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Latif Nasser: il permesso di essere stupido

“Connected” è una mini-serie di brevi documentari sulla scienza, a cura di Latif Nasser, uscita ad agosto 2020 su Netflix. Da vedere nelle sedentarie vacanze di Natale che ci aspettano.
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Avete voglia di distrarvi dall’ossessione per Covid-19? Durante le vacanze di Natale potreste svagarvi e divertirvi a guardare Connected, una mini-serie di sei brevi documentari che si trova nello smisurato catalogo di Netflix. Non lasciatevi fuorviare dal nome. La serie non parla dei collegamenti via internet a cui da mesi affidiamo i nostri rapporti col mondo. Piuttosto racconta di alcuni legami sorprendenti che Latif Nasser, giovane giornalista canadese, trova ed esplora per noi fra argomenti apparentemente distanti e a volte bizzarri. Prendiamo ad esempio il primo episodio, che si intitola Sorveglianza. Si parte dai tordi usignoli, piccoli uccelli di cui nelle migrazioni si perdevano le tracce. Tramite un chip alcuni ricercatori del Delaware li hanno seguiti con il GPS. I loro lunghi voli stagionali, hanno scoperto, sembrano anticipare ed evitare gli uragani. Dagli uccelli ai maiali, ecco il nostro Latif in Scozia, in un allevamento di suini. Qui un software di riconoscimento facciale individua con precisione ogni porcello tutte le volte che si avvicina a una videocamera nascosta nell’abbeveratoio. Lo scopo è benevolo: esaminare le espressioni di ciascun maialino, per stabilire il grado di benessere o di sofferenza di ogni bestiola. In caso, sarà possibile curare precocemente una malattia o migliorare la situazione. Un obiettivo secondario è anche capire se i maiali usino le pieghe del volto per comunicare tra loro. Vi sembrerà strano, ma sono animali molto espressivi! Da dove vengono questi software? Eccoci a Milano, alla mostra Training humans presso la Fondazione Prada (quando si andava ancora alle mostre!). In alcuni allestimenti artistici si ripercorre la storia dei programmi di riconoscimento facciale, sviluppati fin dagli anni Cinquanta dall’esercito americano e dalla CIA sulle foto segnaletiche. Ma l’esplosione in potenza, precisione e pervasività di questi software è avvenuta negli ultimi anni, grazie all’addestramento sull’enorme quantità di immagini e selfie forniti su internet e i social networks dagli utenti. Inevitabilmente le domande cadono sugli aspetti inquietanti di queste tecnologie, dalla sorveglianza sul lavoro e sulla popolazione, agli abusi e violazioni dei diritti umani. Non poteva mancare un affondo sulle app per il dating online. Una giornalista parigina si è chiesta che cosa sapesse su di lei Tinder. Nel suo “file” di migliaia di pagine è raccolto e conservato ogni sospiro della sua vita amorosa, che lei stessa ha esposto senza pensarci troppo. Che cosa fa Tinder di quei dati? E del “punteggio di desiderabilità” che l’algoritmo di Tinder assegna a ciascun utente, in base alla bellezza e altre caratteristiche? Certo, lei come tutti gli altri utenti ha cliccato sulla liberatoria, ma nessuno l’ha davvero letta. È il paradosso della privacy: in principio ci importa molto proteggerla, in pratica ci comportiamo all’opposto. Chiudiamo il giro del mondo, tornando agli altri animali. In uno zoo della California, con analoghi software il personale tiene traccia degli ospiti, e decide quali gazzelle si devono accoppiare tra loro, o quali piccoli di leone potrebbe valere la pena allevare. Siamo diventati inconsapevolmente come gli animali di un giardino zoologico? Ciascun episodio dura meno di un’ora, con al più una decina di minuti dedicati a ognuno dei cinque segmenti. È un tempo adatto alla breve capacità di attenzione dei nostri tempi e al mezzo televisivo che penalizza la durata. Su una struttura simile sono articolati anche i cinque episodi successivi, sulla cacca (anche quella della regina finisce nelle molto democratiche fogne londinesi); la polvere (sapevate che la sabbia del Sahara può nutrire la foresta pluviale?); le nuvole (quelle che stanno sopra la nostra testa e quelle che conservano i nostri dati); le cifre (un’oscura regola matematica può dirvi qualcosa della vostra canzone preferita); le armi nucleari (e i dilemmi morali posti da questi ordigni).

Il trailer di “Connected”
I temi sono interessanti anche per il modo con cui Nasser pone le domande agli scienziati e alle persone che incontra. Domande che trasmette sia con le parole, sia con il suo buffo corpo dinoccolato: la faccia indagatrice e divertita, lo sguardo occhialuto e curioso, una massa arruffata di capelli neri. L’aspetto fisico di Nasser, insieme ai suoi modi entusiasti ed esuberanti, ricordano la curiosità ingenua e disinibita di un ragazzino di 15 anni e non lasciano necessariamente sospettare un curriculum di prim’ordine. Fiero figlio di immigrati in Canada dalla Tanzania e dall’India, Latif Nasser si è laureato a Dartmouth, un’università americana del gruppo delle “Ivy League”. Ha poi conseguito un dottorato in storia della scienza ad Harvard. Quindi ha fatto il suo apprendistato a Radiolab, il podcast pluripremiato di cui è oggi direttore della ricerca. Per Radiolab ha curato approfondimenti di successo, come quello sugli usi medici del sangue blu dei granchi a ferro di cavallo di cui ho scritto qualche tempo fa. Da Harvard, Nasser dice di avere ottenuto il “permesso di essere stupido”, ovvero la libertà di porre tutte le domande che gli vengono in mente senza temere il giudizio di chi è più esperto. Nessuna domanda è stupida e ogni curiosità è lecita. Da Radiolab, e in particolare dai due fondatori, Robert Krulwich e Jad Abumrad, ha imparato a mescolare la scienza con un giornalismo creativo e con un uso raffinato dei suoni. Nel passaggio dalla radio al video, dice di avere dovuto imparare a usare gli occhi. I collegamenti che propone seguono il gusto, la curiosità, il capriccio del narratore, che scopre che una legge della probabilità numerica si può applicare alla musica classica, ai social media e alle frodi fiscali, o che da un naufragio sono nate le basi per le previsioni meteo e il cloud. Sono collegamenti dichiaratamente arbitrari, ma non superficiali, soprattutto perché in Nasser non c’è alcuna pretesa di offrire risposte definitive. Il suo scopo è piuttosto essere l’«ambasciatore della parte infantile del nostro cervello», quello che osa fare le domande anche le più ingenue, e di «unire i punti su questioni che coinvolgono la scienza, l’umanità, l’universo». È ovvio che Latif Nasser non è stupido per niente e che conosce almeno in parte le risposte alle sue domande. Ma è apprezzabile che con la sua conduzione cerchi di mettersi alla pari con il pubblico, a interpretarne le curiosità offrendo, insieme ad alcune risposte, anche «sorpresa, gioia e meraviglia».   -- Per scrivere questo post, oltre ad avere guardato “Connected”, ho consultato: Remy Tumin, Latif Nasser, Harvard Ph.D., on the Rewards of Being Dumb, The New York Times (19/8/2020) e Latif Nasser on being 'the ambassador to the most childish part of your brain' in his new series, CDC Radio One (4/9/2020). In apertura, un’immagine Latif Nasser tratta dalla serie.
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