Il virus partito (forse) dal Messico farà il giro del mondo? E se pandemia sarà, sarà forte o lieve? La realtà è che a oggi «non possiamo dire se quest’influenza farà Big Bang». Le parole sono di Rino Rappuoli, direttore scientifico della Novartis Vaccines e fra le massime autorità mondiali su vaccini e virus (il 28 aprile Rappuoli ha ritirato a Washington la Medaglia Sabin, il più prestigioso riconoscimento a livello internazionale per lo sviluppo dei vaccini, conferito per la prima volta a uno scienziato europeo).
I primi segnali – le morti di diverse persone giovani e la rapida diffusione di casi in Paesi diversi dal Messico – fanno pensare a un virus piuttosto fastidioso, in grado di passare con facilità da persona a persona. Gli epidemiologi però sanno che il numero dei casi riportati nei primi giorni dopo la scoperta di un nuovo ceppo virale è attendibile quanto l’exit poll di un’elezione politica. Per valutare la serietà dell’epidemia occorre conoscere il numero totale dei casi che si sono verificati; per ciascuno di essi bisogna sapere la località, l’età della persona colpita e i contatti che può avere avuto con altri individui infetti. I dati raccolti finora sono estremamente frammentari e in continuo mutamento: per prevedere se la faccenda sarà più o meno seria gli esperti hanno bisogno ancora di qualche tempo. Vediamo invece quello che sappiamo a oggi.
Che cosa sappiamo del virus?
Dalla notte del 24 aprile abbiamo a disposizione la sequenza completa del genoma virale, depositata nelle banche genetiche pubbliche (la sequenza si trova anche in GISAID, la banca dati genetica fortemente voluta da Ilaria Capua, virologa dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, perché le informazioni sui virus influenzali animali e umani possano essere condivisi da tutta la comunità scientifica internazionale in tempo reale). Abbiamo così saputo, a pochi giorni dai primi casi (dieci anni fa ci sarebbe voluto un anno!), che il genoma è composto da pezzi di virus dell’influenza suina americana ed eurasiatica, dell’influenza umana americana e dell’influenza aviaria americana.
Questa miscela genetica è qualcosa di molto frequente in natura, oltre a essere una straordinaria strategia di sopravvivenza da parte dei virus. I virus dell’influenza, infatti, sfruttano una capacità non comune di mutazione e di riassortimento genetico fra ceppi diversi per saltare con agilità da specie a specie, infettando non solo maiali, uccelli ed esseri umani, ma anche cavalli, foche, gatti, cani, tigri e chi più ne ha più ne metta.
Ricercatori in ogni angolo del pianeta lavorano da giorni senza sosta per collocare questo virus nel grande albero «genealogico» della famiglia dei virus influenzali. A che cosa ci servono queste informazioni? A distinguere tramite diagnosi molecolari precise chi sarà eventualmente affetto da quest’influenza da chi avrà invece una malattia da raffreddamento causata da altri microrganismi.
Perché il virus muta?
Le mutazioni permettono al virus di «vestire» continuamente nuovi abiti che lo rendono irriconoscibile alla sorveglianza del sistema immunitario. La stessa sorveglianza lo bloccherebbe se si presentasse sempre con gli stessi vestiti. In altre parole le mutazioni frequenti sono un’ulteriore strategia di sopravvivenza evolutiva efficace (a spese degli ospiti). Per questo motivo di influenza ci si può ammalare ogni anno, mentre delle malattie i cui virus o batteri non variano ci si ammala in genere una volta sola nella vita.
Che cosa ci insegnano le pandemie del passato?
Pandemie di influenza esistono da tempi remoti, ma le quattro di cui abbiamo conoscenza sono avvenute nel 1889, 1918, 1957 e 1968. Tutte e quattro le pandemie si sono presentate in ondate successive. Il virus del 1918, quello della cosiddetta Spagnola (il cui virus aviario sembra essere passato prima dagli uccelli agli esseri umani, e poi dagli esseri umani ai suini) è apparso a marzo e ha messo in moto un’ondata primaverile ed estiva che ha colpito alcune comunità e lasciato altre indenni. La prima ondata fu estremamente lieve, più lieve ancora di un’influenza ordinaria: dei circa 10.000 marinai della flotta britannica che si ammalarono, solo quattro morirono. Ma l’autunno portò una seconda ondata, ben più letale, seguita da una terza ondata, meno severa, all’inizio del 1919. In tutto il mondo sono morte di Spagnola non meno di 35 milioni di persone, in un’epoca in cui la popolazione mondiale era solo un quarto di quella attuale. Ogni anno la normale influenza stagionale oggi uccide circa 36.000 americani (e 5000 italiani). In genere muoiono più facilmente le persone anziane o quelle che hanno un sistema immunitario già indebolito.
