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La banana e l'iPhone

Le biotecnologie tradizionali sono una vera alternativa agli OGM? E sono sostenibili? Probabilmente no, come risulta evidente dal caso della banana che potrebbe presto sparire dalle nostre tavole.
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Immaginate che qualcuno apra oggi un centro di ricerca per lo sviluppo dei telefoni a rotella, con l’idea di creare apparecchi meccanici, alternativi all'elettronica degli iPhone o dei Blackberry. Forse pensereste che è un’idea un po’ bizzarra e parecchio fuori tempo, visto che tutti vogliono un iPhone e nessuno si compra un telefono a rotella. Altrettanto bizzarra e fuori tempo mi è sembrata l’idea di fondare GenEticaMente, il centro di ricerca per le biotecnologie sostenibili e alternative agli organismi geneticamente modificati, inaugurato pochi giorni fa da Mario Capanna. Soprattutto non credo che si tratti di tecnologie che offrono una vera alternativa ai famigerati OGM, né che siano sostenibili. Per spiegarvi il mio punto di vista vi chiedo di seguirmi brevemente su un caso concreto che riguarda la banana.

Mangeremo ancora banane?
La prossima volta che andate al supermercato fate attenzione alle etichette. Cavendish è l’unico nome che vedrete appiccicato a tutte le banane di cui vi potete nutrire. Troverete la Cavendish ovunque in Europa, in America, in Asia, in Australia, dal momento che questa varietà alimenta il 99% del mercato da esportazione delle banane, provenienti soprattutto dal Sud America (il nome ricorda l’esploratore inglese che la scoprì nell’800 in un orto della Cina meridionale) .
 
Perché un’unica varietà? La stragrande maggioranza delle banane non è adatta al commercio internazionale: o i caschi sono troppo piccoli o la buccia è troppo sottile o la polpa è insipida o si può mangiare solo cotta. La Cavendish è sostanzialmente l’unica banana dal sapore gradevole che può essere trasportata per mesi attraverso gli oceani senza che la buccia si ammacchi o che il frutto maturi troppo presto. Nel 2008 gli americani hanno mangiato 7,6 miliardi di banane Cavendish; non ho trovato l’equivalente dato europeo, ma immagino che non siamo troppo distanti. .La banana però non è un alimento soltanto per i “ricchi e grassi”: è importantissimo soprattutto per le popolazioni di un’infinità di paesi poveri, perché costa poco, si conserva a lungo ed è assai nutriente.
 
Peccato che la banana Cavendish potrebbe estinguersi nel giro di una decina d’anni a causa della malattia di Panama. Detta anche “l’HIV delle banane”, l’infezione è causata da un fungo del genere Fusarium che ha raso al suolo le piantagioni dell’Asia e di recente ha invaso anche l’Australia. Il Tropical Race 4 (questo il nome dell’agguerrito ceppo del fungo, abbreviato in TR4) è ben  conosciuto dai bananieri, dal momento che un suo parente stretto, il TR1, ha sterminato negli anni Cinquanta la deliziosa banana Gros Michel, la varietà più diffusa al mondo fino a quel momento. Il TR4 non ha ancora raggiunto l’America, ma gli esperti ritengono che sia solo questione di tempo (le spore dei funghi viaggiano facilmente, trasportate sulle suole delle scarpe, sui vestiti o sugli strumenti agricoli). E contro la malattia di Panama non esiste oggi alcun farmaco, pesticida o vaccino efficace: l’unica difesa possibile è la resistenza genetica.
 
OGM o metodi tradizionali per salvare la banana?
I tentativi di sostituire la varietà Cavendish attraverso i metodi di incrocio tradizionale sono finora falliti. La Chiquita ha sostenuto per 40 anni programmi di ibridazione convenzionale, fra cui quello della Fundación Hondureña de Investigación Agrícola, fra i migliori centri di ricerca del settore, ma nessun nuovo ibrido è emerso da questi tentativi, nonostante i molti quattrini spesi. E non si può dire che la Chiquita non avesse un interesse forte a proteggere il frutto giallo!
 
Perché l’ibridazione tradizionale è così difficile? Per spiegarvelo devo fare una breve digressione su come si riproducono le banane. Avrete forse notato che le banane sono prive di semi: in effetti le piante sono sterili e si riproducono in maniera asessuata. Ciò dipende dal fatto che le banane sono triploidi (hanno tre copie per ciascun cromosoma). Le varietà coltivate triploidi si sono originate probabilmente migliaia di anni fa, da un incrocio casuale fra due piante selvatiche diploidi (ossia con due copie per ogni cromosoma).
 
Per ottenere una nuova varietà ibrida che abbia il tratto desiderato, la resistenza al fungo, occorre rifare l’esperimento preistorico: prendere due banane selvatiche, tentare l’incrocio a partire dai semi e sperare che funzioni. Peccato che i semi adatti all’ibridazione si trovino soltanto in una banana ogni 10.000. E gli embrioni funzionanti sono ancora più rari. Ammettiamo pure che, contro ogni probabilità, si riesca a ottenere un ibrido con la qualità desiderata, la resistenza al fungo: sarà l’unico nuovo carattere presente nella nuova banana? Certamente no. Purtroppo l’ibridazione non è un metodo selettivo, che permette di decidere che parte del patrimonio genetico delle due banane originali far entrare o meno nella nuova pianta. Per questo è certo che una carrettata di molti altri caratteri, alcuni desiderabili, altri meno, saranno presenti nel nuovo ibrido, rendendolo probabilmente inutilizzabile. Secondo alcuni osservatori potrebbe occorrere più di un secolo per avere successo con questa tecnica.
 
