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Biologia e dintorni

Il seme frustrante ed elusivo del cancro

Non tutti credono alle cellule staminali del cancro. Ma una sessantina di studi clinici in corso stanno cercando di provare la teoria e validare, si spera, qualche farmaco.
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Se la pianta non fosse il tumore, sarebbe anche una bella analogia. Le cellule staminali del cancro sono quiete e tenaci come i semi. E come i semi, si dividono raramente. Resistono a radio- e chemioterapia, e per questo sono la riserva del tumore: a distanza di mesi o perfino anni dai trattamenti, a volte ripartono, si dividono, ridanno vita e corpo a un cancro che sembrava scomparso. A loro sono dovute le ricadute tardive che scoraggiano pazienti, medici, ricercatori? È possibile. La teoria è degli anni Novanta e viene dall’Università di Toronto. Lì John Dick, un biologo che studiava le cellule staminali, aveva individuato delle cellule molto rare nel sangue di alcuni malati di leucemia. Secondo Dick quelle cellule erano delle versioni un po’ balorde delle staminali normali, la riserva che rimpiazza le cellule più vecchiette e moribonde del sangue.
John Dick, professore all'Università di Toronto, ha scoperto le cellule staminali del cancro (OICR).
Quelle staminali un po’ balorde si rinnovavano da sole, proprio come quelle normali, tramite una divisione asimmetrica. Da ogni divisione saltavano fuori due cellule, una staminale del cancro e una tumorale normale. Un’altra somiglianza è che avevano in superficie delle proteine con cui si potevano distinguere dalle altre cellule. Dopo la scoperta di Dick, altre staminali del cancro sono state trovate in tanti tipi di tumore, anche solidi (nel cancro della mammella, del colon, del cervello e del pancreas). Sarebbero l’1-3% delle cellule di ogni tumore solido. Il condizionale è d'obbligo perché non tutti sono convinti che siano una categoria separata e identificabile di cellule del cancro. Comunque, se ci sono, sono pochissime, il che rende difficile dar loro la caccia. La ragione della resistenza alle cure? La maggioranza dei farmaci colpisce cellule che si dividono rapidamente, mentre le staminali del cancro crescono con lentezza.

Il tumore è formato da una massa di cellule eterogenee, e fra queste le staminali del cancro sono un'infima minoranza (da D. Hanahan, R. Weinberg, Hallmarks of Cancer: The Next Generation, Cell, vol. 144, p646–674, 4 March 2011)

Colpisci le staminali del cancro, e non le altre cellule del tumore, e la malattia rimarrà sotto controllo. Fra i più convinti sostenitori di quest’ipotesi c’è Robert Weinberg. Piccola parentesi su Bob Weinberg. Le sue bandierine sono piantate sul primo oncogene, Ras, e sulla sua prima antitesi, l’oncosoppressore Rb. Il tempo era la preistoria della ricerca oncologica; lo spazio, alcune provincie malandate e reticenti del corpo umano.

Robert Weinberg (Kathleen Dooher/Whitehead Institute)

Altre bandierine hanno riempito, in quarant’anni, i picchi, le valli, le pianure di quel territorio ostile. Strade, semafori, crocevia, la geografia, soprattutto genetica, si è popolata e la mappa ha oggi una definizione decente. Per chi ne vuole un assaggio, non c’è miglior racconto di The biology of cancer, un distillato dell’inesauribile, misurato sapere di Weinberg. E per chi teme 800 pagine che si leggono quasi come un romanzo, c’è un denso bigino, seppure più ostico, negli Hallmarks of cancer (sul sito dell’AIRC ne trovate una versione semplificata che avevo curato anni fa). Tutte quelle belle mappe di geni, quanto hanno giovato ai pazienti? Un po’, non abbastanza, meno di quel che si sperava. L’imatinib, il primo farmaco mirato al difetto genetico che causa un raro tipo di leucemia, è la felice eccezione, insieme ad alcune cure per il tumore al seno e a un recentissimo farmaco per una particolare forma di melanoma. Il problema della maggior parte dei rimedi mirati, e della loro limitata efficacia, è che chiudono sì un crocevia della cellula tumorale. Ma nel giro di qualche settimana, al più qualche mese, decine di strade collegate si aprono, e il posto di blocco è aggirato. Una via ancora altrettanto impervia e avventurosa è quella che dà la caccia, appunto, ai semi che formano la riserva del tumore. Weinberg e la sua università, il MIT di Cambridge, vicino a Boston, sono ottimisti: nella Verastem Inc. , uno spin-off dell’università che sta testando farmaci anti-staminali del cancro, hanno investito 200 milioni di dollari. Più di 60 sperimentazioni sono in corso: che cosa salterà fuori dalle prove nell’uomo? È presto per dirlo, ma c’è qualche cauta anteprima. Innanzitutto i risultati saranno diversi da quelli che si ottengono con una chemioterapia tradizionale. Se infatti una chemioterapia elimina la maggior parte delle cellule del tumore, tranne le staminali del cancro, qui dovrebbe accadere l’opposto: le tante cellule tumorali, poco pericolose, dovrebbero rimanere. Senza però quella piccola riserva di cellule capaci di rigenerare l’intero tumore.

