrittasi inversa, che permette al virus di iscrivere il proprio genoma nel DNA dell’ospite. La strada è aperta alle prime terapie antiretrovirali che cambieranno per sempre la faccia di questa malattia. Da inesorabilmente mortale, l’AIDS nel 1987, a soli 5 anni dall’isolamento della sua causa virale, diventa una malattia con cui è possibile convivere a lungo. Un successo straordinario e inedito per rapidità, reso possibile dallo sforzo comune di medici, ricercatori, pazienti, attivisti.
“Oggi nei paesi occidentali la diffusione su larga scala delle terapie combinate antiretrovirali tengono sotto controllo l’infezione, modificando sostanzialmente l’andamento della malattia nelle persone sieropositive – commenta la Barré-Sinoussi. Dal 1996 a oggi il tasso di mortalità in Europa è diminuito dell’85% circa, così come la progressione dell’infezione – da asintomatica all’AIDS conclamato – si è in proporzione ridotta. I successi delle terapie antiretrovirali hanno inoltre consentito di azzerare la trasmissione della malattia fra madre e feto. Così, oggi, le donne non hanno più paura né dei propri partner sieropositivi né di eventuali gravidanze”.
Ragazzi, usate i preservativi! Il fronte del contagio rimane però una ferita aperta. “La mortalità si è ridotta – racconta la premio Nobel francese –, ma la percentuale di nuovi infetti non è diminuita. Forse perché la malattia non è più percepita come mortale, aumentano i casi di contagio attribuibili a rapporti sessuali. In Italia, per esempio, nel 2008 sono complessivamente il 74%. Particolarmente a rischio sono i giovani che, spesso poco consapevoli del rischio che corrono a causa della scarsa informazione, costituiscono un drammatico bacino di sviluppo dell’infezione da HIV”. Soprattutto perché nel 50-60% dei casi le persone non sanno di essere sieropositive.
Ogni volta che 2 persone iniziano le cure, 5 si contagiano. Con più di 30 milioni di persone infette e 7500 nuovi casi al giorno, l’AIDS è ancora un’emergenza, in particolare in Africa e nell’Europa dell’Est, dove a complicare le cose ci sono anche molte infezioni da tubercolosi. Nei paesi dell’ex blocco sovietico l’HIV è arrivato negli anni Novanta, con l’apertura delle frontiere; oggi il problema maggiore è la prevenzione, per la quale c’è il completo disinteresse se non addirittura l’ostilità dei governi coinvolti. In Africa, invece, mancano le risorse per curare le 10 milioni di persone in attesa di terapie. Il Global Fund per l’AIDS, la malaria e la tubercolosi ha una dote (promessa) di quasi 12 miliardi di dollari per il triennio 2011-13, a fronte di un bisogno per diagnosi e terapie che supera i 18 miliardi. Ammesso che i governi mantengano gli impegni, la coperta è comunque corta: paesi come il Camerun oggi si possono permettere soltanto di continuare le terapie a chi già è in cura, ma non hanno fondi a sufficienza per arruolare nuovi pazienti, mentre altri paesi temono di dover adddirittura sospendere le terapie in corso. In caso di interruzione, il rischio che emerga un ceppo virale resistente ai farmaci è reale e fa paura. Ma quello che più lascia l’amaro in bocca è il prezzo impari che la crisi economica ha riversato sugli abitanti dei paesi poveri.
Oggi sui virus dell’immunodeficienza acquisita sappiamo moltissime cose. Conosciamo il loro albero genealogico (filogenetico è il termine corretto) e la loro storia millenaria, cominciata probabilmente in Africa. Attualmente le scimmie verdi africane convivono pacificamente con un virus molto simile all’HIV. È probabile che in questi animali, magari 10.000 anni fa, sia avvenuto un cambiamento evolutivo capace di instaurare di un patto di non aggressione fra virus e ospite.
Se le scimmie sono riuscite a tenere a bada il virus, una piccola percentuale di esseri umani non sembra essere lontana. Alcune persone, rarissime, non si infettano nonostante l’esposizione ripetuta al virus. E circa 3 persone ogni 1000 infette sono in grado di contenere l’infezione virale per moltissimi anni prima che insorga la malattia. Sono i cosiddetti elite controllers, individui studiati a fondo dalla comunità scientifica che si augura di trasferire il loro segreto (sperando che lo si individui presto) al resto dell’umanità. Si giungerebbe così a una cosiddetta cura funzionale: la soppressione permanente della capacità di replicazione del virus; non la sua eradicazione, considerata molto difficile visto che l’HIV è abilissimo a integrare il proprio genoma in una grande riserva di cellule dell’ospite.
Anche l’uomo riuscirà a fare un salto evolutivo come le scimmie? “Possibile, ma magari ci impiegherà 10.000 anni e noi non staremo certo a guardare!” mi dice sorridendo la scienziata premio Nobel alla fine della conferenza, mentre chiude il computer.
Nuovi vaccini e terapie potrebbero dunque imitare la soluzione escogitata dalle persone che resistono naturalmente al virus, dai controllori d’élite e dalle scimmie verdi.
In attesa delle scoperte proiettate nel futuro, qualche nota di ottimismo. Il RV144, un vaccino in sperimentazione clinica in Tailandia, ha limitato il tasso di infezione da HIV di circa il 30%; un’altra buona notizia è il gel a base di un farmaco antiretrovirale che, inserito nella vagina prima di un rapporto sessuale, sembra contrastare efficacemente le nuove infezioni, secondo i risultati di uno studio clinico promettente per la prevenzione.
Françoise Barré-Sinoussi ha tenuto la lezione magistrale che ha inaugurato, il 3 novembre scorso, il congresso della Società italiana di immunologia clinica e allergologia a Rozzano, presso la Fondazione Humanitas per la ricerca. Nella foto in alto, la Premio Nobel francese al termine della conferenza, con Alberto Mantovani, direttore scientifico della ricerca Humanitas (foto: ufficio stampa Humanitas).
Poco più sotto, Luc Montagnier nel 1983 mostra le fotografie del virus individuato nel tessuto ghiandolare di un paziente ; negli stessi anni a New York, come in molte altre città del mondo, la gente protesta per le strade, chiedendo terapie che mettano fine all'epidemia (foto tratte da http://www.webmd.com/hiv-aids/slideshow-aids-retrospective).
Per approfondire: Science e Nature hanno dedicato due magnifici speciali alla ricerca sull'AIDS e all'impatto sociale della malattia.
La fotografia dei preservativi proviene dall'archivio Shutterstock, mentre quella della scimmia verde africana è presa da Flickr (http://www.flickr.com/photos/pazzani/4450505416/).
La fotografia di apertura riprende una particella di HIV mentre esce dalla superficie di un linfocita in coltura (fonte: CDC/ C. Goldsmith, P. Feorino, E. L. Palmer, W. R. McManus).