«La conoscenza delle scienze naturali, del metodo scientifico, mi ha sempre tenuto in guardia, e dov’è stato possibile ho cercato di conformarmi ai dati scientifici; dove ciò non è stato possibile, ho preferito non scrivere affatto».
Di Anton Čechov scrittore si è detto moltissimo, parecchio del medico, molto meno del suo sguardo da scienziato naturale. Eppure, se si presta attenzione, tracce dell’interesse costante per la vita si trovano ovunque, nel teatro, nei racconti, nelle lettere, come un fiumiciattolo che scorre ovunque sottotraccia.
«Nell’arte le convenzioni non permettono sempre una piena adesione ai dati scientifici; non si può descrivere o rappresentare sulla scena una morte per veleno così com’essa avviene realmente. Ma l’adesione ai dati scientifici deve farsi sentire anche in tali circostanze, cioè bisogna che al lettore o allo spettatore sia chiaro che lo scrittore, al di là delle convenzioni alle quali è obbligato, ha una reale competenza in materia».
«Io non appartengo ai letterati che hanno verso la scienza un atteggiamento negativo». In questo Čechov è molto diverso da Tolstoj, i cui romanzi ama moltissimo e considera capolavori insuperabili. Prende però progressivamente le distanze dalla filosofia tolstojana, che sente come poco amica dell’umanità, nonostante gli intenti.
«Essa m’ha dominato per sei o sette anni; su di me influivano non tanto le sue tesi fondamentali, che conoscevo già da prima, quanto la sua particolare maniera d’esprimersi, il suo parlare per sentenze e, probabilmente, una specie d’ipnotismo».
«Al progresso ho creduto sin dall’infanzia, e non potevo non crederci, poiché la differenza tra quando mi si frustava e quando smisero di frustarmi, fu enorme». Nipote di servi della gleba e nato poverissimo, Čechov è sensibile alle atroci condizioni di vita dei contadini russi.
«Ora invece qualcosa in me protesta. Un ragionamento imparziale mi dice che c'è più amore per l’umanità nella forza elettrica e nel vapore, che nella castità e nell’astenersi dal mangiar carne». Rispetto ai precetti predicati da Tolstoj, Čechov ritiene che, per far uscire dall’indigenza centinaia di milioni di contadini, i progressi della scienza siano più efficaci e meno velleitari.
A Tolstoj Čechov rimprovera bonariamente l’antipatia per la medicina e per i dottori, in un commento ironico sulla cura della ferita letale, subita in battaglia da uno dei protagonisti di Guerra e Pace. «Se fossi stato accanto al principe Andrej l’avrei guarito. Fa una strana impressione leggere che la ferita del principe, un uomo ricco, curato giorno e notte dal dottore, assistito da Sonja e Nataša, esalava un odore di cadavere. Com’era arretrata la medicina, a quei tempi! Mentre scriveva il suo grande romanzo, Tolstoj si dev’essere, suo malgrado, imbevuto d’odio per l’arte medica!».
Sempre squattrinato, Čechov è generoso sostenitore di opere pubbliche. Diffidente della politica, della retorica, delle parole vuote, è il suo modo di dare un contributo tangibile e concreto a opere plasmate dalla sua visione scientifica e di progresso. Diventato presto famoso con i racconti pubblicati a puntate sui giornali, guadagna per mantenere tutta la sua ingombrante famiglia (padre, madre, sorella, fratelli, cognate, nipoti…). Non gli avanzano quasi mai soldi e pur indebitandosi, aiuta a costruire un ufficio postale, una strada provinciale e più di una scuola, tra cui quella di Melichovo, vicino alla dacia dove passa sette anni. Qui si prodiga anche per l’assistenza alle partorienti e il controllo della sanità nelle fabbriche.
Sull’istruzione non tollera l’ipocrisia di potenti e privilegiati. «Quanti bei discorsi a proposito di scuole, di biblioteche rurali, di istruzione obbligatoria, ma se tutti questi ingegneri, industriali e signore di sua conoscenza non facessero gli ipocriti e credessero veramente che l’istruzione è necessaria, non darebbero agli insegnanti quindici rubli al mese come adesso, e non li farebbero morire di fame». Suona attuale?
Nel 1897 sembra che in Russia debba scoppiare un’epidemia di peste. Una lettera mostra un medico ben consapevole e informato della miserevole situazione sanitaria del Paese. «Quanto alla peste, se verrà o no da noi, non si può dire ancora niente di preciso. Se arriva, è poco probabile che spaventi molto, giacché tanto la popolazione quanto i medici sono abituati da molto tempo ormai a un’alta mortalità, grazie alla difterite, al tifo, ecc. Vedete, anche senza peste da noi, su mille persone, quattrocento appena raggiungono i cinque anni d’età; né in campagna né in città entro le fabbriche e nei vicoli troverete una sola donna sana».
