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Niente ricordi a lungo termine senza danni al DNA e infiammazione

Rotture del DNA nei neuroni neuroinfiammatori e riparazione a opera del sistema immunitario innato alla base delle memorie durature

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Se trovate sorprendente che i danni al DNA e l’infiammazione possano avere a che fare con l’apprendimento e la memoria, siete probabilmente in buona compagnia. Eppure questi processi sembrano avere un importante ruolo fisiologico nella formazione dei ricordi a lungo termine in alcune cellule neuroinfiammatorie dell’ippocampo dei topi. I risultati, ottenuti dalla neuroscienziata Jelena Radulovic e il suo gruppo di ricerca all’Albert Einstein College of Medicine di New York, sono stati pubblicati ad aprile 2024 sulla rivista Nature.

I libri di testo ci hanno abituato a un’altra narrazione di come si formano i ricordi. Per conciliare le nuove scoperte con quelle del passato proviamo a fare un piccolo ripasso. Sappiamo che l’area cerebrale dell’ippocampo è essenziale alla formazione di memorie a lungo termine, dopo che Henry Molaison, un famoso paziente americano, aveva subito negli anni Cinquanta una rimozione chirurgica di alcune parti del cervello. I chirurghi che lo avevano operato avevano cercato di curare così l’epilessia di cui soffriva. Dopo l’operazione H.M., a lungo identificato con le sole iniziali, non era più stato capace di ricordare alcunché a lungo termine e l’ippocampo era tra le parti che gli erano state rimosse. Vivendo la sua intera esistenza in un costante presente, H.M. e la sua lesione hanno fornito a medici e neuroscienziati la prova del ruolo dell’ippocampo quale centro indispensabile alla formazione e al recupero di diversi tipi di memorie.

Quando ricevono un qualche stimolo memorabile, alcuni neuroni si attivano in particolari aree del cervello, tra cui appunto l’ippocampo. A livello molecolare accade che alcuni neurotrasmettitori, rilasciati da alcuni neuroni, si leghino a recettori presenti sulla membrana di altri neuroni. Il legame tra neurotrasmettitori e recettori dà il via a un potenziale d’azione. La conseguente scarica elettrica si trasmette per tutta la membrana che riveste il lungo assone di ciascun neurone, fino a raggiungere le sinapsi, ossia i punti di contatto con altri neuroni. Ogni sinapsi eccitata rilascia a sua volta altri neurotrasmettitori che, legandosi ai recettori di membrana di neuroni limitrofi, possono dare inizio a ulteriori potenziali d’azione e quindi mantenere alta l’eccitazione di una popolazione di cellule nervose. Oppure possono inibire l’attivazione, riportando le cellule a riposo.

Sempre dai libri di testo abbiamo appreso che le memorie a lungo termine, quelle che durano a volte un’intera vita, sono impresse in modifiche fisiche nelle sinapsi che persistono nel tempo. Gruppi di cellule neurali dell’ippocampo, chiamati engram, sono noti da tempo per essere al cuore di questi processi. Tutte le innumerevoli volte che un ricordo viene poi rievocato nel corso della vita, i segni sulle sinapsi possono ulteriormente consolidarsi o, al contrario, indebolirsi. Si modifica così l’intensità di una memoria e a volte anche il suo contenuto (spiegando perché i ricordi sono così fallaci e confusi).

Tutto ciò che abbiamo letto nei libri rimane vero. Ma cosa accade più in profondità nelle cellule nervose, oltre la membrana, nel citoplasma e nel nucleo, quando si formano i ricordi? La prima indicazione che danni al DNA sono associati ai processi di apprendimento e di formazione delle memorie risale al 2021, quando la neurobiologa Li-Huei Tsai e il suo gruppo al Massachusetts Institute of Technology a Cambridge hanno pubblicato la loro sorprendente scoperta sulla rivista PloS One. Jelena Radulovic e colleghi hanno fatto un passo in più, chiarendo alcuni meccanismi che avvengono a livello molecolare nelle cellule neuroinfiammatorie dell’ippocampo.

Oggi sappiamo che all’attivazione neurale di queste cellule seguono dei danni al DNA a doppio filamento. Una reazione infiammatoria è quindi in grado di dare il via al processo di riparazione del materiale genetico. Si rinsalderebbero così non solo le basi azotate del DNA, ma anche le memorie a lungo termine.

Come hanno fatto i ricercatori guidati da Radulovic a raggiungere questi risultati? Hanno innanzitutto addestrato alcuni topi ad associare una piccola scossa elettrica a un ambiente a loro sconosciuto. Ogni volta che gli animali si fossero trovati nuovamente in tale ambiente, ricordando l’esperienza avrebbero mostrato i tipici segni della paura, per esempio bloccandosi e rimanendo immobili. Si tratta di un metodo consolidato per studiare in animali di laboratorio la memoria a lungo termine attraverso un condizionamento.

Con tecniche omiche gli scienziati hanno quindi esaminato i geni ancora attivi quattro giorni dopo la piccola scossa, nei nuclei di cellule neuroinfiammatorie dell’ippocampo. I nuclei di questi neuroni sono stati separati dagli altri grazie all’uso della citometria a flusso, una tecnica che permette di separare tra loro cellule o loro parti in base alle differenti molecole che le caratterizzano. Hanno così trovato alcuni geni attivi coinvolti nell’infiammazione. In particolare il tipo di infiammazione scatenato era quello dovuto a una particolare proteina, la TLR9, della famiglia dei Toll-like receptor. E qui arriva un’altra sorpresa di questa interessantissima ricerca.

