Varianti che preoccupano, sierotipi che danno o non danno immunità, ceppi, cladi: un piccolo aiuto per familiarizzare con il lessico sempre mutevole e in aggiornamento della virologia.
Se ancora faticate a scrivere SARS-CoV-2 con tutte le maiuscole e i trattini al loro posto, se i sierotipi vi confondono e le varianti vi terrorizzano, siete parte di una vasta maggioranza. Molti termini della virologia che abbiamo letto o orecchiato in questi mesi non sono a volte neppure chiarissimi a medici o scienziati.
I veloci progressi della disciplina e delle tecniche, che ci concedono viste sempre inedite sulla virosfera, si riflettono in un lessico in continuo aggiornamento e perenne discussione. Così procedono i progressi nelle scienze, che non prevedono “bibbie” immobili. Anche sui termini i ricercatori hanno frequenti differenze di opinione, specchio di una realtà mutevole.
Date queste impermanenti premesse, propongo un parziale e personalissimo lessico virologico, una zoomata provvisoria e in ordine sparso, che se va bene sarà utile per qualche settimana.
Isolato virale. È il virus isolato da un individuo infetto e propagato in laboratorio in cellule in coltura. Il primo isolato virale di SARS-CoV-2 è stato, per esempio, ottenuto a Wuhan a fine 2019 da pazienti con polmonite. Ciascun isolato deriva dunque da un singolo paziente e per ciascun virus ci possono essere molti isolati differenti: il mio, il tuo, il suo… Ufficialmente SARS-CoV-2 ha infettato finora più di 115 milioni di persone nel mondo, e almeno dieci volte di più sono quelle stimate che non sono passate per un test o una diagnosi, ma gli isolati virali sono stati ottenuti solo da qualche decina di migliaia di pazienti, perché l’emergenza impone metodi più rapidi ed efficienti di tracciamento e diagnosi.
Sequenza. È la serie dei nucleotidi di un genoma virale, letti da una macchina automatica. Più semplice e rapida da ottenere rispetto agli isolati (bastano un tampone e una RT-PCR), la sequenza ottenuta non corrisponde necessariamente a un’unica particella virale. Deriva piuttosto dalla miscela dei genomi di più virus che si trovano nel corpo della stessa persona e non sono per questo necessariamente identici. Nella stragrande maggioranza degli esami diagnostici eseguiti con RT-PCR, si legge solo una piccola parte del materiale genetico di un virus: quella minimamente sufficiente a dare un risultato non ambiguo, positivo o negativo. Sequenze complete si effettuano più raramente.
Genotipo virale. Descrive l’assetto genomico di un virus. Per esempio, i virus dell’epatite C possono avere diversi genotipi in base all’identità complessiva, e non nucleotide per nucleotide, dei loro genomi.
Fenotipo virale. L’insieme delle caratteristiche che descrivono il comportamento clinico di un virus.
I fantasiosi nomi di una volta. Finché abbiamo creduto che le malattie fossero una punizione divina, la precisione scientifica lasciava a desiderare ma i nomi erano a volte incantevoli. Sifilide per esempio, deriva da un poema del 1530 di Girolamo Fracastoro in cui un pastore, Sifilo, è maledetto dal dio Apollo.
Girolamo Fracastoro mostra il pastore Sifilo e il cacciatore Ilceo messi in guardia dal cedere alla tentazione e alla sifilide. Incisione di Jan Sadeler I da Christoph Schwartz, Monaco di Baviera (1588-1595). Fonte: Wellcome Library, ICV no. 51428, ICV n. 51428; History Mash.
A partire dal Seicento, dapprima il microscopio ottico e più tardi quello elettronico ci hanno fatto via via intravedere uno splendido e vario mondo di sagome microbiche. Un mondo che si è riflesso in nomi assegnati in base alla forma, alla dimensione, alla presenza o meno di una membrana, al tipo di simmetria e così via.
Le burocratiche ma informative sigle di oggi. Gli isolati virali sono identificati da lunghe sigle per nulla poetiche, che dicono però parecchie cose utili. Per esempio, uno dei primi isolati di SARS-CoV-2 è stato chiamato BetaCoV/Wuhan/WIV04/2019 e nella sigla si trovano il tipo di virus (BetaCoV), la città di origine (Wuhan), il numero dell’isolato (WIV04) e l’anno (2019). Per l’influenza si usano diciture ancora più ricche di informazioni, che includono anche il tipo di essere vivente in cui è stato isolato un virus (essere umano, anatra, maiale…) e il sottotipo di emagglutinina e neuraminidase di cui è composto (H1N1 o H5N1, per esempio). Emagglutinina e neuraminidase sono le due molecole chiave per identificare il tipo di virus influenzale e stimarne la pericolosità.
Nomi brutali. Imperialismo e razzismo hanno lasciato un’infinità di cupe impronte sui nomi delle malattie infettive. Un esempio fra tanti è il “colera indiano” di cui parlavano gli inglesi nell’Ottocento, con immagini d’epoca che illustravano la malattia come una figura bluastra con turbante e abiti tipici del Subcontinente.
John Bull, la personificazione allegorica del Regno, difende la Gran Bretagna dall'invasione del colera, in un’immagine che stigmatizza l’origine indiana della malattia (1832). Fonte: Wellcome Collection.
