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La grotta dei sogni dimenticati

Un viaggio nell'arte di 30.000 anni fa, fra i dipinti di cavalli, rinoceronti, leoni e pantere più antichi che conosciamo. La guida dentro la grotta Chauvet è Werner Herzog, un regista immaginifico che racconta questa storia con il suo stile inconfondibile.
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Nel 1994 tre speleologi, Eliette Brunel-Deschamps, Christian Hillaire e Jean-Marie Chauvet, hanno scoperto una grotta nel Sud della Francia che era rimasta sigillata per 20.000 anni circa. Dentro la grotta, che oggi si chiama Chauvet, gli esploratori hanno trovato pitture umane di 32.000 anni fa. I dipinti, di una bellezza mozzafiato, sono i più antichi che conosciamo e per conservarli il governo francese ha vietato, subito dopo la scoperta, l’accesso al pubblico. Solo un piccolo numero di archeologi, paleontologi e altri scienziati può entrare ogni anno per brevi periodi di studio (anche le grotte di Lascaux non sono più accessibili: purtroppo le orde di turisti compromettono la conservazione di questi ambienti fragili).

Werner Herzog è un regista tedesco famoso per film impossibili da girare: storie stranissime ambientate in luoghi remoti, raccontate con uno stile unico e inconfondibile (non tutti lo amano, io sì). Dopo aver saputo per caso da un articolo del New York Times della scoperta della grotta Chauvet, Herzog ha chiesto al governo francese il permesso di filmare l’interno.
 
Werner Herzog durante le riprese sulla riva dell'Ardèche
 
Aspettavo di vedere il film da due anni. Volevo guardare questo regalo meraviglioso, che i nostri antenati ci hanno lasciato, e volevo che me lo raccontassero le immagini e la voce di Werner Herzog. L’anno scorso ho trovato un illustre compagno d’attesa in Morando Morandini, che mi ha confidato di avere inserito nel suo dizionario una scheda del film prima di averlo potuto vedere, nella speranza che qualche distributore prendesse nota.
 
Onore dunque alla Cineteca italiana di Milano, che ha proiettato la Grotta dei sogni dimenticati in due versioni: in 2D nella sala di piazza Oberdan e in 3D nell’Area Metropolis di Paderno Dugnano (io ho trascinato la famiglia in gita a Paderno). So di altri circoli naturalistici e cinematografici in Italia che hanno già proiettato il film nei mesi scorsi: onore anche a tutti questi valorosi.
 
Anche se vi raccontassi ogni fotogramma del film non vi toglierei alcuna sorpresa, perché le immagini sono di una bellezza inimmaginabile. L’ambiente è quello del Pont D’Arc sull’Ardèche, un foro nella roccia sopra un fiume che già di per sé è uno dei posti più belli al mondo. Herzog dice che potrebbe essere il “paesaggio di un’opera di Wagner”. Per quanto adori la sua musica, il maestro non aveva sempre ottimo gusto, mentre questo è un posto superbo.
 
Il Pont d'Arc sull'Ardéche, vicino alla grotta Chauvet
 
La troupe entra nella grotta da una porticina stretta, dietro a Jean Clottes, l’autorevole direttore degli studi su Chauvet. L’apertura scoperta dagli speleologi era una piccola fenditura, mentre nel Paleolitico c’era un grande ingresso che si riconosce nella prima sala. Una frana lo ha sigillato 20.000 anni fa circa, con un cataclisma provvidenziale che ha mantenuto l’interno intatto fino a oggi.
 
Tramite una scansione laser della grotta gli scienziati hanno ricostruito una mappa digitale in tre dimensioni. Con sintesi invidiabile Herzog dice che la mappa è uno “strumento per narrare la storia”. Sulla base di questa ricostruzione c’è un piano per costruire una replica esatta della grotta, accessibile al pubblico, a pochi km di distanza dall’originale (il mio pensiero all’idea è andato al Venetian di Macao, ma forse i francesi faranno una cosa bellissima).
 
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Un'immagine della scansione laser della grotta Chauvet,
tratta da un fotogramma del film.