Perché ondate successive dello stesso virus hanno un’aggressività differente?
Alcuni esperti ritengono che la prima ondata della Spagnola sia stata particolarmente lieve perché il virus non si era ancora adattato completamente agli esseri umani. Esistono tuttavia numerose prove del fatto che la gente esposta alla prima ondata abbia sviluppato immunità, proprio come se fosse stata vaccinata. Una simile costruzione di immunità è la più probabile spiegazione del fatto che, nel 1918, solo il 2 percento di coloro che hanno contratto l’influenza sono morti: essendo stati esposti ad altri virus dell’influenza, la maggior parte delle persone si era già costruita qualche protezione. Fra persone che invece vivevano in regioni isolate, per esempio gli Inuit dei villaggi dell’Alaska, si sono registrati livelli di mortalità maggiori, presumibilmente perché avevano avuto un’esposizione minore ai virus dell’influenza.
Allarme eccessivo o eccessive rassicurazioni?
Memori dell’aviaria del 2006 che pandemia non fu, se non sui media, molte persone oggi ritengono che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i Centers for Disease Control e le altre agenzie di salute pubblica siano o troppo allarmiste o troppo rassicuranti.
Provate a mettervi per un momento nei panni di un ufficiale di queste istituzioni: è vostro dovere fornire al pubblico informazioni attendibili, su malattie potenzialmente letali, anche se la situazione fluida e prematura non vi permette di trarre conclusioni, e dovete pure evitare di provocare panico. Come si muovono, questi ufficiali sbagliano. La missione è di quelle impossibili! Se l’emergenza sarà un falso allarme, si dirà che milioni di persone sono state allertate inutilmente, e si dirà perfino che il motivo era la giustificazione di budget milionari; se invece l’influenza sarà una pandemia, allora è probabile che i funzionari saranno rimproverati per non averla saputa prevenire.
Ignorare il rischio o preparare un vaccino?
È vero, non sappiamo se il virus farà big bang, ma possiamo permetterci di ignorare un rischio di questo tipo? I vaccinologi, lasciando da parte le polemiche, stanno già lavorando sodo.
Si arriverà in tempo? Sempre Rino Rappuoli ha detto, durante la Lectio magistralis tenuta il 29 aprile all’Istituto clinico Humanitas, che per l’autunno ce la si può fare. Certo, se la grande botta dovesse arrivare fra tre settimane è chiaro che un vaccino non ci potrà essere. Ma se il virus dovesse comportarsi come i suoi "cugini" hanno fatto in passato, presentandosi con l'ondata maggiore in autunno, allora il vaccino potrà essere pronto e disponibile. Grazie alle tecnologie e ale procedure messe a punto nei tre anni che sono seguiti all'allarme aviaria (ecco che anche quell'allarme a qualcosa è servito!) per fare fronte a un’eventuale pandemia.
Qui potete vedere un'intervista sul vaccino che Rino Rappuoli ha rilasciato il 29 aprile a Corriere TV:
Quale vaccino si svilupperà?
Solo il vaccino contro questo nuovo ceppo? O soltanto il vaccino contro i tre ceppi influenzali "normali," già previsti, su cui si stava già lavorando? Oppure tutti e due i vaccini? O, ancora, un unico preparato che contenga la protezione contro tutti i ceppi previsti, vecchi e nuovi? La decisione sarà presa entro un mese circa, in maniera globale, con il coinvolgimento dell’OMS, dei CDC, della Comunità europea, della Bill & Melinda Gates Foundation e di tante altre istituzioni sovranazionali coinvolte nei problemi di salute pubblica.
Infine, il nome...
Influenza suina, ma siamo sicuri di volerla proprio chiamare così? Il virus nei maiali non è mai stato isolato, nonostante il gran numero di geni originari del ceppo virale suino. L’Organizzazione mondiale per la salute animale ha suggerito di chiamare il nuovo ceppo "influenza Nordamericana"; altri propongono che si chiami Messicana, dato il primo focolaio; altri ancora propendono per Californiana, data l’origine della prima sequenza genetica. Vedremo se aggettivi più politicamente corretti riusciranno a imporsi e a farci scordare il maiale (che infetto forse non fu mai).
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Per approfondire:
I sintomi dell’influenza, spiegati da un ufficiale dei CDC (con sottotitoli):
Ilaria Capua ha scritto Idee per diventare veterinario - Prevenire l’influenza aviaria e altre malattie per Zanichelli. Potete ascoltarla Ilaria Capua nell’intervista rilasciata martedì 28 aprile a Giorgio Zanchini di Radioanch’io.
Lo speciale di Radio 3 Scienza sull'influenza
Una lecture di Rino Rappuoli sui vaccini, qualche mese fa all’Università di Berkeley: