Facciamo un esperimento. Chiamiamo da 14 paesi diversi 31 fra i massimi esperti al mondo sul rischio di sviluppare tumori, li chiudiamo in una stanza per una settimana e chiediamo loro di uscire con la risposta a una semplice domanda: i telefoni cellulari causano il cancro? È quello che è successo a Lione, dal 24 al 31 maggio scorso, presso la sede dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, il centro dell’Organizzazione mondiale della sanità, dove un gruppo di epidemiologi, guidato dal professor Jonathan Samet della University of Southern California, ha provato a rispondere al quesito posto dall’Agenzia: “Stabilire il rischio cancerogeno potenziale dovuto all’esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza” (per intenderci, quelli provocati dalle radiazioni non ionizzanti emesse dai telefoni senza fili, ma anche dai segnali radio-televisivi, dai radar e dai forni a microonde).
Se la domanda è semplice, la risposta è difficilissima. Il quesito è infatti al cuore di uno dei problemi più complessi dell’epidemiologia dei tumori. Se avete la pazienza di seguirmi, provo a ricapitolare che cosa si è compreso fino a oggi di questo problema. Il riassunto non è brevissimo, ma serve davvero a capire il significato della decisione della IARC.
Ci sono fondamentalmente tre scenari possibili in cui un fattore di rischio può essere associato al cancro, e
Siddhartha Mukherjee, autore di
The emperor of all maladies, li ha illustrati molto bene in un recente
articolo sul New York Times. “Quando una rara forma di cancro è associata a un rischio raro, il legame fra il rischio e la malattia è molto evidente”. Per esempio, nel 1775 Sir
Percivall Pott, un chirurgo londinese, scoprì che il tumore allo scroto era molto più comune fra gli spazzacamini che nella popolazione generale. “Il legame fra un tumore inusuale e una professione poco comune era talmente evidente che Pott non ebbe neppure bisogno della statistica per provare l’associazione”.
Il secondo scenario, opposto al primo, capita quando un’esposizione comune è associata a una forma di cancro anch’essa diffusa: è il caso, per esempio, del fumo rispetto ai tumori ai polmoni. Se molte persone fumano e tanti individui sviluppano un tumore al polmone, non è ovvio che si riesca immediatamente a trovare un nesso di causa ed effetto, perché molte persone fanno anche un mucchio di altre cose uguali, oltre a fumare, che confondono le acque. In altre parole il nesso, seppur apparente, può essere considerato come un’associazione casuale anziché causale. E questo è ciò che è accaduto proprio nel caso del fumo: il legame fra la sigaretta e la malattia è emerso fin dagli anni Trenta del secolo scorso, quando il fumo è diventato un fenomeno di massa, ma solo lunghi studi clinici condotti negli anni Cinquanta e Sessanta hanno permesso di stabilire senza ombra di dubbio un rapporto di causa ed effetto fra il fattore di rischio e la malattia.
Lo scenario più complesso e difficile è quello in cui un fattore di rischio molto comune è associato a una forma di cancro molto rara. È proprio il caso di cui ci stiamo occupando: il possibile legame fra gli ubiquitari telefoni senza fili e i rari tumori al cervello. Che cosa dicono a questo riguardo gli studi analizzati dal gruppo di studio di Lione? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un ulteriore passo indietro e capire come funzionano singolarmente gli strumenti a disposizione della ricerca medica per stabilire se il sospetto è fondato.
“Il metodo più rozzo per catturare l’orma di un cancerogeno negli esseri umani è uno studio di popolazione su larga scala” spiega ancora Mukherjee. Se infatti un fattore di rischio fa aumentare l’incidenza di un tumore nella popolazione, troveremo un aumento generale dell’incidenza di quel tumore. Il compito sembra facile, eppure non lo è. A complicare le cose vi è innanzitutto il problema dell’aspettativa di vita, un fenomeno in crescita pressoché ovunque nel mondo. Poiché la maggior parte dei tumori aumenta fortemente con l’età, ogni analisi di questo tipo, se non è corretta per questo fattore confondente, mostra necessariamente una crescita del numero di tumori anche se l’incidenza reale non è cambiata o è addirittura diminuita.