Il pavimento è un campionario di ossa preistoriche: lupi, stambecchi, iene delle caverne, aquile. Del resto le foreste del tempo erano affollate da grandi carnivori, dai predatori e dalle loro prede, come i rinoceronti, i mammut, i leoni, i cavalli, le antilopi, le volpi, i lupi. Moltissimi i teschi dell’orso speleo, alcuni rivestiti di calcite. “Sembrano di porcellana” ha commentato qualcuno. In effetti sembrano proprio opere d’arte naturale (e mi sono parse infinitamente più raffinate di quel mostruoso teschio incastonato di diamanti che va tanto di moda). Molte ossa sono rosicchiate e non ci sono resti umani: il segno che gli uomini sono entrati più volte nella grotta per dipingere, forse per compiere dei riti, mai per viverci.
 
Ovunque luccicano cascate di cristalli, drappeggi di travertino, stalattiti e stalagmiti: formazioni che i nostri antenati non si sono godute, visto che sono cresciute nelle migliaia di anni passate dalla chiusura della grotta a oggi.
 
I dipinti si trovano in profondità, su pareti buie anche quando la grotta era accessibile dall’esterno. Sono disegni degli stessi animali preistorici di cui si sono ritrovate le ossa. Ci sono cavalli con la bocca aperta, che “sembra di sentir nitrire”; una lotta di rinoceronti, che “sembra di sentire il rumore delle corna”; il corteggiamento di un leone verso una leonessa ritrosa, “che sembra che ringhi”. C’è anche una pantera, unica riproduzione paleolitica di questo animale.
 
Sono figure in movimento: per Herzog il bisonte con otto gambe è “protocinema” o “il fotogramma di un’animazione”, mentre le pareti ondulate con cui gli artisti giocavano contribuiscono agli effetti speciali (e il 3D è impagabile per evidenziare questo senso di profondità).
 
Erano le prede dei nostri antenati, il loro cibo e i loro vestiti. Non astrazioni, ma bestie essenziali alla loro sopravvivenza, di cui i nostri “nonni” avevano una conoscenza intima: ne sapevano leggere e riprodurre l’anatomia come noi sappiamo leggere e scrivere le lettere dell’alfabeto. Del resto Stanislas Dehaene e Laurent Cohen hanno dimostrato che i nostri neuroni della lettura si sono “riciclati” nell’evoluzione da neuroni usati per “leggere” oggetti presenti nel paesaggio, come sassi, pezzi di piante e di animali. Da analfabeta totale di un mondo naturale depauperato, in cui non ho mai vissuto, so che non saprei mai disegnare con precisione neppure un cavallo. Per non parlare di un rinoceronte o un leone da tracciare con un sol tratto.
 
Dobbiamo immaginare queste figure nei giochi di luce e ombra che creavano le torce paleolitiche. Il gioco, vecchio come il mondo, sarebbe simile a quello di “Fred Astaire mentre balla davanti alla sua ombra” (caro Werner, ti voglio bene, ma questo paragone è forzato).
 
L’unico ritratto sapiens di tutta la grotta è una mezza femmina umana: una sorta di Venere di Willendorf dipinta dai piedi al pube. In quest’area della grotta si può stare poco, perché l’anidride carbonica che penetra dalle radici degli alberi è talmente concentrata che è tossica e il terreno è fragile. Immaginate come hanno potuto effettuare le riprese in quest’area! Eppure sono splendide.
 
Chi erano gli artisti? Di almeno uno ci sono le impronte di una mano, color rosso ematite, ripetuta tante volte come un gioco divertente. Pare che la mano fosse di un omone di circa 1,80 m di altezza, un gigante per l’epoca, riconoscibile dal mignolo storto. Su queste mani bellissime avrei voluto che il film si fermasse un po’ di più.
 
Per Herzog tutta la grotta è una “istantanea ibernata di un (lungo) frangente”. In effetti fra una pittura e l’altra passano anche 5000 anni. A volte sulle pitture ci sono graffi di orsi. Mi sono chiesta che cosa immaginassero gli orsi, vedendo quei disegni di prede e carnivori. O al buio non potevano vederli? O i disegni sono venuti dopo i graffi? Alcuni archeologi stanno analizzando le pareti a strati, per capire la cronologia dei dipinti. E Gilles Tosello è un artista che sta cercando di ricostruire come disegnavano i nostri antenati, con quei gessetti neri di carbone; bianchi di ossa macinate; rossi di ematite.
 
