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Siamo sicuri che la Cannabis sia innocua?

Gli studi della neuroscienziata Yasmine Hurd aumentano le conoscenze sulla neurobiologia delle dipendenze e l’utilizzo delle droghe “leggere”

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Qualche decina di anni fa a Bethesda, in Maryland, alla neuroscienziata Yasmine Hurd viene in mente un’idea ardita. Avvicina un patologo dell’Istituto nazionale per la salute mentale statunitense dove lavora. Il patologo ha iniziato da poco a raccogliere e conservare campioni di tessuto cerebrale ottenuti da autopsie di persone decedute, che avevano fatto uso di cocaina. In questi campioni la dottoressa Hurd prova a misurare i livelli degli RNA messaggeri o mRNA. L’idea, intrepida e inedita, è studiare l’espressione di alcuni geni nei neuroni di persone che hanno consumato a lungo queste sostanze, per comprendere meglio la neurobiologia delle dipendenze.

I colleghi sono scettici e le sconsigliano di proseguire. Considerano l’impresa un’inutile e vana perdita di tempo, dato che nell’opinione comune del tempo l’mRNA è una molecola infida, che nelle cellule viventi si degrada troppo rapidamente per dare qualunque risultato affidabile. Figurarsi in tessuti morti e conservati.

Vi ricorda qualcosa? Kati Karikó, la scienziata ungherese che ha studiato per decenni l’mRNA poi usato nei vaccini anti-Covid, ha raccontato più volte che la maggior parte della gente rideva dei suoi studi. Lo scorso 2 ottobre ha ricevuto, con Drew Weissman, il premio Nobel per la fisiologia o la medicina.

Come Karikó, anche Hurd se ne infischia e persiste. E non potrebbe essere altrimenti, data la sua storia, che ho appreso da uno splendido articolo pubblicato su Science da Ingrid Wickelgren (1 settembre 2023). Prima di proseguire, vi avviso che la storia è un po’ lunghetta, ma se avrete un po’ di pazienza, credo che dalla dottoressa Hurd potrete imparare cose molto interessanti sugli effetti delle droghe cosiddette leggere sul cervello. Soprattutto cose fondate su una neurobiologia delle dipendenze finalmente rigorosa. Ma andiamo piano e con ordine.

Bravissima a scuola, Hurd è l’unica studentessa nera tra i ragazzi che si diplomano con lode al liceo pubblico del quartiere popolare di Brooklyn in cui cresce. Nata in Jamaica, quella che è oggi la direttrice dell’Addiction Institute dell’Ospedale Mount Sinai di New York, era arrivata da migrante in città a dieci anni, con i suoi fratelli e la mamma, appena separata dal papà. Si laurea a Binghampton, un’università pubblica dello stato di New York, in biochimica e comportamento, un indirizzo creato apposta per lei, che fin da allora aveva mostrato interesse per queste materie.

Per il dottorato si trasferisce in Svezia, al Karolinska Institutet vicino a Stoccolma, dove contribuisce a sviluppare tecniche per misurare il livello dei neurotrasmettitori nel cervello dei ratti. In alcuni esperimenti usa droghe come anfetamine o cocaina per far aumentare artificialmente la quantità di dopamina. È quest’ultimo un neurotrasmettitore coinvolto in molti circuiti cerebrali, tra cui quelli che regolano la gratificazione e la motivazione.

Sotto l’effetto delle droghe i ratti cambiavano improvvisamente il loro comportamento. Animali di indole tranquilla diventavano improvvisamente iperattivi, se non addirittura aggressivi e pronti ad attaccare quando si aumentavano ulteriormente le dosi.

Hurd torna negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta, per un periodo di post-dottorato al National Institute of Mental Health a Bethesda. Qui impara a usare i metodi di biologia molecolare per studiare come la cocaina modifica le cellule e i recettori del cervello dei ratti.

Dagli studi con gli animali impara molto anche sul nostro cervello sotto l’effetto delle droghe. Dopo tutto, con questi animali siamo strettamente imparentati e buona parte dei loro geni, molecole, cellule assomigliano ai nostri. Ma il sistema nervoso di un ratto presenta anche molte differenze rispetto a quello umano.

Yasmin Hurd desidera che i risultati dei suoi studi siano davvero rilevanti per la salute umana, ed è qui che ha l’idea di studiare i tessuti ottenuti dalle autopsie di persone che hanno fatto uso di droga. Per ovvie ragioni etiche non potrebbe fare negli esseri umani gli esperimenti che conduce nei ratti. Così i tessuti umani conservati dopo le autopsie sono quanto di meglio può trovare per studiare gli effetti delle droghe nella nostra specie.

