A settembre sono stata a Cambridge e ricordo che ho trascinato un gruppetto di amici nel mio pellegrinaggio sui luoghi di Watson e Crick. Nella foto, l'interno del pub, The Eagle, e la targa sul muro esterno che commemora le lunghe chiaccherate di Watson e Crick (foto: Lisa Vozza)
Anch’io nel mio piccolo non ricordo tante cose. Non ricordo che devo andare dal calzolaio a ritirare la scarpa che ho portato l'altro ieri a riparare. Quando leggo “scarpa” nella lista delle cose da fare (che se non scrivo una lista non mi ricordo niente) penso che forse devo dire una cosa al professor Scarpa, l'anatomopatologo di Verona. Solo che non ricordo che devo dirgli una cosa. Quindi non lo chiamo, il professor Scarpa a Verona. Se avessi scritto scarpe al plurale forse non avrei fatto confusione. Di solito si portano tutte e due le scarpe a rifare i tacchi, le punte, le suole. Ma questa scarpa si è rotta da sola e il calzolaio non mi ha neanche dato il bigliettino. “Tanto non è che me la posso rivendere, una scarpa sola”, mi ricordo che mi ha detto. Il libro di Watson l’ho letto nel 2012, quando ricordo che è uscita l’edizione annotata e illustrata per i cinquant’anni dal premio Nobel. E ricordo di aver pensato, che libro meraviglioso, con tutte le foto e le lettere e i documenti. Bravissimi i curatori, Alexander Gann e Jan Witkowski. Speriamo che esca presto in Italia quest’edizione illustrata e annotata, ricordo di aver pensato, così ci faccio un post. L’edizione illustrata e annotata poi non è più uscita. E allora ricordo di aver pensato che avrei fatto meglio a scriverlo lo stesso questo post, prima di dimenticarmi tutto. La prima edizione del 1968, ricordo che era già un libro bellissimo. Anche senza foto, sembrava di esserci al pub con Watson e Crick, mentre immaginavano quella struttura stranissima senza avere sott’occhio i dati. Sembrava di essere anche a Londra, al King’s College con Wilkins e la povera Franklin, bravissima cristallografa dal carattere spigoloso. Loro sì che avevano i dati, ma in quella foto 51 del cristallo del DNA la doppia elica non riuscivano ancora a intuirla.La foto 51 del cristallo del DNA, ottenuto da Rosalind Franklin (foto: Wikipedia)
Ricordo la volta che ho visto Watson a Milano nel 2009, e ho pensato che era rimasto uguale. Un anziano giovane che dice tutto quello che gli passa per la mente. Entusiasta e senza pudore come nel libro, dove ha raccontato una storia grande e le sue minuzie. Minuzie di per sé inutili, ma utilissime nell’insieme: hanno reso tangibile la vicenda, ricordo di aver pensato.La prima volta che ho visto questa foto di Rosalind Franklin, ho pensato che è quella che mi piace di più (foto: Henry Grant Archive/Museum of London tramite il sito del NIH)
A Crick però quel mostrare il bambino con l’acqua sporca non era garbato per niente, come non era piaciuto a Wilkins. Ricordo di aver pensato che avevano le loro ragioni. Nel ritmo frenetico e convulso della loro ricerca c’erano stati errori, fraintendimenti, confusioni. Specie con “Rosy”, come i due chiamavano con sufficienza la povera Franklin. Ma poi ricordo di aver pensato che il pregio del libro di Watson è proprio questo, che ti fa capire che gli scienziati sono difettosi come tutti gli esseri umani, che a volte parlano e agiscono prima di pensare.James Watson e Francis Crick con il loro modello della doppia elica. Il modello era stato in parte disfatto, mi pare di ricordare, e Watson e Crick lo avevano dovuto ricostruire apposta. Ricordo che ci ero rimasta un po’ male, di questo modello un po’ falso e un po’ vero (foto: Antony Barrington Brown/Science Photo Library)