Secondo la teoria delle cellule staminali del cancro, la chemioterapia uccide la massa delle cellule tumorali, quelle che si dividono spesso, ma lascia intatte poche, rare cellule staminali tumorali (a sinistra). Queste cellule sarebbero la riserva da cui può ripartire il tumore. Uccidere le cellule staminali del cancro potrebbe quindi portare a una regressione del tumore nel tempo (al centro) , ma combinando un farmaco contro le cellule staminali del cancro con la chemioterapia potrebbe produrre un effetto più velocemente (a destra). Figura tratta da Jocelyn Kaiser, The cancer stem gamble, Science, 16 gennaio 2015

Come capire se tutte le cellule staminali del cancro saranno eliminate? Non sarà facile, specie nei tumori solidi, dove a differenza dei tumori del sangue non c’è sempre un modo per misurare quali e quante sono. La biologia moderna decide che una cellula è diversa da un’altra se sulla superficie c’è una molecola che spicca. La molecola è un po’ come un etichetta, che può essere riconosciuta da un anticorpo specifico. C’è per esempio una macchinetta, il citofluorimetro, che permette di separare anche soltanto una o più cellule che hanno una particolare etichetta, in una miscela di milioni di cellule (ne avevo scritto qui). Ci si può fidare delle etichette delle staminali del cancro? I biologi, che chiamano le etichette «marcatori», ci contano, ma a volte restano delusi, quando trovano gli stessi marcatori su cellule diverse. È che i marcatori sono sempre più promiscui di come uno li vorrebbe. O c'è il fatto che le cellule hanno tante differenze e tante somiglianze. Malgrado i problemi, negli ultimi 5-10 anni il National Cancer Institute americano e parecchie aziende hanno avviato piccoli studi clinici, sulla sicurezza di alcuni farmaci mirati contro alcune molecole attive nelle staminali tumorali. Si tratta dei geni Sonic hedgehog e dalla famiglia dei geni Notch. Le primissime sperimentazioni non hanno dato i risultati sperati, per seri effetti collaterali, dovuti verosimilmente a danni alle cellule staminali normali. Abbiamo detto che di quelle cellule, le staminali tumorali sono una versione balorda, con molte somiglianze. Un’altra somiglianza sono proprio questi geni, attivi in entrambi i tipi di cellule. Il problema andava però oltre gli effetti collaterali: anche quando si è tentato di controllarli, l’efficacia è sembrata limitata. Il solo inibitore di hedgehog che è arrivato in clinica è il vismodegib, approvato per la cura del basalioma, il più comune tumore della pelle. Qui hedgehog, e il crocevia di molecole che controlla, vanno a pallino in tutte le cellule maligne. Il farmaco agisce quindi su tutte le cellule del tumore. Come si fa allora a sapere se il bersaglio sono le poche staminali tumorali, o tutte le cellule del basalioma? Altre sperimentazioni cliniche contro le staminali del cancro sono in corso. Abbiamo detto che sono una sessantina circa, la maggior parte per valutare la sicurezza, ma alcune stanno già provando l’efficacia. Il tarextumab è fra quelli per cui c’è più attesa: è un anticorpo monoclonale diretto contro alcune proteine del circuito di segnali di Notch che è stato provato in 29 pazienti con tumore del pancreas, una malattia in cui la chemioterapia non è molto efficace. L’89% dei pazienti ha risposto, e il tumore ha smesso di crescere o è diminuito di dimensioni per periodi da 8 mesi a un anno. Il risultato è incoraggiante, ma bisogna vedere se si confermerà in un gruppo più grande di pazienti. In quanto al meccanismo d’azione, Il tarextumab non uccide le staminali del tumore, ma le stimola