Il logo del progetto lanciato dalla UCSF assieme a Translators without borders.
Per gli studenti sarà un’occasione unica di pensare con chiarezza, evitare il gergo medico e farsi capire dalla gente comune. Sì, perché solo chi pensa bene scrive anche bene ed evitare le astrusità, specialmente in medicina, è prioritario (grazie Luisa Carrada per i sempre ottimi link).
Che un dottore debba saper parlare con noi, comuni mortali, sembrerebbe una cosa ovvia, scontata, banale. Ma poveri medici, mettiamoci nei loro panni: tutta l’educazione che ricevono, fin dai corsi del primo anno, va in direzione opposta: chilometri di impenetrabili parole, annodatissimi acronimi, espressioni singolari finiscono nella testa dei giovani dottori. A mandare a memoria tanta stranezza ci vanno dei bei neuroni, ma poi quel linguaggio strambo a chi serve?
Il gergo serve (forse) a capirsi rapidamente e senza ambiguità con gli altri medici, ammesso che tutti parlino lo stesso “dialetto”. Con la specializzazione ciclopica di oggi, dubito che un immunologo capisca le sigle di uno psichiatra o che un dermatologo riesca a decifrare i grafici di un cardiologo. Se i medici fra loro (forse) si intendono, il loro linguaggio non è ideale per i pazienti che in genere sono anche confusi dalla paura della malattia. Se all’ansia aggiungiamo le informazioni il più delle volte strampalate che si trovano in rete, il risultato è un gran minestrone. Da quando esiste Internet diversi medici si sono messi un po’ in trincea. I dottori hanno poco tempo e un linguaggio tecnico, poco adatto a spiegare, approfondire, correggere le idee bizzarre che i pazienti si possono essere fatti in rete. Nasce così la medicina difensiva, che non parla ai pazienti disinformati, soprattutto se percepiti come aggressivi. Ma un paziente che non capisce è un paziente che avrà scarsa fiducia e non si lascerà curare. Si instaura così un circolo vizioso di reciproche incomprensioni che a volte finisce in tribunale. Un’idea diversa del ruolo del medico quale interprete del gergo è venuta a Michael Turken, un giovane dottore che si sta specializzando a Stanford ed è l’ideatore del progetto di UCSF. A organizzare il tutto ci ha poi pensato Amin Azzan, professore ed esperto di formazione medica a UCSF. «Per quanto tempo un test per l’AIDS può risultare negativo se c’è un’infezione da virus HIV?» Aveva chiesto a Turken un amico qualche anno fa. Per due settimane, o 14 giorni, sosteneva l’amico, ma al (quasi) dottor Turken quel dato non suonava giusto. L’amico di Turken aveva trovato la risposta su Wiki. Peccato che il test dell’HIV può dare un esito falso negativo fino a ben 28 giorni dall’infezione, e non soltanto 14, a seconda del tipo di test usato (le particelle del virus HIV sono rilevabili soltanto dopo un certo periodo dopo l’infezione, che varia a seconda della sensibilità del test e di altri fattori). I grandi numeri sono come sempre il problema. L’articolo che riportava l’informazione errata sul test dell’HIV era stato letto da tantissime persone, a volte decine di migliaia in un mese. Persone che forse, fidandosi di quel numero 14 che è ben diverso da 28, si sono esposte a comportamenti sessuali a rischio o hanno esposto altri. Ecco perché il lavoro di questi futuri medici-scrittori è encomiabile e va giustamente premiato con crediti: aiuterà milioni di persone a trovare spiegazioni chiare, semplici, attendibili su Wiki. Ho scoperto questa impresa che mi ha riempito di entusiasmo tramite le parole di Noam Cohen, che ne ha scritto sul New York Times. L’immagine di apertura in homepage e l’immagine in mezzo al testo sono tratte da Wikipedia e sono rilasciate sotto licenza Creative Commons.