Tante cose umane vanno un po’ così, non solo nella scienza. È solo che se non si tratta di una cosa grande come il DNA, le meschinerie sono meno memorabili, mi pare di aver pensato. Poi ricordo di aver pensato che non era mica colpa di Watson e Crick se la Franklin era morta di cancro prima del premio Nobel. Nobel che, se non ricordo male, è stato dato solo una volta postumo, solo perché a Stoccolma non sapevano che Ralph Steinman, poveretto, era morto tre giorni prima dell’annuncio. Certo, ricordo di aver pensato che se Rosy fosse stata ancora viva avrebbero avuto una bella grana a Stoccolma, a decidere chi dei quattro meritava di più. Perché forse non ricordate, ma ogni Nobel si può attribuire a tre persone come massimo. Comunque Rosy è morta, purtroppo. Quindi pensare al dilemma è inutile, ricordo di aver pensato. A un certo punto ricordo che mi ero fatta una specie di classifica nella testa. Francis Crick era il più brillante: si rigirava in lungo e in largo tutte le possibili strutture che teneva nella mente, scartandole una a una, finché è rimasta quella giusta. Rosy era super a fare i cristalli e a ottenere quelle foto eccezionali, i dati sperimentali veri, non la teoria, ma forse non aveva la fantasia per interpretarle? Wilkins cercava di mettere d’accordo tutti, ma era un po’ indeciso. E Watson era superficiale. A un certo punto si era sbagliato a riportare dei dati da Londra a Cambridge e aveva fatto un bel casino, ricordo di aver letto proprio nel suo libro. Anche su se stesso Jim Watson era sincero. Al punto che lui il libro avrebbe voluto chiamarlo “Honest Jim”, ricordo di aver letto. Di divulgazione scientifica però Crick non capiva un tubo, ricordo di aver pensato. Altrimenti il libro di Watson un po’ gli sarebbe piaciuto fin dall’inizio. Ricordo che Crick mi ha commosso quando ho letto la lettera a suo figlio Michael nel 1953, che iniziava così: «Caro Michael, Jim Watson e io abbiamo fatto una scoperta che sembra molto importante». E va avanti a spiegargli di che cosa si tratta.La lettera di Francis Crick a suo figlio Michael (Christie’s)
Poi quella lettera, che dentro ha un bel disegnino, l’hanno venduta all’asta per 6 milioni di dollari. Ricordo di aver pensato che se fossi stata molto ricca mi sarebbe piaciuto tantissimo comprarla. Avevo perfino immaginato dove l’avrei appesa. E poi ricordo che ero contenta che la metà di quei 6 milioni erano andati al Salk, l’istituto di La Jolla dove Crick ha lavorato finché è morto. C’è un capitolo inedito nell’edizione annotata e illustrata, dove Watson racconta le vacanze del 1952 in Valmalenco. Quel capitolo lì ricordo di averlo passato a mio papà, che conosce le Alpi lombarde come le sue tasche. E mio papà ricordo che si è entusiasmato al punto che ha scritto subito un email a un suo amico valligiano, con le parole di Watson: «In agosto ho smesso per un po’ di dare la caccia al DNA. Paula, una giovane ragazza italiana, era l’oggetto più attraente nel villaggio di Chiareggio. Ero lì con Joe Bertani, un ricercatore che studia i fagi, di ritorno in Europa per il meeting di Royaumont. Ogni agosto la famiglia di Joe soggiornava in un piccolo albergo senza pretese, dove quest’anno c’era una stanza prenotata per me. Nonostante i due mesi a Napoli, il mio italiano era inesistente, ma all’inizio non è stato un problema. Quasi ogni giorno Joe, suo fratello Alberto e io salivamo sul sentiero che portava sui ghiacciai pendenti che cadevano giù dal monte ‘Disgracia’, il picco innevato e insidioso che domina Chiareggio». Chissà se hanno messo una targa i valligiani, ricordo che il papà e io ci siamo poi domandati.Jim Watson in vacanza a Chiareggio nel 1952 (foto dal libro: Lisa Vozza)
Un ricordo tira un non ricordo tira un ricordo. Potrei andare avanti tutto il giorno, ma devo andare a ritirare le scarpe dal calzolaio prima che mi scordo un’altra volta. Se pensate che è triste che Watson non ricordi proprio nulla, consolatevi perché lui è contento. Dice che continua a leggere il libro della sua vita e ogni giorno scopre di aver fatto delle cose interessanti. Erano più o meno queste le parole che ha usato, ma non chiedetemi dove le ho lette perché non lo so più. Ho fatto esercizi di “mi ricordo” e “non ricordo” con Paolo Nori, che mi ha ispirato e incoraggiato. Se trovate il tutto un po' sgrammatico avete ragione e vi chiedo di avere pazienza. I miei ricordi escono così dalla testa, come li ho pensati, senza disciplina. I mi ricordo che mi piacciono di più sono quelli di Joe Brainard. Pittore e scrittore americano, Brainard ha pubblicato I remember nel 1970 per Angel Hair. È un piccolo capolavoro di frammenti di memorie, insuperato da tanti imitatori famosi. La prima edizione italiana, Mi ricordo, è stata pubblicata da Lindau nel 2014.