a differenziarsi in cellule tumorali normali, più sensibili alla chemioterapia. La Verastem di Weinberg ha un’altra strategia: cercare farmaci già approvati, o altri composti, in grado di bloccare la cosiddetta focal adhesion kinase (FAK), un enzima che aiuta le cellule tumorali ad aderire le une alle altre, e le staminali del cancro a sopravvivere. Weinberg ritiene che bloccando FAK le staminali del cancro muoiano, ma per ora il primo farmaco candidato, un antibiotico usato negli allevamenti, non ha raggiunto la clinica. Reparixin è un altro farmaco, sviluppato inizialmente dall’italiana Dompé contro il rigetto da trapianto. Attualmente è in test in uno studio clinico di fase 2, perché il composto sembra uccidere le cellule staminali del cancro bloccando un recettore che stimola la crescita in risposta all’infiammazione. Ma su farmaci e teoria ci sono anche dubbi profondi. I tumori hanno molti modi, oltre alla tenacia delle staminali del cancro, per resistere alla chemioterapia. L’opinione è di William Kaelin, direttore associato del dipartimento di scienza di base presso il Dana-Farber Cancer Institute della Harvard Medical School. Un’altra incertezza è che le cellule sono entità dinamiche che continuano a cambiare, e a volte le cellule tumorali normali “regrediscono” a staminali del cancro. Per provare sia la teoria, sia l’efficacia dei farmaci bisognerebbe testare i composti da soli, e non in combinazione con i chemioterapici. La voce è di Irving Weissman, biologo della Stanford University di Palo Alto, in California. Ma dare ai pazienti soltanto questi tipi di farmaci è poco pratico, perché le cellule staminali del cancro si dividono raramente, e quindi gli effetti da osservare potrebbero essere lenti. Allora, come si può capire se un farmaco contro le staminali del cancro funziona per davvero? Si dovrebbe vedere una riduzione di queste cellule all’interno del tumore. Ma contare nel tempo quante cellule staminali tumorali ci sono in un cancro non è facile. Bisognerebbe chiedere ai medici e ai pazienti una serie di biopsie, i prelievi di tessuto che, a seconda di dove si trova il tumore, possono anche richiedere un’operazione. Insomma, una faccenda non molto pratica. Ammesso che la serie di biopsie sia fattibile, come si fa a stabilire se ci sono ancora cellule capaci di far ripartire il tumore? La prova del nove sarebbe questa: isolare le eventuali cellule staminali del cancro ancora presenti. Quindi iniettare le cellule, a varie dosi, in topini dal sistema immunitario compromesso che evitano il rigetto. Se nei topini non si formano tumori, potrebbe voler dire che le staminali del cancro sono state indebolite al punto da diventare innocue; o viceversa. Sarà pure la prova del nove, ma è una verifica lunga, costosa, poco adatta alla pratica clinica. Altre strade cercano tracce, delle eventuali cellule staminali del cancro residue, con i famosi marcatori, fra i geni espressi dal tumore nelle biopsie, o fra le cellule che circolano nel sangue. Il successo non è dunque dietro l’angolo, e non sarà mai per tutti i tipi di tumore. Ma è possibile che dalle sperimentazioni salti fuori qualche terapia, efficace almeno in qualche gruppetto di pazienti che avranno la fortuna di avere il marcatore giusto. E Una certezza è che impareremo un mucchio di cose su queste cellule, frustranti ed elusive almeno quanto la malattia che sembrano capaci di rinnovare. Per scrivere questo post ho letto l’ottimo articolo di Jocelyn Kaiser, The cancer stem gamble, pubblicato su Science il 16 gennaio 2015.
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