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I retrovirus siamo noi

Siamo un reliquiario di retrovirus. La maggior parte è inattiva e dorme, alcuni si risvegliano per caso, altri ci sono davvero utili
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Abbiamo il DNA incrostato come la pelle delle balene, non di cirripedi ma di pezzi di antichi virus. Il genoma umano ne è popolato per circa l’8%, come ci ricorda sul New York Times Carl Zimmer, un divulgatore ormai diventato esperto quanto un virologo. Da dove vengono? Da antiche infezioni che hanno colpito qualche remoto antenato. A lasciare tracce sono stati soprattutto i retrovirus, i membri di quella vasta famiglia che comprende anche l’HIV. Come hanno fatto a infilarsi nel nostro DNA? Con lo stesso sistema che usano i retrovirus contemporanei: inseriscono i loro geni nel nucleo di una cellula ospite, più precisamente in mezzo a qualche cromosoma, e in virtù di questa invasione la cellula infetta diventa una macchina asservita alla produzione di particelle virali. Quando la cellula infetta è uno spermatozoo o una cellula uovo, il DNA virale entra nella dote genetica di figli, nipoti, pronipoti. È così che i posteri se li ritrovano in eredità. I pezzi di virus incorporati nel patrimonio genetico di un individuo si chiamano, nel gergo dei virologi, “retrovirus endogeni”. Noi umani ne abbiamo circa 100.000 tipi. Non siamo gli unici a ospitare queste reliquie virali. Gli scienziati hanno trovato retrovirus endogeni in un mucchio di altre specie, perfino nei nostri antenati marini che hanno subito invasioni fin da 450 milioni di anni fa. Nella maggior parte dei casi i retrovirus endogeni sono passeggeri silenziosi e innocui. Mutazioni nella sequenza, interruzioni, mutilazioni hanno nel tempo trasformato dei pericolosi invasori in moncherini incapaci di fare danni. In altri casi i geni virali sono rimasti intatti e la cellula ospite li ha avvolti in una sorta di guaina difensiva che li ha mantenuti paralizzati, per così dire. A volte qualche fossile virale si risveglia. E se spinge la cellula a proliferare? Un cancro può capitare a causa di un retrovirus endogeno? È possibile, ma tranquilli: John Coffin, fra i maggiori esperti sul rapporto fra virus e cancro, ci rassicura dalla Tufts University di Boston che sono eventi casuali, poco probabili, piuttosto rari.

John Coffin, professore ed esperto di retrovirus della Tufts University di Boston

Loro ci hanno usato, noi li abbiamo usati. L’evoluzione, si sa, fa bricolage: usa e riusa pezzi e funzioni, creando variazioni sul tema. Un esempio sono i geni dell’interferone, regolati da DNA retrovirale che abbiamo cooptato a nostro uso. I retrovirus hanno escogitato il modo di attenuare l’attività antivirale degli interferoni, che noi produciamo per difenderci dalle infezioni; noi abbiamo sfruttato quegli stessi geni, messi a punto dai retrovirus e incorporati nel nostro genoma, per smorzare, una volta che l’emergenza è passata, l’allarme lanciato dagli interferoni al sistema immunitario all’inizio di un’infezione. Non è il solo caso di addomesticamento di geni retrovirali endogeni a nostro vantaggio. Un altro esempio sono le sincizine, proteine necessarie a far fondere fra loro le cellule della placenta. Sono prodotte su ricetta genetica di un antico retrovirus endogeno e le sfruttiamo da tempo immemore, al pari di topi e altri mammiferi. Senza di loro la placenta non funziona, il feto non si attacca all’utero e non si connette ai vasi che portano il nutrimento. Un esempio più recente è hemo, scoperto da Odile Heidmann all’Istituto Gustave Roussy di Parigi: si tratta di un arcaico gene retrovirale espresso e conservato in molte specie di primati. È prodotto nella placenta e nelle cellule precoci del feto. Che cosa fa? Nessuno lo ha ancora capito.

Un feto umano e la placenta (Wikipedia)

Forse hemo aiuta le cellule staminali dell’embrione a mantenere la loro capacità di differenziarsi in ognuno dei circa 200 tipi di cellule adulte (l’ipotesi è di Gkikas Magiorkinis, virologo all’Università di Atene). Così facendo, anche il virus antico aveva il suo tornaconto: rimanere nel DNA di tanti tipi di cellule diverse, comprese quelle germinali che lo avrebbero traghettato nelle generazioni successive. Forse è un messaggio dal feto alla madre (l’ipotesi è di Odile Heidmann): “Tieni a bada il tuo sistema immunitario, non mi attaccare”. Una funzione utile sia ai virus, sia ai feti. Se così fosse sarebbe una prova ulteriore di quella “lotta particolarmente tumultuosa” instaurata nel corso dell’evoluzione tra gli interessi del feto e quelli della mamma (per dirla con le parole di Robert Sapolsky in Behave, W. W Norton, 2017).   -- Ho scritto questo post ispirata da Carl Zimmer, Ancient Viruses Are Buried in Your DNA, The New York Times (4/10/17). Ho consultato: Gkikas Magiorkinis et al., Roles of Endogenous Retroviruses in Early Life Events, Trends in Microbiology (29/9/17); Vincent Racaniello, Purging the PERVs, Virology Blog (17/8/17). L’immagine di apertura (Lukejerram.com) è una scultura del retrovirus HIV creata dallo scultore Luke Jerram.
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Fetus_and_placenta_-_journal.pbio.0060312.g001

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