«Il pauroso è se la peste comparirà due o tre mesi dopo il censimento; il popolo interpreterà il censimento a modo suo e comincerà a caricar di legnate i medici che avvelenano la gente superflua, dice, perché i signori abbiano più terra». Čechov sa bene che la gente avrebbe complottato fantasiosamente sull’origine dell’epidemia, soggiogata com’era da povertà estrema, senso di impotenza e ignoranza sulle vere cause di un’infezione: i microbi.
«La quarantena non è una misura seria. Qualche speranza danno i vaccini di Haffkine, ma sfortunatamente Haffkine non è popolare in Russia: “i cristiani debbono guardarsi da lui, perché è un giudeo”». Ora come allora, l’ostilità nei confronti della scienza va spesso a braccetto con l’antisemitismo. All’epoca di Čechov, a fine Ottocento, se la prendono con il batteriologo Waldemar Haffkine, che aveva sviluppato un discreto vaccino contro la peste. Oggi attaccano il virologo Peter Hotez, che ha messo a punto l’unico vaccino non profit contro il Covid, usato ampiamente e con successo in molti Paesi poveri.
Čechov disperde sapere biologico con leggerezza e ironia perfino quando parla della sua tubercolosi, la malattia che lo ucciderà ad appena 44 anni. Passa gli ultimi inverni come un esule nella tiepida Crimea, per ordine dei medici che temono per lui gli effetti del gelo della capitale. «Sì, sono a Jalta e resterò qui finché non cadrà la neve. Non avevo voglia di partire da Mosca, proprio nessuna voglia, ma ho dovuto andarmene perché seguito ancora a trattenere dei rapporti illegittimi con i bacilli».
Nel giardino di Jalta coltiva rose, acacie, peonie, insieme ad altre piante e fiori che si ritrovano, descritti con amore e sapienza, in un’infinità di racconti e commedie.
Quanto è straordinariamente poco scientifica la conduzione di una fattoria russa di fine Ottocento agli occhi di Čechov? «La strage in massa non ha un minuto di tregua nel corso della giornata. Si ammazzano i passeri, le rondini, i calabroni, le formiche, le gazze, i corvi affinché non divorino le api; si massacrano le api per impedire che danneggino i fiori degli alberi da frutta, e si abbattono questi stessi alberi affinché non impoveriscano il suolo. Ne risulta così una rotazione che, pur essendo originale, non si fonda sulle più recenti conquiste della scienza».
Nel 1890, giovane medico di appena trent’anni, Čechov assiste da solo e gratuitamente gli abitanti di 25 villaggi durante un’epidemia di colera. In quella situazione drammatica, il dottore sposato alla medicina non ha tempo per il conforto dell’amante letteratura (così lui stesso descrive i due mestieri che si contendono la sua vita). Eppure confessa che «nel colera c’è anche molto di interessante, se uno riesce a guardarlo con un po’ di distacco».
L’interesse per l’osservazione delle più dure condizioni umane lo porta testardamente a Sachalin. Non ascolta chi cerca di dissuaderlo dal lunghissimo e disagevole viaggio verso l’isola oltre l’estremo oriente siberiano, dove vivono generazioni di forzati. Da qui porterà a casa impressioni indelebili di un abbrutimento opprimente, oltre alle proprie condizioni di salute peggiorate. Il resoconto è un libro cupo, da cui non emerge il narratore sempre pieno di “leggerezza, ironia, estro, amarezza, inquietudine”, per dirla con Fausto Malcovati, il maggiore studioso italiano di Čechov.
Di ritorno da quell’inferno senza speranza, Čechov rifugge al compito che si è dato, di raccontarlo in un rapporto. Compila una sorta di resoconto fattuale, trascinandoselo per anni perché il ricordo lo opprime e la stesura lo annoia. Eppure anche in quelle pagine poco felici si annidano perline scientifiche. Come le diagnosi fantasiose che legge nei registri dell’isola: “allattamento eccessivo, inabilità alla vita, malattia mentale del cuore, esaurimento interiore, polmonite curiosa, malattia del dottor Speer, e così via”. O l’osservazione di una parte del ciclo di vita del pesce keta: «Entra nella foce del fiume forte e sana, ma poi la lotta inesausta contro la rapida corrente, l’affollamento e la fame la estenuano, si assottiglia e si copre di ecchimosi a causa dell’attrito e degli urti contro sassi e tronchi, la sua carne diventa floscia e bianca; il pesce digrigna i denti e cambia completamente fisionomia, cosicché i profani la scambiano per un’altra specie e la chiamano non keta, bensì anguilla lupo».