L’incidenza dei tumori cerebrali è aumentata negli ultimi anni? Se guardiamo a tutti i casi complessivamente, la risposta a questa domanda è no. Con circa 6,5 nuovi casi l’anno, ogni 100.000 abitanti, i tumori cerebrali sono e restano rari. Se le radiazioni elettromagnetiche a radiofrequenza fossero un potente cancerogeno, dopo circa trent’anni dall’inizio della diffusione dei telefoni cellulari e con circa 5 miliardi di utenti, dovremmo avere già visto un aumento sensibile. Tuttavia, suddividendo la popolazione in gruppi omogenei di età, si è osservato un lieve aumento di questi tipi di tumori nelle giovani donne dai 20 ai 29 anni (ma non negli uomini); il risultato, già difficile da spiegare per l’effetto registrato esclusivamente nel genere femminile, è ancora meno comprensibile se si va a osservare la localizzazione di questi tumori, concentrati nel cosiddetto
lobo frontale, una regione situata grossolanamente fra la fronte e l’occhio, ma distante dall’area dietro l’orecchio, dove generalmente si appoggia il telefono. Come spiegare queste stranezze? È possibile che gli effetti cancerogeni dei telefoni cellulari, se esistono, siano così sottili da non poter essere misurati con uno strumento dal basso potere di risoluzione come uno studio di popolazione.
Uno strumento più potente per scoprire il legame fra un fattore di rischio e un tumore è il cosiddetto “studio caso-controllo”. Nel nostro caso, uno studio caso-controllo consisterebbe nel prendere in esame un gruppo di uomini e donne affette da tumori al cervello (i “casi”) e chiedere loro quanto hanno utilizzato il telefono cellulare rispetto a un gruppo di persone sane (i “controlli”). È ciò che ha cercato di fare “Interphone”, uno studio molto ampio, che è stato coordinato dalla IARC e finanziato dall’Unione europea insieme alle compagnie telefoniche (nonostante il finanziamento, i rappresentanti delle industrie coinvolte non hanno avuto accesso ai dati prima della loro pubblicazione). Lo studio, concluso nel 2010 dopo aver preso in esame circa 5000 casi di tumori cerebrali e altrettanti controlli in 13 Paesi, nel complesso non ha dimostrato che l’uso dei telefoni cellulari induce lo sviluppo di tumori cerebrali. Ma suddividendo i due gruppi in ulteriori sottogruppi, in base alla frequenza d’uso del cellulare, sono emersi dati contradditori: per esempio, gli utilizzatori regolari sembravano avere un rischio ridotto di tumori cerebrali rispetto agli utilizzatori rari o ai non utilizzatori; viceversa, i forti utilizzatori sembravano avere un rischio aumentato per un particolare tipo di tumore. Alla maggior parte degli epidemiologi questi dati discordanti sono parsi come il segnale di un problema di fondo nel disegno dello studio.
L’errore più comune degli studi caso-controllo dipende dalla malleabilità della memoria. Provate a rispondere a questa domanda: “Per quanto ore al giorno avete usato il telefono cellulare negli ultimi dieci anni?”. Il vostro ricordo non potrà essere molto preciso, ma lo sarà ancor meno se penserete che quell’uso vi abbia causato una malattia. Sì, perché in quel caso la vostra memoria sarà piegata dal bisogno, comprensibile e umano, di adattare i ricordi alla spiegazione che desiderate dare a ciò che vi accade. Questo errore sistematico è conosciuto da tempo negli studi caso-controllo e purtroppo ha inficiato anche l’attendibilità dei risultati di Interphone (nei pochi casi dove i ricordi delle persone hanno potuto essere controllati rispetto all’effettivo uso del telefono, registrato dai tabulati del traffico telefonico, si sono osservate discrepanze enormi fra le dichiarazioni e la realtà).
