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Il padrino e il DNA

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Un mafioso in fuga dalla giustizia può scomparire per decenni, farsi ridisegnare i connotati da un abile chirurgo plastico e bruciarsi i polpastrelli per distruggere le impronte digitali. Può girare con baffi finti, parrucca, occhiali neri, cappello e farsi credere morto. Pur di sparire può fare (quasi) ogni cosa tranne una: cambiarsi il DNA.

Bernardo Provenzano non fa eccezione e la storia della sua cattura, che comincia a Marsiglia, è esemplare. Secondo la dichiarazione di un pentito, raccolta nel 2005, Bernardo Provenzano si era recato nella città francese, sotto falso nome, nel 2002 per curare un tumore alla prostata. Fino a quel momento l’unica cosa che la polizia aveva in mano sul boss dei corleonesi è questa foto segnaletica del 1959:
 
 

 
Nel 2005 gli inquirenti setacciano gli ospedali marsigliesi. In uno di questi la polizia trova i segni del passaggio di un certo Gaspare Troia, di cui non risulta il ricovero. Dell'individuo resta però qualche campione biologico. Piero Grasso, allora a capo della Procura della Repubblica di Palermo, chiede a Giuseppe Novelli, professore di genetica medica all’Università di Roma Tor Vergata, di aiutarlo a identificare Provenzano. A partire da quelle esili tracce Novelli estrae il DNA e ottiene un profilo del DNA mitocondriale e del cromosoma Y. Quindi paragona questo profilo di DNA con quello del fratello di Provenzano, ottenuto da campioni conservati nell’ospedale di Palermo dove il fratello del boss si era sottoposto a un’operazione chirurgica. Il DNA mitocondriale si eredita solo dalla mamma, quello del cromosoma Y solo dal papà: ammesso che la mamma non abbia commesso infedeltà, due fratelli dovrebbero avere profili molto simili. In effetti i due profili mostrano una parentela molto stretta, compatibile con la fratellanza. La traccia è quella giusta. Dunque è probabile che Provenzano sia ancora vivo, nascosto da qualche parte.
 
Nell’aprile 2006 un ricambio di biancheria spedito dalla moglie porta alla cattura del capo di Cosa Nostra in un casale isolato, a pochi chilometri da Corleone, suo paese natale. Ma come avere la certezza che quel vecchietto sia davvero Provenzano? Nel rifugio Paola Di Simone, allora a capo della Scientifica di Palermo, raccoglie campioni di saliva dalla dentiera e dai bicchieri, e qualche pelo dal rasoio elettrico del boss (evitare di spargere il proprio DNA come il prezzemolo è un’altra cosa che non riesce neppure ai mafiosi). Il DNA recuperato nel casale coincide con quello trovato a Marsiglia e con quello del fratello del boss. Provenzano è identificato senza ambiguità.
 
Bernardo Provenzano, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto camuffare il DNA che si trova nel suo sangue, nei peli della sua barba, nella sua saliva, né quello di suo fratello. La sua cattura, avvenuta nell’aprile 2006 dopo quarant'anni di latitanza, forse non sarebbe stata possibile se non fosse per quei frustoli di materiale genetico che gli investigatori hanno inseguito per anni in Europa. Soprattutto Provenzano non sarebbe forse mai finito nelle mani della giustizia se un certo Kary Mullis non avesse inventato la Polymerase Chain Reaction (PCR), una tecnica che permette di ricavare in vitro grandi quantità di DNA a partire da tracce quasi inconsistenti.
 
L’idea della PCR è piuttosto semplice. Un frammento di DNA a doppia elica è immerso in una soluzione insieme ai «mattoni da costruzione» del DNA (i cosiddetti nucleotidi), la polimerasi (l’enzima che fa partire la reazione di assemblaggio del DNA) e alcune molecole (chiamate primer) che, essendo complementari ai due estremi del frammento, vi si attaccano quando le due eliche si separano, permettendo l’inizio della reazione. La reazione è di quelle a catena: attraverso cicli di riscaldamento e raffreddamento successivi, governati da una semplice macchinetta che funziona da termostato (nella foto), le due eliche si separano e si riavvolgono, e a ogni ciclo ciascun frammento di DNA si duplica. Al termine della reazione, che dura poche ore, la quantità di DNA di partenza risulta amplificata di diversi ordini di grandezza. Per l’invenzione della PCR Kary Mullis ha meritato il premio Nobel per la chimica nel 1993.
 
 
I biologi adorano la PCR almeno quanto le donne amano la lavatrice: ha liberato le loro mani da un tedioso lavoro meccanico, a contatto con batteri umidicci e puzzolenti (le creature dalla cui riproduzione forsennata si otteneva l'amplificazione del DNA in vivo); ha accelerato il ritmo delle loro scoperte; ha liberato tempo per attività più creative. Fra queste, The PCR song, la canzone-parodia che un gruppo di ricercatori ha dedicato a questa tecnologia:

 
Gli «Scienziati per una migliore PCR», questo il nome d'arte del gruppo di bio-cantanti, hanno come sponsor uno fra i maggiori produttori di macchine e reagenti per PCR (la presenza dello sponsor non mi è sembrata una ragione per escludere The PCR song da questo post, spero che condividiate la scelta).
 
Per chi volesse cimentarsi con le parole (di Tyler Kay, come pure la musica) eccole qua:
 
There was a time when to amplify DNA,
You had to grow tons and tons of tiny cells.
Then along came a guy named Dr. Kary Mullis,
Said you can amplify in vitro just as well.
 
Just mix your template with a buffer and some primers,
Nucleotides and polymerases, too.
Denaturing, annealing and extending.
Well, it’s amazing what heating and cooling and heating will do.
 
PCR, when you need to detect mutations.
PCR, when you need to recombine.
PCR, when you need to find out who the daddy is.
PCR, when you need to solve a crime
 
********
 
La storia del profilo del DNA di Bernardo Provenzano, che sta dietro alla cattura del boss, è stata pubblicata su Nature:
http://www.nature.com/nature/journal/v445/n7130/full/445811a.html

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