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40 anni di HIV

40 anni dopo l’identificazione del retrovirus umano responsabile dell’AIDS, ecco cosa sappiamo della malattia e cosa ci aspetta in futuro

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Il Ground Control di Parigi è un luogo informale in cui le persone si incontrano, si scambiano idee e danno vita a nuovi progetti. A passeggiare tra i tavoli gremiti di giovani all’ora dell’aperitivo non si può fare a meno di pensare che questo è davvero il posto ideale per portare la scienza a contatto con il grande pubblico. E così è stato la sera del 1° giugno, quando nella sala conferenze del Ground Control Francoise Barré-Sinoussi e altri ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi hanno incontrato e risposto alle domande del pubblico nel corso dell’incontro Le VIH, 40 ans après («L’HIV, 40 anni dopo»).

Sono trascorsi esattamente 40 anni da quando Francoise Barré-Sinoussi ha scoperto il retrovirus umano responsabile di una delle più gravi e durature pandemie virali. Una scoperta che ha portato la ricercatrice francese e Luc Montagnier a vincere il premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 2008.
Nei 40 anni trascorsi dalla scoperta del virus, l’Istituto Pasteur di Parigi ha continuato a essere uno dei protagonisti mondiali della ricerca sull’HIV e delle strategie per contrastarne la diffusione: in questo articolo, vediamo alcuni dei progressi più significativi degli ultimi anni.

1. HIV, maestro di camouflage

Dal giorno della sua scoperta, il 20 maggio 1983, il virus HIV non ha mai smesso di stupire per la sua incredibile capacità di sfuggire a tutti i sistemi di difesa dell’organismo e di rimanere indisturbato per anni all’interno del corpo: un vero maestro del camouflage, che non solo è in grado di instaurare infezioni latenti che durano anni, ma che lo fa all’interno delle cellule del sistema immunitario mandando in cortocircuito tutti i sistemi di difesa dell’organismo. Come se non bastasse, il virus ha un alto tasso di mutazione che produce una quantità di varianti virali che non ha paragoni con altri virus: un altro modo con cui HIV sfugge continuamente alla risposta immunitaria.

Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che HIV si può propagare da una cellula all’altra senza bisogno di seguire il canonico ciclo infettivo, che prevede la formazione di nuovi virioni che gemmano dalla superficie della cellula infettata e vanno ad attaccare altre cellule. Il virus è infatti in grado di sfruttare una scorciatoia molto particolare, costituita dai ponti citoplasmatici che le cellule immunitarie formano per comunicare tra di loro nel corso delle cosiddette «sinapsi immunologiche». Questo trucco permette al virus di propagare l’infezione senza dover diffondere virioni all’esterno delle cellule, lì dove potrebbero venire intercettati e distrutti dagli anticorpi e dagli altri meccanismi di difesa immunitaria.

A confermare che HIV è uno dei virus più scaltri con cui i virologi si devono confrontare ha contribuito anche la recente scoperta del gruppo di ricerca di Francesca Di Nunzio, la ricercatrice italiana che dal 2018 dirige il laboratorio di Virologia Molecolare dell’Istituto Pasteur.

Per molto tempo i virologi hanno creduto che la retrotrascrizione del genoma di HIV (da RNA a DNA) avvenisse nel citoplasma delle cellule infettate. Il gruppo di ricerca di Francesca di Nunzio ha però dimostrato un comportamento imprevedibile e mai descritto prima: dopo l’infezione, l’RNA virale migra nel nucleo della cellula infettata e si raggruppa a formare i cosiddetti «organuli nucleari senza membrana», delle strutture molto dinamiche in cui l’RNA viene retrotrascritto in DNA prima di essere integrato nel genoma della cellula infettata.

La funzione di questi organuli senza membrana è ancora oggetto di studio: potrebbero contribuire a preservare il genoma virale dalla degradazione cellulare oppure a concentrare in un ambiente ristretto tutti gli enzimi di cui il virus ha bisogno per replicarsi. Se è così, questo è certamente un modo molto efficiente che permette a HIV di portare avanti il proprio ciclo infettivo, ma potrebbe trasformarsi anche nel suo tallone d’Achille: impedire la formazione di questi organuli senza membrana potrebbe diventare l’obiettivo di nuove terapie anti-HIV.

2. Le scimmie sieropositive che non si ammalano mai

Il virus HIV è uno dei casi più emblematici di salto di specie. Per questo, è importante studiare, in parallelo all’infezione umana, anche il comportamento che questo virus ha nelle altre specie, in particolare nei primati.

Per approfondire il salto di specie di HIV e la nascita della pandemia di AIDS puoi ascoltare la prima puntata del podcast di Aula di ScienzeVoci in Agenda: HIV, zoonosi e One Health.

Tra tutti i primati, c’è n’è uno – il cercopiteco gialloverde (Chlorocebus sabaeus) – che da anni cattura l’interesse di Michaela Müller-Trutwin, responsabile dell’Unità dell’Istituto Pasteur che si occupa dei meccanismi di infiammazione e latenza innescati dal virus HIV. I cercopitechi gialloverdi africani rappresentano infatti il più grande serbatorio naturale del virus SIV, cioè il Simian Immunodeficiency Virus (l’analogo dell’HIV nelle scimmie) ma, a differenza di quanto avviene negli esseri umani, non sviluppano mai alcun sintomo. Come mai? La risposta sembra stare nell’infiammazione. Infatti, anche se il virus infetta le cellule di queste scimmie in modo persistente non scatena mai un’infiammazione cronica.

Un altro aspetto intrigante dei primati è che il virus è molto abbondante nel circolo sanguigno ma praticamente assente nei linfonodi. Che cosa permette a queste scimmie di tenere il virus al di fuori dei linfonodi? A fare la differenza sarebbero le cellule NK (o cellule Natural Killer), cioè cellule del sistema immunitario innato che nel cercopiteco gialloverde sembrano essere molto efficaci nel mettere in campo una risposta difensiva già nelle prime fasi dell’infezione.

Queste scoperte sono un indizio di quanto le primissime fasi dell’infezione siano fondamentali per stabilire il corso della partita che si gioca tra virus e corpo umano e sono uno spunto prezioso per progettare nuove strategie terapeutiche.

3. L’importanza di un trattamento precoce

Un altro indizio di quanto le prime fasi dell’infezione siano fondamentali per stabilire il decorso dell’infezione arriva da un particolare gruppo di pazienti, chiamati “controllori post-trattamento”. Queste persone hanno tutte una caratteristica in comune: riescono a controllare l’infezione virale per anni, alcuni anche per decenni, dopo la sospensione del trattamento antiretrovirale. In altre parole, i controllori post-trattamento raggiungono una remissione duratura dall’infezione da HIV. Ma come ci riescono?

Il ricercatore dell’Istituto Pasteur Asier Sáez-Cirión ha scoperto che quasi tutti i controllori post-trattamento hanno iniziato i primi trattamenti antiretrovirali molto precocemente, già nelle prime settimane dopo l’infezione. Inoltre, grazie a un modello di infezione nei macachi, ha potuto verificare che il trattamento tempestivo favorisce la formazione di linfociti CD8 di memoria, cioè di cellule dell’immunità adattativa che, nel tempo, contribuiscono a tenere a bada l’infezione. Questo può aiutare a spiegare perché, anche se interrompono la terapia, i controllori post-trattamento continuano a tenere a bada l’infezione. Ma, è bene ricordarlo, questi sono casi molto specifici e questi dati non devono essere interpretati come il lasciapassare per interrompere le terapie in corso. Piuttosto, queste scoperte potrebbero diventare un trampolino per la messa a punto di nuove strategie basate su tre punti strettamente legati tra di loro:

  1. in caso di infezione, è fondamentale iniziare il trattamento il prima possibile
    quindi
  2. è sempre più importante poter diagnosticare l’infezione a uno stadio molto precoce
    quindi
  3. è indispensabile continuare a sensibilizzare la popolazione all’uso di test diagnostici per scoprire se, dopo contatti a rischio, si è diventati sieropositivi.