In questi studi è una assoluta pioniera. Abbiamo già ricordato che nessuno riteneva plausibile ottenere dati affidabili da tessuti cerebrali umani conservati. Invece, contro ogni aspettativa e pregiudizio, con i suoi esperimenti rigorosi Yasmin Hurd ha potuto paragonare i risultati ottenuti nelle due specie. È finalmente diventato possibile distinguere e validare ciò che, individuato nei ratti, si verifica anche nel nostro cervello “under the influence…” e comprendere un po’ meglio la neurobiologia delle dipendenze dalle droghe.

Dal confronto molecolare tra ratti e sapiens emergono sia somiglianze sia differenze indotte dalle droghe. Incoraggiata dai risultati, Hurd torna a Stoccolma, al Karolinska. Qui diventa ricercatrice indipendente e inizia a costruire la propria biobanca di tessuti cerebrali, grazie alle autopsie su persone decedute che in vita avevano fatto uso di anfetamine ed eroina.

Fare uso fin da molto giovani di droghe cosiddette leggere, come la Cannabis, può far passare a droghe più pesanti? La domanda non è nuova e non cessa di suscitare polemiche. Osservazioni epidemiologiche hanno confermato più volte che tra coloro che hanno fatto uso di prodotti ottenuti dalla Cannabis sativa dalla prima adolescenza, le probabilità di diventare successivamente dipendenti da droghe come la cocaina e l’eroina sono maggiori.

Ma la causa è anche biologica o solo ambientale? Per molti il passaggio dalle droghe cosiddette leggere a quelle pesanti sarebbe un fatto dovuto a circostanze perlopiù di ambiente e frequentazioni. Le persone che fanno uso di Cannabis spesso incontrano altre persone che fanno uso anche di sostanze più pesanti, e inoltre acquistano la marijuana o l’hashish da spacciatori che vendono droghe pesanti accanto a quelle considerate leggere.

Perché quando parlo di droghe leggere metto l’accento sull’aggettivo “cosiddette”? La concentrazione del delta-9-tetraidrocannabinolo o THC, il principio attivo della Cannabis sativa, è aumentata di circa quattro volte in appena un quarto di secolo. Più precisamente, è cresciuta da circa il 4% a oltre il 15%, secondo quanto rilevato dai laboratori della U.S. Drug Enforcement Administration (la famosa DEA, che ricorderà chi ha visto la serie “Breaking Bad”) nei campioni di piante, resine e oli di Cannabis sequestrati a partire dal 1995. Dato che il mercato, legale e non, di queste sostanze è mondiale, è verosimile che anche in Italia e in Europa ci siano stati analoghi, forti aumenti. Ciò nonostante, anche negli Stati americani dove la vendita di Cannabis contenente THC è stata legalizzata, raramente ci sono leggi in vigore che ne limitano la potenza. Inoltre sui prodotti non sono indicate le concentrazioni di THC. Ecco perché non sempre le droghe “leggere” sono leggere per davvero.

Ma torniamo a Yasmin Hurd e alla sua esplorazione rigorosa dell’ipotesi biologica. Voleva capire se cambiamenti indotti dall’uso di Cannabis in un cervello giovane avrebbero potuto rendere alcune persone più vulnerabili ad altre sostanze che danno dipendenza. Per dimostrare questa ipotesi, anche chiamata “gateway” o “teoria del passaggio”, Hurd e il suo gruppo hanno esposto alcuni ratti al delta-9-tetraidrocannabinolo o THC, il principio attivo della Cannabis sativa. Hanno quindi trovato che questi animali somministravano a se stessi dosi crescenti di eroina, più alte rispetto agli animali usati come controllo, che da più giovani non erano stati esposti al THC. L’esposizione precoce a questo composto aveva anche modificato l’espressione di alcuni geni in uno dei centri che nel cervello regolano la gratificazione.

Quest’ultima scoperta, in particolare, suggeriva che la Cannabis avrebbe potuto alterare il sistema cerebrale endogeno degli oppioidi. Si tratta dei circuiti nervosi che sono alla base della dipendenza da sostanze d’abuso assunte dall’esterno, ma che producono anche in proprio molecole come le encefaline e le endorfine, ossia gli oppiacei endogeni. Quando proviamo sensazioni di piacere per esempio dopo i pasti, lo sport o il sesso, sono queste molecole e i loro recettori a produrre nel cervello quelle percezioni deliziose, appaganti, disarmanti. Viceversa, una loro soppressione o inibizione ci fa sentire maggiormente lo stress, il dolore, la frustrazione. Non solo, ma il meccanismo della gratificazione fa anche sì che azioni e comportamenti piacevoli siano ripetuti, e che quelli spiacevoli o negativi siano evitati.