Fare oggi una banana ibrida è un po’ come cercare di produrre oggi unun telefono a rotella, sperando che possa funzionare anche un po' come un iPhone. Potrebbe essere un hobby da amatori, non certo una tecnica efficace per risolvere un grosso problema che riguarda miliardi di persone. Oggi ci sono metodi più veloci e sicuri, che permettono di produrre piante migliori rispetto agli ibridi: piante di cui si possono progettare le qualità che desideriamo, come la resistenza al TR4, senza portarsi dietro caratteri che uno non vuole. A risolvere il problema della banana sta lavorando fra gli altri James Dale, professore alla Queensland University of Technology. Sostenuto dalla Fondazione Gates, Dale ha già prodotto una Cavendish transgenica nel 1994. Nel DNA della pianta, una varietà coltivata in Uganda, era stato introdotto un gene in grado di incrementare il contenuto di pro-vitamina A (per saperne di più sui problemi della coltivazione della banana in Uganda potete leggere questo articolo interessante di David Ewing Duncan pubblicato sull’edizione italiana di Technology Review).
 
L’esperimento di modificazione genetica è complesso ma fattibile. Da piante di banana, sterilizzate per eliminare la contaminazione col TR4, si estraggono alcune cellule e le si mette a crescere in coltura. Meno del 5% delle cellule sopravvive, ma quelle che ce la fanno sono sottoposte a trasformazione genica, attraverso l’infezione con un batterio innocuo, capace di integrare parte del proprio DNA in quello della banana. Nel DNA del batterio i ricercatori hanno precedentemente introdotto il gene desiderato al posto di alcuni geni batterici. Una volta avvenuta la trasformazione, il batterio è eliminato con un antibiotico. A questo punto la cellula di banana in cui si è inserito il gene desiderato viene fatta crescere fino a diventare una pianta di banano. L’unica differenza rispetto alla pianta originale sarà la resistenza al fungo. Questa pianta ha in sé tanta conoscenza quanta ce ne può essere in un iPhone, senza i limiti di un telefono a rotella.
 
Per saperne di più sulla malattia di panama che colpisce la banana Cavendish, guardate questo video:

La tradizione non è un’alternativa sostenibile
Sulla presunta pericolosità e altri ipotetici problemi degli OGM si è detto e scritto fin troppo; io posso solo invitarvi a scorrere rapidamente i 28 miti da sfatare contenuti nel libro di Dario Bressanini, OGM fra leggende e realtà (e se vi appassionate, leggete tutto il libretto: ne vale la pena). Il punto che più mi preme trasmettervi in questo post è il tema della presunta sostenibilità degli ibridi tradizionali. Come si può dire sostenibile una tecnologia che, se produce risultati, lo fa su una scala temporale di un secolo? Voi obietterete: “Ma il caso della banana è unico; con le altre piante è diverso”. Purtroppo non è così. Grazie all’ostinazione contro gli OGM ci siamo già persi il pomodoro San Marzano, perseguitato da almeno due virus; vogliamo provare a salvare il riso Carnaroli, il vitigno Nero d’Avola e altri cibi tipici minacciati? Molte specie coltivate hanno configurazioni genetiche simili alla banana e fare incroci è estremamente complesso, laborioso e improduttivo; i tempi sono lunghissimi, i costi pure e i risultati spesso non si vedono. Senza considerare il problema della mano d’opera. Quale giovane mente brillante ha oggi voglia di dedicarsi a lavori tediosi, su cui le tecniche e la ricerca sono ferme al secolo scorso? Un agricoltore del Missouri, Blake Hurst, ha scritto: “Sono stufo delle persone che chiedono ad agricoltori come me di usare la tecnologia degli anni Trenta per coltivare le piante alimentari, ma che non si farebbero mai visitare da un medico che usasse uno stetoscopio al posto della risonanza magnetica”.
 
Noi italiani abbiamo abbracciato con entusiasmo ogni nuovo telefonino che è comparso sul mercato, senza neppure chiederci che rischi comportasse. I vantaggi della telefonia mobile ci sono parsi fin dall’inizio superiori ai possibili svantaggi. E il telefono a rotella è scomparso senza neppure un lamento. Perché sugli alimenti geneticamente modificati non abbiamo applicato lo stesso criterio? E perché non ci domandiamo che conseguenze hanno le nostre scelte?
 
La scienziata keniota Florence Wambugu ha detto: “Voi occidentali siete certamente liberi di dibattere i meriti dei cibi geneticamente modificati, ma prima di tutto noi possiamo mangiare?” Se non accettiamo di comprare un’innocua banana OGM, l’unico risultato che otterremo con le cosiddette biotecnologie tradizionali sarà di lasciare milioni di affamati senza banane e milioni di disoccupati nelle ex piantagioni. Senza parlare delle nostre tavole, presto sguarnite di frutti gialli.
 
La prossima volta che mangiate una banana pensate all’iPhone e al telefono a rotella.
 
Per scrivere questo post ho consultato varie fonti oltre al libro di Dario Bressanini che ho già citato nel testo. Sulla vicenda della banana mi sono ispirata al reportage di Mike Peed, We have no bananas, pubblicato sul New Yorker del 10 gennaio 2011 (il video riportato nel testo è di Mike Peed). Le citazioni di Black Hurst e Florence Wambugu si trovano nel libro di Matt Ridley, The Rational Optimist (Fourth Estate, London 2010), rispettivamente a p. 152 e 154. L’immagine della piantagione di banane è di Luc Viatour ed è tratta da Wikipedia Commons, mentre l’immagine della banana e dell’iPhone è una mia composizione.

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