L’infezione da HIV può infatti passare inosservata per anni senza dare sintomi evidenti: per scoprirla e trattarla precocemente servono test diagnostici, che oggi in alcune città, per esempio Milano, sono ad accesso libero (senza prenotazione), anonimo e gratuito.

4. Tre pazienti molto speciali

Il primo è stato il “paziente di Berlino”: nella storia dell’HIV, questo è stato il primo caso in cui una persona sieropositiva si è trasformata in “controllore naturale”.

A rendere così speciale questo caso è stata una combinazione di fattori: il paziente di Berlino era infatti una persona sieropositiva che ha sviluppato anche una leucemia, cioè un tumore del sangue. Visto che non rispondeva alla chemioterapia, per trattare la leucemia il paziente è stato sottoposto nel 2009 a un trapianto di midollo osseo, cioè un trapianto del tessuto che dà origine a tutte le cellule del sangue, comprese quelle del sistema immunitario che sono il bersaglio dell’infezione di HIV.

Il donatore del midollo osseo usato per il trapianto aveva però una caratteristica molto rara, presente in circa l’1% della popolazione: era infatti portatore di una mutazione a CCR5, cioè la proteina che, insieme al recettore CD4, permette al virus HIV di agganciare e infettare le cellule. In presenza di questa mutazione di CCR5, l’infezione di HIV viene bloccata.

Grazie al trapianto, il sistema immunitario del paziente di Berlino si è quindi trasformato in una roccaforte inattaccabile per il virus. Questo paziente ha vissuto per dieci anni senza bisogno di trattamenti antiretrovirali ed è poi deceduto a causa di una ricaduta della leucemia. Dopo questo primo caso, ci sono stati almeno altri due pazienti – quello di Londra nel 2019 e quello di Düsseldorf nel 2023 – che hanno raggiunto una remissione naturale dopo un trapianto di midollo osseo.

Di fronte a questi risultati, la tentazione sarebbe quella di pensare che un trapianto di midollo da donatori con mutazioni di CCR5 sia la strategia terapeutica vincente. Purtroppo, non è così: nel mondo ci sono milioni di persone sieropositive ed è impensabile trattarle tutte con un trapianto di midollo osseo che, di per sé, è un trattamento molto invasivo e con alcuni rischi. Ciò non toglie che questi tre pazienti così unici siano casi preziosi, perché mostrano che – alterando specifici circuiti molecolari, come quello dipendente da CCR5 – è possibile mandare in cortocircuito l’infezione e ottenere una condizione di remissione naturale della malattia.

Questa è la condizione più vicina a una “guarigione” a cui sia mai stato possibile arrivare in pazienti sieropositivi e rappresenta un traguardo a cui oggi si può guardare con un po’ più di ottimismo.

5. Gli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro

Negli anni Novanta del secolo scorso sono stati scoperti in persone sieropositive alcuni anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro o bNAbs (broadly Neutralizing AntiBodies): la loro particolarità – ciò che li rende così preziosi per la ricerca – è la capacità di riconoscere e bloccare numerose varianti del virus HIV.

Quello delle varianti virali è un problema con cui abbiamo acquistato familiarità nel corso della pandemia di COVID-19: l’alto tasso di mutazione di SARS-CoV-2 è proprio ciò che ci costringe a una continua rincorsa per tenere traccia delle mutazioni che il virus accumula nel suo genoma e che potrebbero modificare il suo comportamento o renderlo immune agli attuali vaccini.

