Fate fatica a digerire il lattosio? Siete in buona compagnia, con due persone su tre nel mondo che non riescono a demolire il principale zucchero del latte dopo i sette-otto anni di età. A quell’età infatti l’organismo di più del 60% della popolazione mondiale ha smesso di produrre la lattasi, l’enzima che permette ai neonati almeno fino allo svezzamento di nutrirsi di latte materno.
Fino all’ultima era glaciale il latte era essenzialmente un veleno per tutti gli adulti perché nessuno era in grado di digerire il lattosio. Oggi una persona su tre può bere il latte anche da adulta perché ha una mutazione genetica che si chiama lactase persistence (LP).
La mutazione della persistenza della lattasi si è diffusa a una velocità straordinaria in Europa, dopo essersi originata 7500 anni fa circa, in una popolazione che abitava le pianure dell’attuale Ungheria.
Nel Sud dell’Europa la tolleranza al lattosio è però relativamente rara: gli adulti che possono digerire il latte in Grecia e Turchia sono meno del 40%, mentre in Gran Bretagna e Scandinavia sono addirittura 9 su 10.
La capacità di digerire il lattosio negli adulti è distribuita soprattutto nel Nord Europa e nei Paesi dove si sono stabiliti i discendenti degli antichi europei (da Nature).
Perché la persistenza della lattasi negli adulti si è diffusa così rapidamente, e soprattutto nel Nord dell’Europa? Il latte era una fonte di calorie importante, che permetteva di resistere alle carestie, ai capricci del clima e ai cattivi raccolti. Inoltre nell’era pre-frigorifero si conservava meglio nel freddo Nord che nel caldo Sud. Poi la vitamina D contenuta nel latte proteggeva da malattie come il rachitismo, di cui soffrivano soprattutto le persone raramente esposte al sole (dove c’è tanto sole gli esseri umani sono in grado di sintetizzare autonomamente la vitamina D). La persistenza alla lattasi si è affermata però anche in Spagna dove il sole non manca, perciò quest’ultima teoria è un po’ debole.
Tutto è avvenuto per un piccolo, casuale errore genetico, che ha prodotto un cambiamento enorme per gli esseri umani. Un singolo pezzetto di DNA, chiamato timina, ha sostituito un altro pezzetto, detto citosina, in una regione del genoma poco distante dal gene per la lattasi. Altre tre mutazioni più rare, ma con lo stesso effetto, si trovano in popolazioni dell’Africa occidentale, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale.
Tuttavia, quel cambiamento genetico fortuito non si sarebbe mai affermato per selezione naturale se prima non fosse avvenuta un’altra rivoluzione, non genetica ma tecnologica. La cosiddetta rivoluzione del latte è infatti iniziata in Medioriente circa 10.000 anni fa, quando alcuni pastori hanno iniziato a fermentare il latte, ottenendone yogurt e formaggi contenenti piccolissime tracce di lattosio. L’agricoltura e l’allevamento, con l’aiuto delle calorie dei primi latticini, cominciavano a prendere piede e a sostituire un’economia di caccia e raccolta.
Molti formaggi fermentati, come la feta o il cheddar, hanno una piccola frazione del lattosio che si trova nel latte fresco, per non parlare dei formaggi stagionati a pasta dura, come il parmigiano, che non ne hanno quasi traccia.
È chiaro che i pastori del Neolitico erano inconsapevoli della chimica e della microbiologia del processo di trasformazione del latte. Ma quelle tecnologie che 10.000 anni fa iniziavano a sfruttare le materie prime ottenute dagli animali di allevamento creavano un terreno fertile su cui la persistenza della lattasi sarebbe attecchita. Prima tutto ciò non sarebbe potuto avvenire perché l’uomo non allevava animali, e dunque la genetica non avrebbe avuto a disposizione il latte con cui testare i suoi esperimenti.
Quel che sappiamo della diffusione del latte e dei latticini nella storia lo dobbiamo almeno in parte al progetto LeCHE (lactase persistence in the early cultural history of Europe). I fondatori del progetto sono Mark Thomas, genetista di popolazione dell’University College London, Joachim Burger, paleogenetista dell’Università di Mainz, e Matthew Collins, bioarcheologo dell’Università di York. Con gli strumenti della genetica, dell’archeologia, della paleontologia e della chimica, questi scienziati vogliono capire come le popolazioni europee si sono mescolate, spostate, evolute. E lo vogliono fare come moderni Hänsel e Gretel, ritrovando il cammino fra le tracce di latte e formaggini, sparse dal Medioriente all’Europa.
L’influsso di coloni dal Medioriente aveva spiazzato i locali, con quella combinazione invincibile di vantaggi tecnologici e genetici? Oppure i cacciatori-raccoglitori nativi dell’Europa si erano messi anche loro a coltivare e a fare i pastori? Questa è una domanda a cui tutti gli archeologi vorrebbero poter rispondere e qualche indizio sta arrivando dallo studio delle ossa del bestiame dei siti del Neolitico.