Ci sono dunque effetti biologici e non solo ambientali nel passaggio dall’uso di droghe cosiddette leggere a quelle pesanti. I risultati ottenuti da Hurd lo hanno dimostrato in modo rigoroso e hanno iniziato a convincere altri ricercatori, educatori e politici che la biologia va considerata insieme agli effetti dovuti all’ambiente e alle frequentazioni.

Dalla Cannabis si può diventare dipendenti? Fino al 30% dei consumatori non riesce a smettere, nonostante gli effetti negativi percepiti sulla salute e sul benessere, secondo i dati del National Institute of Mental Health di Bethesda.

Gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili. Il cervello possiede infatti un meccanismo interno, il sistema degli endocannabinoidi, con cui produce sostanze simili al THC. Questo sistema ha un ruolo molto importante nella maturazione del sistema nervoso durante l’adolescenza, quando tra le altre cose si sviluppa completamente la corteccia prefrontale, un’area coinvolta nell’auto-controllo e nella capacità di prendere decisioni.

Nei ratti l’esposizione al THC, in età paragonabili all’adolescenza umana, cambia la forma e le funzioni dei neuroni. L’aspetto di queste cellule è di alberelli potati male: una struttura meno ramificata, e una minore capacità di formare collegamenti con altri neuroni. Dall’analisi dei geni espressi in questi neuroni condizionati dal THC è emerso anche che erano simili a quelli che si osservano nei pazienti con schizofrenia. Da osservazioni epidemiologiche si sa, peraltro, da tempo che l’esposizione precoce alla Cannabis può contribuire allo sviluppo di schizofrenia e altre psicosi. Un assottigliamento della corteccia prefrontale dove sono espressi i recettori dei cannabinoidi e una maggiore impulsività sono altri effetti a lungo termine dell’uso precoce di queste sostanze.

Cosa provoca l’esposizione a un’alta dose di THC? Qualche indicazione viene da esperimenti con i ratti. L’equivalente di circa 20 grammi, o quattro caramelle gommose una volta ogni tre giorni, aveva reso alcuni ratti di laboratorio insolitamente sensibili a stress ambientali come l’isolamento sociale. I ratti tendevano a evitare gli altri ratti, un segno di ansia sociale, e a consumare più zucchero rispetto agli animali di controllo, non esposti. L’alta dose rendeva anche gli animali più propensi a comportamenti rischiosi, in un compito che richiedeva di scegliere tra strategie caute o spericolate per ottenere del cibo zuccherino. Gli stessi comportamenti non erano invece stati osservati quando la dose era di 5 grammi, pari a una caramella gommosa ogni tre giorni. Negli esseri umani si sa che l’uso di Cannabis è associata a comportamenti impulsivi, come scommettere molti soldi.

Gli effetti delle alte dosi sono osservabili anche nei cambiamenti anatomici e molecolari del cervello dei ratti. Cellule neuronali di supporto come gli astrociti cambiano forma e mostrano alterazioni nell’espressione di alcuni geni associati alle attività del neurotrasmettitore inibitorio GABA. Basse dosi invece hanno distorto la struttura dei neuroni e indotto modifiche nel sistema degli oppioidi. Anche i meccanismi epigenetici sembrano essere coinvolti, ed è verosimile che qualcosa di simile accada anche negli esseri umani.

Se una donna incinta fa uso di Cannabis, che cosa può accadere al feto? Dato che il THC raggiunge facilmente il cervello in via di sviluppo dopo avere attraversato la placenta, il feto è necessariamente esposto. E le donne che fanno uso di Cannabis, almeno negli Stati uniti, non sono poche. Secondo uno studio americano concluso nel 2019, mediamente il 7% delle donne incinte tra i 12 e i 44 anni ne avevano fatto uso. Ma la cosa ancora più preoccupante era che la percentuale era raddoppiata dal 2002 al 2017.

Per individuare segni di esposizione precoce, Hurd ha potuto studiare campioni di tessuto fetale. In collaborazione con Diana Dow-Edwards, una neurofarmacologa della State University of New York Downstate, ha avuto accesso a una biobanca contenente campioni di tali tessuti, ottenuti da donne con una storia di uso di droghe e che avevano abortito. Hurd e Dow-Edwards hanno trovato segni di alterazioni nel sistema della dopamina, tra cui una ridotta espressione dei recettori di questo neurotrasmettitore nell’amigdala e nel “nucleus accumbens”, aree del cervello coinvolte nel controllo delle emozioni e della gratificazione. I risultati indicano dunque che l’esposizione alla Cannabis in utero potrebbe interferire con la regolazione delle emozioni e contribuire a una vulnerabilità alle dipendenze. Altri risultati hanno mostrato che i geni coinvolti nel sistema degli oppioidi erano espressi in modo alterato e che il citoscheletro dei neuroni aveva assunto forme anomale, contribuendo a una innervazione modificata della corteccia prefrontale fetale.