Animali di ogni tipo ricorrono in tutti gli scritti di Čechov, persino nelle lettere alla moglie, l'attrice Ol’ga Knipper, che di volta in volta chiama affettuosamente cavallina, cimicetta, capodoglina. A un certo punto le scrive: «Amami o sposerò un millepiedi». Celeberrimo è il racconto Kaštanka, narrato dal punto di vista di un cagnolino bastardo. Ma anche animali come gli insetti ricevono descrizioni degne di un etologo.
Crudamente incantevole è la vicenda della mosca, che il ragazzino Egòruška e il cocchiere Dèniška offrono in pasto a una cavalletta da loro catturata, in un memorabile passo della Steppa.
La cavalletta «con indifferenza, quasi che da un pezzo conoscesse Dèniška, mosse le sue grandi mandibole simili alla visiera di un berretto e divorò il ventre della mosca. Poi fu liberata, brillò col rovescio rosa delle ali e, lasciatasi cadere tra l’erba, riprese la sua canzone. Anche la mosca fu liberata, spiegò le ali e senza ventre se ne volò verso i cavalli».
«Io rappresento la vita così com’è, punto e basta. Più in là non mi farete andare nemmeno con la frusta. Non ho scopi immediati né lontani […], non ho concezioni politiche, non credo nella rivoluzione, non ho un dio, non temo i fantasmi, la morte, la cecità».
Sempre indipendente e intollerante a idealismo e ideologie, così scrive nel 1892 a Suvorin, editore e amico di una vita, da cui si separerà per la diversa visione sull’affare di Alfred Dreyfus, per Čechov chiaramente innocente. È una delle rare questioni politiche di cui si occupa perché, dice, gli scrittori devono occuparsi di politica quel tanto che è necessario per difendersi da lei.
Agli esseri umani, come agli altri animali, Čechov guarda senza alcuna sublimazione, con realismo benevolente. Mostra tenerezza e tolleranza per una natura che non giudica, che considera né buona né cattiva, e che riassume nella contraddizione di fondo che vede nella condizione umana: «Un dispiacere di vivere stranamente combinato alla paura di morire».
Considerato un maestro del linguaggio parlato, Čechov traduce lo sguardo diretto, fattuale, da osservatore neutrale del mondo naturale, in una scrittura rapida, precisa, onesta. Infiniti frammenti di vita sono raccontati in poche righe, con una prosa semplice, mondata di aggettivi e altri orpelli che considera inefficaci oltre che inutili. Poche battute, pezzetti di dialoghi, brevi descrizioni portano subito chi legge nel mezzo di scene di esistenza quotidiana che hanno ancora oggi, a più di un secolo di distanza, tanta immediatezza e verosimiglianza.
Forse è proprio la conoscenza degli intimi processi della vita a tenere Čechov con i piedi per terra. Secondo il poeta inglese W.H. Auden, era il migliore degli scrittori russi perché, come confidava a Iosif Brodskij, era “l’unico dei vostri che abbia un briciolo di senso comune”.
«Se la morte è davvero una sfida, devo affrontarla come un buon scienziato, con coraggio e serenità. E invece sto proprio rovinando il finale». A Nikolaj Stepanovič, nel racconto Una storia noiosa, mette in bocca queste parole che potrebbero essere le sue. Nelle lettere vicino alla fine cerca di rassicurare i parenti, mistificando sulle condizioni reali della sua malattia, che però sa bene di essere giunta al termine.
«Che cos’è la vita? È come chiedere che cos’è una carota. Una carota è una carota, di più non si sa». Così Čechov risponde in una tarda lettera alla moglie, che in un momento di sconforto si chiedeva che senso avesse la sua, la loro esistenza.
– Anton Pavlovič Čechov, Racconti, introduzione di Fausto Malcovati, traduzione di autori vari, Garzanti (2013);
– Anton Čechov, Vita attraverso le lettere, Profilo biografico e scelta a cura di Natalia Ginzburg, traduzione di Gigliola Venturi e Clara Coïsson, Einaudi (1989);
– Fausto Malcovati, Il medico, la moglie, l’amante - Come Čechov cornificava la moglie-medicina con l’amante-letteratura, Marcos y Marcos (2015);
– Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi (1987).
Tutte le citazioni vengono da questi libri.
Buone vacanze a buone letture!