Com’era il mondo 30.000 anni fa? Per quel che ne sappiamo, l’Europa era coperta di ghiacci spessi quasi 3 km ed era piuttosto gelida, ma il clima freddo aveva i suoi vantaggi: era secco, assolato e la presenza di grandi distese di ghiaccio manteneva il livello dei mari assai basso (da Parigi a Londra si sarebbe potuto andare attraversando la Manica a piedi).

Il trailer del film.
 
Herzog non ha mai nascosto la sua predilezione per gli eccentrici. A lui raccontano cose sublimi. Come l’archeologo ex giocoliere Julien Monney, che “dopo aver passato cinque giorni nella grotta ha continuato a sognare i leoni e la loro potenza”. O l’archeologo Wulf Hein, vestito da Inuit, che ha suonato le note dell’inno americano con un flauto preistorico (in questo video potete vederlo in un’altra performance). O il maestro profumiere Maurice Maurin, il più sublime di tutti, che immagina le emanazioni di tutti gli animali passati dentro Chauvet e va a caccia di grotte inesplorate tramite gli odori (le tecniche più convenzionali cercano le cavità nascoste tramite eco e sfiati d’aria).
 
Una testimonianza più seria, ma non meno poetica, è quella Jean-Michel Geneste. Da bravo paleontologo, Geneste dimostra come i nostri antenati avevano saputo inventare tecnologie ingegnose, come le punte d’osso e i lancia-lance, per uccidere bestioni grandi come i bisonti. Sempre lui ci dice che i sapiens della grotta non erano soli: gli ultimi scampoli dei Neandertal, prossimi all’estinzione, erano nei dintorni.
 
Saremo mai in grado di capire come pensavano questi artisti, dopo un abisso di tempo così lungo? È possibile che avessero una concezione fluida e permeabile delle cose, senza barriere rigide fra uomini, animali, oggetti, spiriti. Ma Herzog, con il suo stupore, ci dice quanto si sente incapace di penetrare nella mente di questi uomini di 30.000 anni fa.
 
Post scriptum alla Herzog (molto discusso in rete). A pochi chilometri dalla grotta Chauvet si trova la grande centrale nucleare di Cruas, sul Rodano. Pare che i francesi usino da tempo i vapori umidi emessi dalla centrale per riscaldare una serra tropicale in cui hanno pure inserito dei coccodrilli, alcuni dei quali albini. La radioattività della centrale non è responsabile di questa mutazione: dalla ricerca che ho fatto in rete risulta che i coccodrilli siano stati importati da uno zoo della Louisiana; inoltre sembra che i coccodrilli albini nascano abbastanza di frequente, ma sopravvivano soltanto in cattività, poiché in natura sono mangiati appena nati dai predatori, che li individuano subito per il colore cospicuo.
 
Herzog mostra queste “creature che sembrano uscite da un film di fantascienza” innanzitutto perché gli piacciono e poi perché il loro sguardo, perso nelle acque torbide della serra, è per lui il nostro sguardo, vuoto e cieco, di fronte a queste opere senza tempo di cui capiamo pochissimo. In uno dei suoi salti più irrazionali, immagina che uno di questi coccodrilli (fossili viventi, presenti sulla Terra da ben 55 milioni di anni) entri un giorno nella grotta Chauvet e guardi attonito i ritratti dei suoi colleghi animali estinti da qualche millennio.
 
L’allusione al surreale ambiente riscaldato è anche un invito a pensare alla nostra eredità. Se il mondo paleolitico ci ha tramandato tracce di migliaia di anni di evoluzione, fatte di mammut, disegni, lance e flauti, quale sarà il nostro lascito?
 
La Fondazione cineteca italiana propone proiezioni della Grotta dei sogni dimenticati per le scuole sia in 2D presso il MIC – Museo Interattivo del Cinema a Milano, sia in 3D presso Area Metropolis 2.0 a Paderno Dugnano. Nell’Aula di scienze avevamo già parlato di Chauvet in questo articolo. Le foto del post provengono da Wikipedia e dal sito del film.

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