Un meccanismo simile lo ritroviamo anche nel virus HIV, ma all’ennesima potenza. La variabilità genetica che un singolo virione di HIV può generare in una sola persona è così elevata da superare, in assenza di trattamento, quella prodotta dal virus dell’influenza durante una pandemia che coinvolge milioni di persone. Nel caso del virus HIV, quindi, le mutazioni accumulate dal virus non variano solo da individuo a individuo, ma addirittura da cellula a cellula dello stesso individuo!

Questo si traduce in un’enorme difficoltà di trattamento, perché un anticorpo efficace contro una certa variante può non esserlo contro le migliaia di altre varianti che, nelle persone che non seguono un trattamento antivirale, possono emergere in breve tempo. Ecco perché gli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro, in grado di bloccare diverse varianti, sono stati una scoperta sensazionale.

Una scoperta che, però, non è stata che la punta dell’iceberg della ricerca in questo settore. Da un lato questi anticorpi rappresentano il modello a cui tendere per la creazione di un vaccino efficace: dopo anni di tentativi infruttuosi, sapere quale tipo di risposta immunitaria deve scatenare un vaccino per essere protettivo è un punto di riferimento essenziale per guidare la ricerca in questo settore. Per esempio, il gruppo di ricerca di Olivier Schwartz dell’Istituto Pasteur ha dimostrato che gli anticorpi bNAbs formano degli aggregati sulla superficie dei linfociti CD4, cioè le cellule che vengono infettate dal virus HIV. Questi aggregati di bNAbs non solo ostacolano il rilascio di nuovi virioni ma impediscono anche la formazione di «sinapsi» tra cellule immunitarie che permettono al virus di passare direttamente da una cellula all’altra sfruttando ponti citoplasmatici (vedi Punto 1 di questo articolo).

Ma gli effetti positivi degli anticorpi bNAbs sono anche altri: infatti, gli aggregati che i bNAbs formano sulla superficie delle cellule infettate richiamano l’azione delle cellule NK, che uccidono le cellule in cui si nasconde il virus. Di nuovo cellule NK! Le stesse cellule immunitarie che gli esperimenti di Michaela Müller-Trutwin (vedi Punto 2 di questo articolo) hanno dimostrato essere fondamentali per tenere sotto controllo l’infezione nel cercopiteco gialloverde.

6. E il vaccino?

Al termine dell’incontro, sono stati i ricercatori dell’Istituto Pasteur a porre una domanda al pubblico:

«Che cosa, secondo voi, dovrebbe essere in testa alle priorità della ricerca per i prossimi anni?»

In platea tutti abbiamo iniziato a digitare le nostre risposte sul cellulare per partecipare al sondaggio in tempo reale e sono bastati pochi secondi per vedere che, a farla da padrone, era una risposta sola: un vaccino anti-HIV.

Mentre il sondaggio dava il suo responso, da più parti in sala si sentivano persone sussurrare all’orecchio del vicino «vaccins à ARN», vaccini a RNA. Anche chi non fa ricerca sa ormai che questa tecnologia rivoluzionaria – impiegata per la prima volta nella pandemia di COVID-19 – ha rappresentato un punto di svolta epocale che ha consentito di sviluppare in pochi mesi un vaccino contro SARS-CoV-2. Forse questa nuova tecnologia può aiutare a mettere a punto un vaccino efficace anche contro HIV?

Su questo punto, gli esperti dell’Istituto Pasteur per il momento invitano alla cautela: i vaccini a RNA sono una tecnologia promettente ma non bisogna dimenticare che HIV e SARS-CoV-2 sono due virus con caratteristiche biologiche molto diverse. Innanzitutto, HIV è un retrovirus che si inserisce nel genoma delle cellule infettate e instaura infezioni latenti da cui, finora, nessuna persona è mai guarita in modo naturale. Inoltre, HIV colpisce le cellule immunitarie, proprio quelle che dovrebbero difendere l’organismo dalle infezioni. Infine, ci sono le numerosissime varianti che il virus può generare anche nella stessa persona e che fino a oggi hanno trasformato gli studi sul vaccino in una continua rincorsa, in cui i risultati ottenuti sembrano sempre arrancare dietro a un virus immancabilmente in vantaggio.