Jean-Denis Vigne, archeozoologo al Museo di Storia naturale di Parigi, ha trovato soprattutto ossa di animali giovani. Se il bestiame è allevato soprattutto per produrre il latte, in genere i vitelli sono macellati prima del primo anno di età, quando le loro ossa sono ancora abbastanza piccole e le madri possono ancora fare il latte. Gli animali allevati per la carne invece sono macellati più tardi, quando raggiungono la dimensione tipica degli adulti (e lo stesso, anche se a età diverse, avviene in capre e pecore, che insieme alle mucche hanno fatto parte della rivoluzione casearia). Vigne ha perciò suggerito che la lavorazione del latte in Medioriente sia iniziata almeno 10.500 anni fa, quando gli esseri umani hanno cominciato ad addomesticare gli animali.
Gli animali di allevamento degli insediamenti neolitici europei erano più strettamente imparentati con le mucche del Medioriente che con i bisonti europei indigeni. Questi risultati di un’analisi paleogenetica sono una forte indicazione che i pastori migranti si erano portati con sé gli animali piuttosto che addomesticare le bestie incontrate all’arrivo in Europa.
Dati che vanno nella stessa direzione vengono dal DNA umano trovato in alcuni siti dell’Europa centrale, le cui sequenze suggeriscono che gli agricoltori del Neolitico non discendevano dai cacciatori-raccoglitori che vivevano lì prima.
Infine anche le ceramiche ci parlano di latte. Mélanie Roffet-Salque, geochimica dell’Università di Bristol, ha analizzato i residui dei grassi preservati nell’argilla porosa di alcuni frammenti di ceramica con piccoli buchi, ritrovati in un sito archeologico polacco di circa 7400 anni fa. Gli abbondanti resti di grassi del latte che Roffet-Salque ha trovato sono una delle prove più antiche di produzione del formaggio al mondo e testimoniano che quelle ceramiche erano usate fin da allora come setacci per separare la parte solida dal siero del latte.
La produzione del formaggio in un libro del 14° secolo (da Tacuina sanitatis, Wikipedia)
Quindi, ricapitolando, le cose potrebbero essere andate così: bande di agricoltori e pastori provenienti dal Medioriente si sarebbero diffuse in Europa, attorno a 7500 anni fa, portando con sé una nuova cultura agricola e casearia. Già questo corredo tecnologico sarebbe forse bastato a spodestare le culture di cacciatori-raccoglitori che avevano vissuto in Europa per millenni. Ma la seconda puntata genetica della rivoluzione del latte potrebbe aver dato il colpo finale alle popolazioni sprovvedute di tecnica e biologia favorevoli.
Le tecniche di produzione dei latticini sono migrate dal Medioriente all’Europa
fra 10.000 e 6500 anni fa (da Nature)
La potenza della mutazione genetica, accoppiata alla tecnologia del latte, è evidente se guardiamo ai numeri: si è diffusa in un terzo della popolazione del pianeta, in qualche migliaio di anni, un tempo brevissimo sugli intervalli dell’evoluzione. Se oggi la maggioranza dei discendenti di quegli antichi europei tollera il lattosio, è perché sono in buona parte pronipoti dei primi pastori diventati tolleranti al lattosio, pastori che con la loro ondata migratoria hanno seminato un sentiero bianco e duraturo dal Medioriente all’Europa.
Questo è uno degli esempi più nitidi di coevoluzione genetica e culturale della nostra specie. In generale quando la gente parla di evoluzione pensa soprattutto alla parte genetica, dimenticando che negli esseri umani lo sviluppo della cultura e della tecnologia è importante almeno quanto la biologia.
Altri studi stanno seguendo cambiamenti analoghi avvenuti nella dieta degli antichi agricoltori. Ad esempio con l’origine delle amilasi, che ci permettono di digerire l’amido, o dell’alcol deidrogenasi, che ci consente di bere alcolici.
Tornando al latte, la mia cara adolescente in crescita beve tre litri di latte a settimana, è decisamente bionda e ha qualche antenato svedese; io col latte ho smesso da bambina, sono castana e ho avi pugliesi. Chissà se anche nel DNA portiamo tracce di queste differenze? E poi, sarà forse un caso, ma io, che detesto il latte, metterei il parmigiano anche nel caffè.
Per scrivere questo post ho letto The milk revolution, l’ottimo reportage di Andrew Currie su Nature del 31 luglio 2013 sui risultati del progetto LeCHE. Da lì ho continuato a cercare tracce di latte e formaggi, esplorando i siti degli scienziati che hanno partecipato al progetto. L’origine delle immagini è indicata nelle didascalie. L'immagine di apertura è di Chiara Levy, che con i suoi editing riscuote un discreto successo su Instagram.