Per evitare questa distorsione si potrebbero fare studi “prospettici”, in cui grandi numeri di utilizzatori e non utilizzatori di cellulari sono seguiti per molti anni o addirittura decenni. In questo modo si potrebbe stabilire con certezza chi sviluppa o meno un tumore cerebrale, conoscendo con precisione quanto è stato usato il telefono. C’è però un problema non da poco: per individuare 6,5 tumori cerebrali ogni 100.000 abitanti, occorrerebbe seguire un numero enorme di utilizzatori, nell’ordine di molte centinaia di migliaia. Al di là dei costi, ce la si potrebbe anche fare, data la diffusione dei telefonini. Ma un numero altrettanto grande di non utilizzatori, dove lo si potrebbe trovare? Lo studio è infattibile per mancanza di controlli. Altrettanto impraticabile è l’idea di una sperimentazione clinica, in cui un certo numero di uomini e donne è suddiviso in due gruppi e a uno dei due gruppi viene imposto il divieto di usare il cellulare… Capite bene che anche questa possibilità, oltre a essere esclusa per motivi etici, non troverebbe molti volontari disponibili.
Se gli studi sugli esseri umani sono stati finora poco conclusivi, che cosa ci dicono gli studi sugli animali? Molti cancerogeni umani, fra cui il
benzene, sono stati inizialmente individuati grazie a esperimenti con animali di laboratorio. Negli ultimi 15 anni almeno sei studi indipendenti hanno analizzato gli effetti dell’esposizione cronica delle radiazioni non ionizzanti, senza individuare un rischio aumentato per i tumori cerebrali.
Storicamente l’analisi usata più comunemente per stabilire se una sostanza è cancerogena è su singole cellule, tramite il cosiddetto
test di Ames. Senza entrare nei dettagli, vi basti sapere che il test utilizza un ceppo speciale di batteri, dotato di una sorta di sensore molecolare che è in grado di rilevare un effetto mutageno sul DNA. Nel 2005 un gruppo di esperti ha
rivisto i risultati di oltre 1700 esperimenti che hanno analizzato l’effetto dell’esposizione alle radiazioni emesse da un telefono portatile su cellule animali o batteriche, trovando risultati negativi in più di due terzi dei casi. La domanda però era forse mal posta poiché le radiazioni non ionizzanti sono state considerate per lungo tempo “buone”, dato che non sono in grado di causare danni al DNA, a differenza delle ben più energetiche
radiazioni ionizzanti (per intenderci, quelle emesse dai
raggi X o dai
raggi cosmici e capaci di penetrare all’interno dei tessuti, danneggiando il genoma). Poiché il cancro è considerato principalmente una malattia dei geni, dovuta a mutazioni del DNA, i tipi di radiazioni che non causano alterazioni genetiche non sono state finora considerate possibili cancerogeni. Oggi tuttavia stanno emergendo altre modalità più indirette con cui è possibile influenzare lo sviluppo di un tumore. Un esempio è l’
infiammazione: un processo infiammatorio all’interno dell’organismo crea un ambiente favorevole allo sviluppo di un tumore. Inoltre ci sono sostanze che, pur non modificando la sequenza del DNA, possono alterarne più sottilmente la struttura e la regolazione.
I telefoni cellulari producono un effetto biologico sul cervello? Nora Volkow, direttrice del
National Institute on Drug Abuse di Bethesda, Maryland, ha fatto questo esperimento: ha reclutato 47 persone e ha piazzato un telefonino “attivo” vicino all’orecchio di ciascuno (il telefono era acceso e impegnato in una telefonata, ma silenziato in modo da evitare gli effetti sul cervello del suono e della conversazione); quindi ha usato la
tomografia a emissione di positroni (PET) per rilevare alterazioni del metabolismo del glucosio nel cervello. Poiché il glucosio è il carburante del cervello, è spesso usato come “metro” dell’attività cerebrale dalle tecniche di visualizzazione più comuni. I risultati dell’esperimento, pubblicato nel 2011 sul
Journal of the American Medical Association, hanno in effetti messo in luce un aumento dell’attività cerebrale nell’area adiacente all’antenna del telefono. Tuttavia un consumo aumentato di glucosio da parte delle cellule cerebrali non equivale neppure minimamente allo sviluppo di un tumore: significa soltanto che il nostro cervello in quella situazione si attiva. Ma si attiva anche in ogni situazione in cui usiamo la testa: per esempio quando ascoltiamo la musica, pensiamo a qualcosa che ci è successo e perfino quando dormiamo. In altre parole lo studio non dice assolutamente nulla sull’eventuale rapporto fra questa attivazione, provocata dalle radiazioni emesse dal telefono, e il possibile sviluppo di un cancro.