Quindi, non si può ancora affermare che i vaccini a RNA saranno in grado di debellare l’HIV, ma certamente forniscono un bagaglio di conoscenze e tecnologie tutte nuove da cui la ricerca di un vaccino anti-HIV può trarre beneficio.

Per il momento, le strategie più promettenti per contrastare l’HIV rimangono la prevenzione dell’infezione, la diagnosi precoce e il tempestivo trattamento antiretrovirale nelle prime fasi dell’infezione: questi sono i punti che Françoise Barré-Sinoussi ritiene fondamentali per porre fine alla pandemia di HIV.

Ancora oggi, circa il 30% delle persone riceve la diagnosi quando l’infezione è già a uno stadio avanzato e più di 10 milioni di persone sieropositive nel mondo non hanno accesso ai trattamenti antiretrovirali. La partita contro l’HIV continua quindi a giocarsi su due campi: quello biologico, per scoprire le caratteristiche che fino a oggi hanno reso questo virus un mastro del camouflage immunologico, e quello sociale, per aumentare la consapevolezza verso questa infezione e annullare lo stigma e le discriminazioni che le persone sieropositive devono ancora affrontare in molti contesti. Per Françoise Barré-Sinoussi l’obiettivo per i prossimi anni è chiaro: «debellare l’HIV da qui al 2030, spero».

5 passi per approfondire
  1. Il video (in francese con sottotitoli in italiano) in cui Francoise Barré-Sinoussi ripercorre i punti più importanti della scoperta dell'HIV, avvenuta il 20 maggio 1983.
  2. Il sito web dell'Istituto Paesteur di Parigi dedicato ai 40 anni dalla scoperta dell'HIV.
  3. Il pdf pubblicato dall'Istituto Pasteur di Parigi che raccoglie molti degli ultimi traguardi della ricerca sull'HIV presentati in questo articolo.
  4. Il podcast di Aula di Scienze - Voci in Agenda per ripassare come ha avuto origine il salto di specie di HIV e per ascoltare l'intervista ad Alessandra Scagliarini su zoonosi e progetto One Health.
  5. L'articolo di Aula di Scienze sul «caso Gaëtan Dugas», l'uomo che per anni è stato vittima dell'accusa infondata di essere il «paziente zero» dell'HIV.

Foto in homepage: National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID)/Wikimedia Commons

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Il cercopiteco gialloverde (Chlorocebus sabaeus). Fonte: Atamari/Wikimedia Commons
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L'anticorpo neutralizzante ad ampio spettro VRC01 è in grado, in vitro, di riconoscere circa il 90% delle varianti di HIV. Immagine: National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID)/Wikimedia Commons
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La proteina CCR5 favorisce l'ingresso del virus HIV nelle cellule. Immagine: US National Institutes of Health - National Institute of Allergy and Infectious Diseases/Wikimedia Commons
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Un linfocita T sotto attacco da parte di numerosi virus HIV (in giallo). Immagine: NIH Image Gallery/Wikimedia Commons
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I nuovi virioni di HIV (in verde) vengono assemblati e gemmano in corrispondenza di specifiche protuberanze della cellula infettata. Immagine: C. Goldsmith; CDC/ C. Goldsmith, P. Feorino, E. L. Palmer, W. R. McManus/Wikimedia Commons
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Una panchina in Mozambico per sensibilizzare alla diagnosi precoce: «Dimostrami il tuo amore: fai il test dell'HIV con me». Immagine: Senorhorst Jahnsen/Wikimedia Commons
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Il 1° giugno 2023 Francoise Barré-Sinoussi (la terza da sinistra) ha partecipato all'incontro pubblico dedicato ai 40 anni dalla scoperta dell'HIV. Immagine: Lara Rossi
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Struttura del virus HIV. Immagine: Drs. Louis E. Henderson and Larry Arthur. NIH 1994/Wikimedia Commons