I toll-like receptor sono molecole al cuore dell’immunità innata, la forma più antica di difesa che condividiamo con la maggior parte delle specie animali. Si tratta di proteine che si trovano sulla superficie o all’interno di molte cellule immunitarie. Sono in grado di legare in maniera specifica frammenti di molecole estranee, di origine soprattutto microbica, le cui caratteristiche si sono conservate nell’evoluzione dei microrganismi. Un avvenuto legame tra un toll-like receptor e uno di questi frammenti richiama rinforzi per combattere l’infezione e uccidere l’invasore. Per la scoperta di questi meccanismi dell’immunità innata, Bruce A. Beutler e Jules A. Hoffmann hanno ricevuto il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 2011.

La TLR9 riconosce in particolare pezzi di DNA che si trovano dispersi all’interno della cellula e che possono essere un segno di infezione. Curiosamente nelle cellule neuroinfiammatorie TLR9 sembra rispondere alla presenza di frammenti di DNA a doppio filamento appartenenti al proprio genoma e non a quello di un microrganismo patogeno.

Come sappiamo che l’infiammazione scatenata da TLR9 è cruciale per la formazione della memoria dei topi? Dal genoma di alcuni animali, i ricercatori hanno eliminato con tecniche di ingegneria genetica il gene che codifica per questa proteina. Trovandosi nuovamente nell’ambiente in cui avevano subito la piccola scossa, i topi privati di TLR9 non si immobilizzavano per la paura come facevano invece quelli con TLR9 intatta.

La natura sembra dunque avere preso due piccioni con una fava. La capacità di percepire rotture del DNA a doppio filamento potrebbe essere un meccanismo dell’immunità innata utile sia a difenderci dagli invasori microbici, sia a formare memorie a lungo termine. Per conservare ricordi nel tempo, i topi sembrano infatti utilizzare il proprio DNA, e in particolare il meccanismo che richiama, tramite l’infiammazione, la macchina di riparazione dei danni al materiale genetico.

Ai fini della memoria a lungo termine, che relazione c’è tra queste cellule neuroinfiammatorie e i gruppi di cellule engram? I tempi delle due popolazioni di cellule sono diversi: i geni coinvolti nel consolidamento dei ricordi negli engram si attivano immediatamente dopo lo stimolo, mentre in quelle neuroinfiammatorie studiate da Radulovic l’infiammazione sembra comparire qualche giorno più tardi. Tuttavia è possibile che le due popolazioni di cellule nervose in qualche modo collaborino: gli engram potrebbero produrre il primo segno fisico della memoria e la possibilità di recuperare i ricordi, mentre quelle neuroinfiammatorie potrebbero garantire la flessibilità e la persistenza delle memorie stesse.

Sarebbe bello avere la sfera di cristallo per ricevere subito la risposta a tante domande aperte. La più urgente, e probabilmente la più difficile, è se un malfunzionamento di queste cellule neuroinfiammatorie possa essere coinvolto in malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e altre forme di demenza. Da altri studi sappiamo che sia i danni al DNA, sia la proteina TRL9 contribuiscono ai processi neurodegenerativi, soprattutto tramite le cellule della microglia, coinvolte nelle difese immunitarie del sistema nervoso centrale. Come si concilia questo ruolo patologico, di distruzione della memoria tramite la microglia, con la funzione fisiologica di formazione dei ricordi nelle cellule neuroinfiammatorie?

Sappiamo che l’infiammazione è una sorta di Giano bifronte. È necessaria per la guarigione dopo un’infezione, una ferita o una lesione, come il danno al DNA la cui riparazione sembra consolidare apprendimenti e ricordi duraturi. Se però l’infiammazione è troppa, o non si arresta per tempo, può creare un terreno fertile per lo sviluppo di un tumore, una malattia autoimmune o una patologia neurodegenerativa. Comprendere che cosa distingue un’infiammazione utile e fisiologica da una pericolosa e deleteria, e sviluppare metodi preventivi e terapeutici, è una delle grandi sfide della biologia e della medicina contemporanee.

Per scrivere questo post ho letto: Jovasevic V et al., Formation of memory assemblies through the DNA-sensing TLR9 pathway. Nature. 2024 Apr;628(8006):145-153. doi: 10.1038/s41586-024-07220-7. Epub 2024 Mar 27. PMID: 38538785; PMCID: PMC10990941.
In apertura (Wikipedia, da un disegno di Henry Gray, 1918) un’illustrazione dell’ippocampo in cui sono localizzati numerosi neuroni e meccanismi della memoria a lungo termine.
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Jelena Radulovic (Albert Einstein College of Medicine)
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Henry Molaison, H.M., nel 1953, prima della sua operazione neurochirurgica (Wikipedia).
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I frammenti rilasciati dai nuclei dei neuroni che subiscono danni al DNA durante l’apprendimento: il DNA è il grande punto bianco al centro a destra, mentre gli istoni associati al DNA sono in viola (Laboratorio Radulovic).