La sintesi di questi studi sembrerebbe piuttosto confortante, visto che la maggior parte di essi, dalle ricerche epidemiologiche agli studi sugli animali e sulle cellule in vitro, non hanno provato un nesso di causa ed effetto fra l’uso dei telefoni cellulari e i tumori. Ma nella scienza non trovare prove non equivale a dire che il rischio è nullo: potrebbe anche dire che i metodi attualmente a disposizione non sono sufficienti a misurare questo tipo di rischio. Secondo diversi studiosi la migliore analisi da fare sarebbe un ampio studio caso-controllo in cui l’effettivo uso del telefono cellulare di un grande gruppo di pazienti possa essere paragonato a quello delle persone sane, utilizzando però i tabulati del traffico telefonico al posto delle dichiarazioni poco attendibili delle persone; accanto all’analisi epidemiologica ci vorrebbe anche uno studio prospettico sugli animali, in cui si studiano gli effetti a lungo termine delle radiazioni di un telefonino. Tuttavia perfino studi di questo tipo potrebbero dare risultati limitati, dal momento che lo sviluppo di un tumore cerebrale da radiazioni telefoniche potrebbe impiegare anche 50-70 anni a dare segni di sé. Inoltre bisognerebbe convincere le compagnie telefoniche a concedere l’uso dei tabulati (finora sono state piuttosto restie in proposito; la spiegazione ufficiale è la difesa della privacy degli utenti).
Al termine di questa lunga storia, veniamo alla forte nota di cautela diffusa dalla IARC. Nel
comunicato stampa pubblicato il 31 maggio si legge che l’Agenzia “ha classificato i campi elettromagnetici a radiofrequenza come possibilmente cancerogeni per gli esseri umani (gruppo 2B), in base a un aumentato rischio di sviluppare un
glioma, un tumore maligno del cervello, associato all’uso di telefoni senza fili”. Sembra una contraddizione con quanto detto finora, ma non lo è. Il gruppo di studio della IARC ha esaminato tutti i dati accumulati finora, inclusi gli studi più recenti, e in base a questa ampia analisi ha deciso di inserire i campi a radiofrequenza emessi dai telefoni senza fili fra i "possibili" cancerogeni per gli esseri umani. Attenzione alle parole: "possibili" (categoria 2B) non vuole dire né "certi" (categoria 1), né "probabili" (categoria 2A). Per mettere le cose in prospettiva, la categoria 2B include molte altre centinaia di sostanze, fra cui anche il caffè, per le quali la possibilità o meno causare una specifica forma di tumore è assai dubbia. Con la nota la IARC ha voluto dunque sottolineare lo stato di incertezza di questi studi e la necessità di analisi migliori: solo i risultati di studi più attendibili potranno infatti declassare le radiazioni da radiofrequenze nella categoria inferiore dei non cancerogeni o, viceversa, farle passare nella categoria superiore, fra i cancerogeni certi o probabili. Lo studio, oggetto di una monografia della IARC, sarà sintetizzato in un articolo che sarà pubblicato sul numero del primo luglio di
Lancet Oncology.
La IARC con questa nota ha anche voluto allertare il pubblico, comunicando ai 5 miliardi di utilizzatori di cellulari esposti alle radiazioni che il rischio è probabilmente molto piccolo, ma di preciso non lo si conosce. In attesa dei risultati dei prossimi studi, l'avvertimento è particolarmente utile per i bambini, non solo perché hanno tessuti cerebrali più sensibili di quelli degli adulti, ma perché a differenza dei più anziani hanno davanti un’intera vita di esposizione. I rimedi però ci sono e costano solo un po’ di attenzione: se si usano gli auricolari col filo, si abbassa l’esposizione di almeno 10 volte; inoltre si può evitare di parlare mentre ci si muove, si viaggia o si è in luoghi dove c’è poco campo (più il telefono fatica a trovare il campo, maggiori sono le radiazioni che emette). Nell’incertezza, è consigliabile qualche accortezza.
Per scrivere questo post ho consultato tutti i testi e gli articoli linkati nel testo. La foto di apertura è dell’archivio Shutterstock.