“Da grande voglio volare nello spazio”. I desideri dei bambini ci incantano, ma appena i bambini crescono e i sogni infantili si trasformano in ambizioni, in genere ci fanno paura. Soprattutto se è una ragazza a progettare il suo futuro.
Da genitori o da insegnanti, tendiamo quasi automaticamente a frenare le aspirazioni con una buona dose di realismo: sono carriere difficili; restare delusi è la norma; con tutti i mestieri che ci sono, perché puntare proprio a qualcosa di così complicato e incompatibile con una famiglia?
E se il consiglio di tenere i piedi per terra fosse la strada più breve verso la frustrazione? Dettati dal buon senso e da un desiderio di proteggere chi è ancora poco esperta di come vanno le cose nel mondo, i suggerimenti apparentemente più saggi potrebbero essere un’istigazione alla rinuncia, prima ancora che una ci abbia provato.
Vi racconto il caso di Maggie Aderin-Pocock: dislessica, nera, ingegnere aerospaziale. Figlia di immigrati nigeriani a Londra, Maggie ha cambiato 13 scuole fra i 4 e i 18 anni. A giudicare dalle statistiche, nessuno avrebbe scommesso un pennie sul suo futuro. Men che meno la sua insegnante delle elementari, che di fronte al suo sogno di volare nello spazio le suggeriva di diventare piuttosto infermiera. “Anche quella è scienza”, le diceva con aria mesta. Per fortuna Maggie non le ha dato retta e, grazie alla sua determinazione, è riuscita comunque a diplomarsi con il massimo dei voti in tutte le materie scientifiche.
Maggie oggi non fa l’astronauta, ma l’ingegnere aerospaziale. In pratica progetta gli strumenti di osservazione che permettono ai satelliti di raccogliere i dati, sul clima o sulla composizione dell’atmosfera, che provengono dallo spazio. È un lavoro creativo, stimolante, che la riempie di soddisfazione. È anche la dimostrazione che quando uno fa ottimi studi, anche se non realizza esattamente il proprio desiderio d’infanzia, trova comunque molte strade aperte e interessanti davanti a sé. Nel poco tempo libero, Maggie va nelle scuole, a incoraggiare i sogni dei bambini verso percorsi poco battuti ma promettenti, come il suo.
Una storia altrettanto improbabile è quella di Carol Robinson, la prima donna a essere diventata professoressa di chimica nelle università di Oxford e Cambridge. Carol ha smesso di andare a scuola a 16 anni, quando suo padre ha perso il lavoro, ed è entrata come tecnica di laboratorio in un’industria farmaceutica. Lì ha lavorato sodo e ha mostrato un tale interesse per quello che faceva, che i suoi superiori l’hanno incoraggiata a riprendere gli studi. Dopo sette anni di scuola part-time e un master all’università del Galles, ha vinto un dottorato a Cambridge. Da allora, oltre ad allevare tre figli, Carol Robinson è anche diventata una chimica molto autorevole, grazie ai metodi innovativi che ha sviluppato per analizzare la struttura delle proteine. La professoressa Robinson è anche la dimostrazione vivente che famiglia e professione non sono affatto esclusivi.
“Niente nella vita è da temere, bisogna soltanto capire”. Con questa citazione di Marie Curie, Carol Robinson cerca di ispirare le ragazze che incontra nelle scuole. Sebbene Marie Curie sia un esempio un po’ datato (un quarto dei quattordicenni inglesi la confonde con Mariah Carey), la sua vita è stata un modello di determinazione e tenacia per la Robinson. Cresciuta a Varsavia, Maria Skłodowska (questo era il nome da nubile della Curie) aveva infatti studiato chimica da autodidatta e mantenuto la famiglia squattrinata, lavorando come governante.
“Un sacco di soldi da spendere in scarpe” titolava un quaotidiano, quando Carol Robinson ha vinto, nel 2004, il premio Rosalind Franklin della Royal Society. Premio che la Robinson ha investito non nei tacchi alti che pure porta con piacere, ma in un programma di tutoraggio per giovani studentesse di Cambridge. (Provate a immaginare un titolo come “Finalmente un mucchio di quattrini per macchine da corsa” in occasione del premio Nobel assegnato a uno scienziato maschio appassionato di automobilismo. Surreale, no?).
Una decina di giorni fa nel mio vecchio liceo si è svolta una sfilata di moda che ha suscitato il solito dibattito inconcludente, rumoroso, equamente ripartito fra favorevoli e contrari. Personalmente non trovo nulla di male in qualche défilé a scuola, purché le modelle non siano gli unici modelli (e purché gli stilisti remunerino a dovere scuola e studentesse prestati alla passarella).
In un paese come l’Italia, in cui una donna su due non ha lavoro e non lo cerca (secondo i dati Istat, è la percentuale più bassa dei 27 paesi Ue dopo Malta), le ragazze vanno incoraggiate a studiare e a cercarsi (o a inventarsi) un lavoro che sia motivante nel tempo. Un lavoro che non piace o che non è adatto è, a mio avviso, il primo motivo di abbandono dell’occupazione appena arrivano i figli. Ben più della carenza di asili o di certezze contrattuali (che pure sono problemi, ma sono anche trappole mentali).
Anche in Italia ci sono molte donne che ce l'hanno fatta. Mi vengono in mente Ilaria Capua (che ha appena vinto il premio Penn Vet World Leadership in Animal Health. Brava Ilaria!), Elena Cattaneo, Samantha Cristoforetti, solo a volerne citare tre. Non sono superwomen: hanno solo studiato e lavorato tanto. Persone come loro, se invitate a parlare nelle scuole, possono aprire squarci su mondi promettenti che le ragazze non immaginano. Ma possono soprattutto convincere le ragazze a provarci sul serio e a non mollare mai.
Mi raccomando, la prossima volta che vi viene la tentazione di smorzare un sogno, pensateci due volte. Soprattutto se è il sogno, bellissimo e difficile, di una ragazza motivata, che ha soprattutto bisogno di indirizzo e di incoraggiamento, e non di deviazioni motivate dal timore di non riuscire.
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