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La migliore immunità è un compromesso

Il sistema immunitario più efficace non è il più aggressivo, ma quello che sa dare la risposta più adeguata in ogni situazione, come insegnano le pecore selvatiche di St. Kilby in Scozia.
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“Dottore, mio figlio si ammala sempre. Si può fare qualcosa per rinforzargli le difese?”. Se vi capita a tiro un pediatra, chiedetegli quante volte si è sentito rivolgere questa supplica. Fra le mamme stufe di otiti, febbroni e influenze, la credenza che un’immunità più vigorosa possa fare la differenza è diffusa.

L’idea in effetti è istintiva, ma è anche in parte un mito da sfatare. Il sistema immunitario più efficace non è infatti quello più aggressivo, ma quello che sa dare la risposta più adeguata in ogni situazione. Per capire in che cosa consiste la reazione ottimale, possiamo trarre ispirazione da un gruppetto di simpatiche pecore selvatiche che abitano l’arcipelago scozzese di St. Kilda.
 
St. Kilda non è proprio un luogo ospitale. Inverni terribili e condizioni di vita precarie hanno spinto gli ultimi abitanti umani ad abbandonare le isole poco meno di un secolo fa. Partendo gli umani non hanno portato con sé le pecore, i cui discendenti si trovano oggi sulle isole allo stato brado. E da undici anni a questa parte le pecore hanno ricevuto la visita estiva di un gruppo di ricercatori guidati dal Dr. Andrea Graham, ecologo dell’Università di Princeton. Interessati a misurare le difese delle pecore contro i parassiti, gli scienziati hanno contato i vermi presenti nelle feci e gli anticorpi circolanti nel sangue.
 
Gli anticorpi possono rendere difficile la vita ai parassiti intestinali in tre modi fondamentali: bloccando i movimenti dei vermi, interferendo con la riproduzione e segnalando la presenza degli invasori a speciali cellule killer. Date queste premesse ci si potrebbe aspettare che una pecora con più anticorpi sia una pecora più sana, ma in realtà le cose non stanno proprio così. Maggiore è il numero di anticorpi circolanti e più è elevata la probabilità che, per ragioni puramente statistiche, qualcuno di essi si sbagli e prenda di mira una componente dell’organismo. Questo è il presupposto per lo sviluppo dell’autoimmunità, una condizione patologica in cui le difese si rivolgono erroneamente contro l’organismo stesso. In effetti alcune malattie autoimmuni degli esseri umani, come il diabete di tipo 1, sono associate a difese eccessivamente reattive.
 
Un sistema immunitario potente è anche costoso, oltre che pericoloso: per mantenersi “ruba” molte calorie e proteine ad altre funzioni dell’organismo. Graham ha per esempio osservato che le pecore con la concentrazione di anticorpi più alta si sono riprodotte di meno. Ma ci sono anche benefici ad avere più anticorpi. Nello studio di Graham le femmine con alte concentrazioni di anticorpi sono sopravvissute meglio agli inverni rigidi, durante i quali i parassiti sono particolarmente abbondanti, e la loro prole ha avuto maggiori probabilità di superare il periodo neonatale.
 
La risposta immune ottimale è dunque il frutto di un compromesso fra diverse esigenze: la necessità di eliminare o quanto meno tenere a bada un invasore pericoloso, senza che ciò sottragga risorse ad altre funzioni vitali o che la reazione crei un danno all’organismo. Questa conclusione ci permette anche di capire perché l’evoluzione non ha portato gli animali a essere completamente immuni dalle malattie infettive, nonostante la forte pressione selettiva nei confronti degli individui che si ammalano (pensate solo alla mortalità infantile in assenza di farmaci e vaccini). Il fatto è che la risposta immune è un’arma a doppio taglio: se è molto debole, non è efficace; se è molto forte, danneggia l’organismo e consuma troppe risorse. Ecco perché un sistema immunitario non onnipotente, ma capace di regolare la forza della propria risposta a seconda delle situazioni, sembra essere il migliore adattamento evolutivo possibile.
 
Per scrivere questo post ho tratto molte informazioni dall'articolo di Lynn B. Martin e Courtney A. C. Coo, pubblicato su Science a ottobre 2010. Le foto sono rispettivamente di Loeske Kruuk e di Arpat Ozgul dell'Università di Edinburgo. 

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