Sistemi di nomenclatura politicamente corretti. Per evitare di ricadere in stereotipi da caccia all’untore, alla nazione, all’animale o al capro espiatorio di turno, l’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito, nel 2015, che il nome assegnato a un virus o una variante dovrebbe essere distinto, informativo, facile da pronunciare e da ricordare, e allo stesso tempo dovrebbe minimizzare i possibili e non necessari effetti negativi sulle nazioni, le economie e i popoli. A oggi i sistemi più usati per la nomenclatura sono tre, Gisaid, Pango e Nextstrain, ciascuno dei quali è un mondo terminologico a sé.
Missione impossibile? Un nome, perché sia memorabile, deve fare riferimento a qualcosa di tangibile, che le persone conoscono e possono memorizzare. L’alternativa al noto e stigmatizzabile è la sigla che nessuno ricorda e nessuno sa pronunciare, immediatamente sostituita nell’uso comune dal virus “cinese”, dalla malattia dei “pipistrelli” o dalla variante “brasiliana”, con tutti i rischi connessi di discriminazione e xenofobia. Al problema non c’è soluzione facile, e non dare nomi del tutto non è ovviamente un’alternativa, dato che i nomi servono a designare qualcosa con chiarezza nell’ambito di una comunità di persone che su quel nome si devono intendere. Senza un nome specifico e condiviso non si può seguire, tracciare, conoscere un virus o una variante.
Variante. Un isolato virale la cui sequenza genomica differisce da quella di un virus di riferimento. Pressoché tutte le sequenze di SARS-CoV-2 ottenute da individui diversi presentano in media 10 nucleotidi differenti. Questo ci dice che le varianti sono straordinariamente frequenti, ma di per sé non necessariamente preoccupanti. In altre parole, ogni variante è innocente fino a prova contraria. Nella stragrande maggioranza dei casi può essere considerata un “sinonimo” e non essere più minacciosa di un’altra. Di tutte le varianti individuate, dovrebbero arrivare all’attenzione dei media e del pubblico generale solo le cosiddette varianti preoccupanti.
Varianti preoccupanti. Dall’inglese “Variants of Concern” (VOC), sono quelle le cui mutazioni possono conferire al virus nuove caratteristiche non solo genetiche ma anche di comportamento, osservate sia in laboratorio sia nei pazienti. È importante concentrarsi sulle varianti davvero preoccupanti: una lista eccessivamente lunga di varianti non significative rischia di confondere gli addetti ai lavori e di terrorizzare inutilmente le persone. Una variante è particolarmente preoccupante quando, rispetto ad altre, è allo stesso tempo più contagiosa (causa più infezioni), più virulenta (provoca più casi gravi, ricoveri, morti) ed è più capace di sfuggire all’immunità (il sistema immunitario di una persona che ha avuto Covid-19 o ricevuto una vaccinazione non riconosce la nuova variante). Per fortuna a oggi non abbiamo segnalazioni di varianti di SARS-CoV-2 che posseggano tutte e tre queste caratteristiche.
B.1.1.7. Osservata per la prima volta nel Regno Unito, è la cosiddetta variante preoccupante “inglese”, più infettiva e virulenta, ma non in grado di sfuggire davvero alle trappole di un sistema immunitario che ha già incontrato altre versioni del virus o che abbia ricevuto un vaccino. Il fatto che sia stata individuata nel Regno Unito non implica che si sia originata lì: è piuttosto un segnale della diligenza di un Paese che sequenzia una percentuale più alta di genomi virali.
B.1.315. Vista per la prima volta in Sudafrica, la cosiddetta variante preoccupante sudafricana forse non si trasmette con maggiore efficacia (fiuf!) ma potrebbe sfuggire a qualche vaccino. Il nome geografico è fuorviante se consideriamo che si trova oggi in almeno 48 Paesi.
P1 e P2. Sono le cosiddette varianti preoccupanti brasiliane, forse non più contagiose di altre (fiuf!).
Per approfondire, video di Vincent Racaniello su nomi e definizioni virali
Scariant. Parola coniata dallo scienziato americano Eric Topol, dalla crasi tra i termini inglesi variant, variante, e scary, terrificante, per descrivere una variante non necessariamente preoccupante, di cui i media parlano in toni apocalittici e terrorizzando la gente.
Diffusione delle varianti preoccupanti. Come facciamo a sapere quanto sono comuni? Non lo sappiamo davvero se non tramite stime in percentuale estrapolate dal numero (in genere basso) dei sequenziamenti di genomi virali effettuati in un determinato periodo e territorio.
Ceppo virale. Si tratta di una variante che possiede caratteristiche uniche e stabili non solo dal punto di vista genetico, ma anche nel comportamento in cellule e animali di laboratorio e negli esseri umani infetti. La designazione di un nuovo ceppo viene data da gruppi di esperti internazionali, con parsimonia analoga a quella dei lessicografi alle prese con un nuovo lemma da far entrare in un dizionario. Nel caso di SARS-CoV-2 c’è finora un unico ceppo virale, e lo stesso vale per molti altri virus noti da più tempo.
Sierotipo. Si usa per descrivere più virus della stessa specie distinti dal punto di vista antigenico ovvero per la risposta immunitaria che producono nell’ospite. Tale risposta è individuabile nel siero, tramite esami che utilizzano anticorpi monoclonali. A oggi, per esempio, si conoscono tre sierotipi per i virus della polio, 1,2 e 3, e l’immunità generata dall’infezione con il tipo 1 non protegge dall’infezione con i tipi 2 e 3.
Clade. Un gruppo di isolati virali inseriti in un albero filogenetico in cui, da un isolato virale considerato ancestrale, si è ricostruita la sua presunta discendenza, in base alle somiglianze nelle sequenze dei diversi genomi.
Alcuni esempi di ciò che è e non è un clade. Fonte: Vincent Racaniello, Virology Blog.