Hurd e colleghi hanno provato a riprodurre quanto osservato nei tessuti umani in alcune ratte incinte, per poi osservare i comportamenti dei piccoli. Il risultato è stato che i ratti maschi esposti al THC in utero, da adulti si autosomministravano più eroina rispetto agli animali di controllo che non erano stati esposti al THC durante la gestazione. Inoltre questi animali soffrivano di bassa motivazione, tratti depressivi e di una maggiore intolleranza allo stress.

Lo stesso può accadere anche ai bambini? Per 15 anni Yoko Nomura, all’epoca una giovane assistente dell’ospedale Mount Sinai di New York, ha seguito in uno studio longitudinale donne incinte, per osservare successivamente gli effetti, sui loro 724 bambini, di vari fattori tipici dell’ambiente prenatale, tra cui l’esposizione a stress, tossine e obesità materna. Le mamme e i bambini sono stati visitati annualmente e l’mRNA della placenta è stato sequenziato e analizzato.

L’uso della Cannabis da parte delle mamme durante la gravidanza ha stimolato iperattività, ansia e aggressività nei bambini da 3 a 6 anni. Nomura e Hurd hanno descritto queste osservazioni in un articolo sulla rivista Pnas nel 2021, rilevando, tramite analisi dei capelli, che i bambini avevano concentrazioni maggiori di cortisolo, l’ormone dello stress. Anche la funzione immunitaria, che è peraltro regolata dal sistema degli endocannabinoidi, era risultata ridotta.

Quando la legalizzazione della vendita ha creato un clima favorevole a queste sostanze, scopriamo con certezza che gli effetti biologici della Cannabis, soprattutto nei più giovani, sono importanti e preoccupanti. Con un negozio di Cannabis quasi a ogni isolato in alcune città non solo americane, si può essere indotti a pensare che sia tutto sommato innocua. E per dei bambini può essere facile trovare qualche commerciante compiacente, pronto a violare i limiti di età per il guadagno. Ma i danni, come abbiamo visto, possono essere particolarmente duraturi e rilevanti per i feti nella pancia delle mamme, i bambini e gli adolescenti.

Ciò nonostante la dottoressa Hurd non è a favore della criminalizzazione dell’uso di queste sostanze. Non perché facciano bene, tutt’altro. Ma mettere in prigione persone trovate in possesso di droghe per uso personale aggrava e non risolve il loro possibile problema di dipendenza.

Un video in cui Yasmin Hard presenta i suoi studi sulla neurobiologia delle dipendenze (Ospedale Mount Sinai, New York):

Hurd vedrebbe piuttosto con favore la regolamentazione per legge dei limiti di THC e quindi della potenza di queste sostanze. Inoltre, le tasse raccolte dagli Stati per la vendita di questi prodotti dovrebbero essere usati, secondo Hurd, per educare le persone a un uso responsabile. I fondi potrebbero anche essere impiegati per sostenere ricerche su trattamenti più efficaci per combattere e curare le dipendenze. Trattamenti di nuova generazione che potrebbero essere a portata di mano grazie alle scoperte del laboratorio della dottoressa Hurd.

Le dipendenze soprattutto da oppiacei sono aumentate enormemente negli ultimi decenni, a causa dell’epidemia americana seguita alla frode perpetrata dall’azienda Purdue con i farmaci a base di ossicodone. Gli effetti sociali sono tutt’ora devastanti nelle città e nei quartieri più poveri, e per le comunità più marginali. Purtroppo quest’area ben poco “sexy” della ricerca non attira quasi mai i fondi che sarebbero necessari.

Il sogno della dottoressa Hurd? Restituire la vita alle persone che soffrono di dipendenze da sostanze da abuso, e dare respiro alle loro famiglie.

Questo post è prevalentemente tratto dall’articolo di Ingrid Wickelgren, Smoke Alarm, Science (31/8/2023). In apertura, un’immagine in immunofluorescenza dei recettori di tipo 1 dei cannabinoidi, che si trovano ovunque nel cervello adulto (Science, Yasmin Hurd).
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Yasmin Hurd (Wikipedia)
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La concentrazione media di THC nella Cannabis è aumentata di circa quattro volte da quando i primi Stati americani ne hanno iniziato a legalizzare la vendita (Science).
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La ridotta ramificazione di neuroni piramidali di ratto esposti al THC per 24 ore o due settimane (Michael L. Miller, Benjamin Chadwick e colleghi, particolare dalla figura 2, Molecular Psychiatry 2019; 24(4): 588–600).
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Una coltivazione di piante di Cannabis sativa in Francia (immagine: Wikipedia)